Tanzi e le Termiti di Stato: un commento

Vincenzo Visco commenta il volume di Tanzi, Termites of the State iniziando con il sottolineare che si tratta di un libro sulle disuguaglianze economiche e sul ruolo delle “termiti” che rischiano di delegittimare sia lo Stato sia il mercato. Visco tocca poi vari temi tra cui le similitudini tra l’epoca attuale e l’inizio del secolo scorso, le ragioni di fondo del conflitto recente tra neo-liberisti e neo-keynesiani - che, a suo parere riguardano soprattutto i sistemi di welfare – e l’eventuale opportunità di un trasferimento di reddito uguale per tutti, proposto anche da Tanzi.

Termites of the State è un libro molto impegnativo e complesso (soprattutto per chi lo ha scritto!). E’ un libro che tratta di storia economica, dell’intervento pubblico in economia negli ultimi 100-130 anni, di spesa pubblica, di tasse, di assetti istituzionali dei Paesi….

Ma soprattutto è un libro sulle diseguaglianze economiche, sulle cause e i comportamenti che le hanno determinate negli ultimi anni, e una riflessione sulla condizione attuale delle nostre società, sempre più complesse e in preda all’azione e al sabotaggio di “termiti” che rodono le fondamenta sia dello Stato che del mercato, finendo per delegittimare ambedue.

Nelle mie osservazioni parto dall’analisi storica. Tanzi individua e si concentra su tre periodi di storia del capitalismo, e individua delle similarità tra la fase che stiamo vivendo ora e quella del laissez faire tra la fine dell’’800 e la fine degli anni ’20 del secolo scorso. Io vorrei ulteriormente approfondire e integrare questo punto.

In effetti le somiglianze sono notevoli: i primi decenni del ‘900 furono caratterizzati da una globalizzazione delle economie e dalla integrazione dei mercati, da imponenti flussi migratori interni e tra i Paesi, dal forte sviluppo ed effervescenza dei mercati finanziari, da una forte domanda di risorse per finanziare investimenti che incorporavano nuove tecnologie: ferrovie, elettricità, telefono, auto, petrolio, ecc.

Grandi possibilità di arricchimento personale erano presenti, soprattutto attraverso la borsa con la conseguente concentrazione dei redditi e della ricchezza. L’”effervescenza irrazionale” dei mercati provocò bolle speculative che sfociarono nella crisi del 1929, col fallimento delle banche e produssero la grande depressione degli anni ‘30, aggravata da (errate) politiche di austerità. La disoccupazione arrivò al 25-30%. Sembra il racconto degli ultimi 10-20 anni.

Le caratteristiche comuni dei due periodi sono impressionanti: liberismo senza freni in economia, globalizzazione, salto tecnologico che giustifica euforia, ottimismo (la grande moderazione), e la richiesta di enormi risorse per investimenti nei nuovi settori trainanti, pratiche finanziarie innovative (e spesso scorrette), ecc. La crisi del 2007 fu la inevitabile conclusione di questa fase. E in verità per alcuni aspetti la crisi del 2007 fu più grave di quella del ’29, ma fu gestita molto meglio: la recessione non si trasformò in depressione, le banche non furono lasciate fallire. Del resto Bernanke aveva studiato a fondo la crisi del 1929.

E’ anche interessante notare come tra le due guerre Frank H. Knight grande economista di Chicago si mostrasse perfettamente consapevole degli effetti distributivi perversi di un mercato non regolato, scrivendo ne 1923: “Il sistema competitivo distribuisce il prodotto delle attività sulla base del potere, cosa che può definirsi etica solo se giustizia e potere sono considerate la stessa cosa”.

Oggi siamo di fronte a un serio rischio politico, come negli anni ’30: populismo, radicalizzazione dei ceti medi, impoverimento di strati crescenti della popolazione, paura, chiusura, bisogno di protezione, protezionismo economico, crisi della democrazia, e (rischi di) guerra. Oggi il rischio non è più Hitler, ma è rappresentato da personaggi come Orban, Erdogan, i governanti polacchi e i loro emuli in giro per il mondo, o da regimi infiltrati direttamente dalla malavita, come a Malta e in Slovacchia. In Europa si affermano leaders come Le Pen, Salvini, ecc. I rischi per le democrazie liberali sono seri: formalmente la democrazia rimane (si vota), ma in realtà siamo in presenza di governi autoritari. In sostanza il liberismo senza freni aumenta le diseguaglianze, provoca instabilità e crisi economiche, e in conseguenza, crisi politica.

Il periodo più interessante è però quello successivo alla crisi del ’29, tra le due guerre, e dopo la seconda guerra mondiale che della crisi fu il risultato finale. Sono i 30 (anni) gloriosi, gli anni di Keynes e della socialdemocrazia, anni in cui gli spiriti animali del capitalismo furono messi sotto controllo, con la regolamentazione di tutti i mercati a partire dai mercati finanziari, segmentazione dell’attività bancaria, controllo dei movimenti di capitale, cambi fissi, ma aggiustabili in caso di necessità, impegno dei Governi per la piena occupazione (Tanzi ricorda il Full Employment Act degli Stati Uniti), imprese pubbliche, rafforzamento e riconoscimento del ruolo dei sindacati, welfare state, creazione della classe media, redistribuzione del reddito, mobilità sociale, società stabili, democrazie solide, fiducia dei cittadini nella politica.

In sostanza in quel periodo si riconosce che il capitalismo è un formidabile strumento di produzione della ricchezza, di incremento del reddito, ma che, se lasciato a se stesso, esso inevitabilmente crea diseguaglianze, polarizzazione dei redditi, instabilità economica, inquinamento…, con relative conseguenze sociali. Esso quindi va controllato e regolato, altrimenti può finire male, molto male.

Ma con i controlli si può esagerare. Ed è proprio quanto è accaduto nei 30 anni ricordati: eccesso di regolazione, strapotere sindacale, sprechi economici, negazione delle compatibilità economiche, inflazione unita a disoccupazione. Si creano, quindi, le condizioni per la messa in discussione e il rifiuto del modello che pure aveva avuto un enorme successo pratico. Una crisi da eccesso di successo. Il liberismo economico può prendersi la sua rivincita.

Questa rivincita passa per il recupero di una egemonia culturale. Nixon (presidente repubblicano) diceva “siamo tutti keynesiani” certificando l’egemonia di una cultura economica, sociale, politica che ora viene invece contestata e contrastata sul piano scientifico da economisti di prim’ordine. Tanzi ricorda i contributi anti keynesiani in economia, ma lo stesso fenomeno accadeva nelle altre scienze sociali. Tanzi cita la teoria delle aspettative razionali, l’equivalenza ricardiana, la curva di Laffer, la teoria della Public Choice, e stranamente dimentica la tassazione ottimale che ha rappresentato un impressionante caso di spreco di preziose (e scarse) risorse intellettuali negli ultimi 30 anni.

L’insieme delle nuove teorie indicano in estrema sintesi, che l’intervento dei Governi nell’economia è inutile perché i mercati anticipano e compensano le azioni del Governi; che il finanziamento della spesa pubblica in disavanzo è inutile perché non crea domanda aggiuntiva; che se si riducono le tasse aumenta il gettito; che le imposte sono tutte distorsive, ma, se proprio non se ne può fare a meno, è bene tassare i consumi popolari e detassare i ricchi, per pure, oggettive, ragioni di efficienza; che i politici sono tutti mascalzoni, interessati, probabilmente ladri, e che quindi lo Stato, il Governo va visto con sospetto, e la “bestia” va affamata.

Quindi: deregulation, privatizzazioni, equilibrio dei bilanci pubblici, indipendenza delle banche centrali, riduzione delle imposte, tagli alla spesa pubblica, flessibilizzazione dei mercati del lavoro, indebolimento dei sindacati,

Le pratiche liberiste provocano, come ovvio, la crescita delle diseguaglianze.

Lo scontro tra neoliberisti e keynesiani, a ben vedere, riguarda soprattutto i sistemi di welfare. L’attacco ai bilanci pubblici è in primo luogo un attacco alla spesa sociale e ai suoi costi. Il desiderio, la fantasia segreta dei nuovi padroni del mondo è quella di tornare allo Stato minimo, che assicura la difesa nazionale, l’ordine pubblico, i tribunali, qualche infrastruttura, e basta. Spesa pubblica al 15% del Pil, e non più al 30-40%. In sostanza sono i ricchi che si rifiutano di finanziare e garantire una vita decente ai poveri. Se poi, come negli Stati Uniti, i poveri sono anche ex schiavi neri, le resistenze sono ancora maggiori: del resto è noto che questo è stato il motivo del mancato sviluppo di un sistema di welfare di tipo europeo negli Stati Uniti. Per i liberisti va bene la carità privata, volontaria, ma non un welfare pubblico.

La soluzione che Tanzi propone è un reddito di cittadinanza: la combinazione di una imposizione proporzionale o progressiva, con una erogazione eguale per tutti, con forti effetti redistributivi. Ognuno potrebbe utilizzare liberamente l’assegno ricevuto, e vi sarebbe il vantaggio della eliminazione di imponenti apparati burocratici collegati agli attuali programmi di spesa. Come è noto, in proposito esiste un abbondante e crescente dibattito accademico relativo ai costi di una tale operazione, agli effetti sugli incentivi al lavoro degli schemi di reddito di cittadinanza ecc. Non si può escludere che in futuro l’aumento del reddito, la diffusione di tecnologie labour saving, consigli di andare in quella direzione. Ma personalmente ritengo che interventi di sostegno dovrebbero comunque distinguere tra situazioni diverse che richiedono interventi e aiuti diversi, e anche differenziati: povertà, disoccupazione, carichi familiari, handicap, disagio mentale, ecc., e quindi qualche complicazione amministrativa sarebbe comunque inevitabile. Va notato che la soluzione proposta da Tanzi, a parte l’elevata pressione fiscale che richiederebbe, risulta compatibile con un approccio liberale e forse anche liberista.

Ma personalmente ho l’impressione che il problema di fondo sia molto più serio: se si desidera affrontare in modo efficace il problema delle diseguaglianze, sarebbe necessario cambiare o correggere il modo di funzionamento attuale del capitalismo. Gli ultimi 30 anni, infatti, sono stati caratterizzati da specifiche evoluzioni nel funzionamento delle economie: è aumentata la concentrazione dei sistemi produttivi in tutti i settori; le politiche della concorrenza hanno dato scarso rilievo alle dimensioni assunte dalle imprese e quindi alla capacità di controllare e influenzare il funzionamento dei mercati (e dei Governi), nella convinzione che le fusioni e le acquisizioni, nella misura in cui comportano costi più bassi determinano comunque benefici per i consumatori. Ciò è illusorio. E in realtà abbiamo assistito ad un enorme processo di estrazione di rendite, spesso a scapito di imprese di minore dimensione, situate in Paesi di modesta rilevanza politica, che sono state eliminate con la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro.

Tanzi ricorda il ruolo dei brevetti che ha avuto ed ha la stessa funzione di estrarre rendite da situazioni di monopolio artificialmente create dai Governi: oggi tutto è brevettabile, dal software alle procedure aziendali. Lo spirito della ricerca scientifica è stato corrotto alla radice: oggi ciò che è importante è brevettare qualcosa che possa dar luogo ad una start up e successivamente venderla o quotarla in borsa realizzando un profitto di monopolio.

Analogamente per quanto riguarda il funzionamento delle imprese: esso non è più indirizzato al soddisfacimento dei clienti, al miglioramento della produzione e della forza lavoro, bensì alla massimizzazione del valore per gli azionisti, nuovo imperativo etico che implica la massima durezza nei confronti dei dipendenti e dei fornitori, la compressione delle paghe e dei salari, e naturalmente compensi stratosferici per i managers.

Un ulteriore problema è rappresentato dalle imprese che controllano le piattaforme digitali: si tratta di monopoli che utilizzano il frutto gratuito delle attività degli utilizzatori, che si appropriano gratuitamente dei loro dati che poi usano o rivendono, monopolizzando al tempo stesso pubblicità e attività di intermediazione. Si tratterebbe a rigore di logica di imprese che andrebbero regolate e smembrate, così come andrebbe fatto per le grandi banche internazionali.

In sintesi il funzionamento attuale delle economie ha prodotto una straordinaria concentrazione di potere, reddito e capacità di influenza politica, spesso in condizioni di assenza di imposizione.

Se queste questioni sono all’origine della crescita delle diseguaglianze nei nostri Paesi, sembra evidente che la loro riduzione implicherebbe il cambiamento di alcuni meccanismi fondamentali del funzionamento attuale delle nostre società. Come riuscire a farlo è la domanda che deve interessarci oggi.

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