Spinte demografiche e sostenibilità dello sviluppo.

Le idee del passato e le sfide di oggi.

Le correlazioni tra sviluppo economico e dinamiche demografiche sono profonde.

Questi legami cominciarono a risultare evidenti fin da quando, a seguito della rivoluzione industriale, l’Europa fu interessata da un significativo aumento della popolazione. Le preoccupazioni che ne derivarono accesero un dibattito che dura ancora oggi, con ravvivata intensità e varietà di posizioni. Tuttavia, negli oltre due secoli da allora trascorsi, i termini della percezione di questa problematica sono cambiati.

L’intento dello scritto è quello di delineare brevemente le progressive trasformazioni che l’approccio al problema ha subito nel corso del tempo nella storia del pensiero economico, arrivando fino ai nostri giorni. Lungo questo percorso è possibile rinvenire quattro momenti cruciali.

Una prima fase è quella dell’economia pre-classica. In questo periodo, autori come Giovanni Botero (Botero G., 2003), assunsero un atteggiamento di sostanziale approvazione riguardo alla crescita della popolazione. La tesi di questi studiosi era quella secondo la quale l’incremento della popolazione avrebbe aumentato la disponibilità di manodopera e, quindi, sarebbero cresciute la produzione e la ricchezza.

La seconda fase risale invece alla fine del ¢700 quando, complice un periodo di inedito incremento della popolazione, si cominciarono a far strada le prime preoccupazioni riguardo una possibile insufficienza di sussistenze e di risorse naturali su cui basare la crescita economica.

Tra la fine dell’ ¢800 e l’inizio del ¢900, gli studiosi acquisirono consapevolezza delle conseguenze del processo di transizione demografica. Questi, messi di fronte ad una progressiva riduzione dei tassi di natalità, cominciarono a concentrarsi sulle possibili problematiche prodotte dalla diminuzione della popolazione.

Oggi l’una e l’altra problematica coesistono. Da una parte infatti ci sono i paesi industrializzati, che si trovano a dover affrontare i problemi dovuti all’invecchiamento della popolazione, determinato da un tasso di crescita demografica inferiore al livello di rimpiazzo e dall’allungamento della durata media della vita. Allo stesso tempo rimane la preoccupazione per gli elevati tassi di crescita demografica che si registrano nei paesi in via di sviluppo. Qualche dato può essere utile per inquadrare i termini del problema. Le stime delle Nazioni Unite prevedono che nel 2050 la popolazione mondiale ammonterà a 9,2 miliardi di persone. Se però il numero degli abitanti dei paesi più sviluppati, tra il 2007 e il 2050, si manterrà sostanzialmente stabile intorno all’1,25 miliardi (con un raddoppiamento della popolazione oltre i 65 anni), al contrario, nell’insieme dei paesi in via di sviluppo le proiezioni delle Nazioni Unite prevedono che la popolazione raggiungerà i 6,55 miliardi nel 2050 (dai 3,9 miliardi di oggi). A questi si aggiunge poi l’1,4 miliardi di persone che nel 2050 popoleranno la Cina (oggi sono 1,3 miliardi) (Onu, 2007).

Di fronte a questi dati, ancora oggi tra gli studiosi è possibile rinvenire la tradizionale linea divisoria tra malthusiani, preoccupati che una popolazione in continua crescita induca uno sfruttamento sempre più intenso delle risorse del pianeta, e coloro che invece invitano alla moderazione.

Di più, negli ultimi anni si è aggiunto un terzo filone che va acquisendo via via una maggiore importanza. Quello di quanti evidenziano le problematicità derivanti dall’invecchiamento della popolazione nei paesi più ricchi. Questo aspetto risulta più che mai serio nel nostro paese. Come è stato più volte ribadito nel corso del convegno conclusivo della ricerca condotta dalla rivista Etica ed Economia in merito alla situazione demografica del nostro paese e alle ripercussioni dell’invecchiamento della popolazione sul nostro sistema economico, l’Italia registra un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa. In quella stessa sede Giovanna Maria Piras e Francesco Zollino hanno sottolineato come la tendenza all’invecchiamento della popolazione sia più accentuata nel nostro paese, che insieme al Giappone mostra di avere il più rapido tasso di invecchiamento demografico.

Problemi diversi dunque coesistono nelle varie parti del pianeta.

In effetti, la paura malthusiana dell’insufficienza di generi alimentari non sembra aver trovato conferma nella realtà. Prova ne è che, dai tempi di Malthus, la popolazione è aumentata di oltre sei volte (passando dal miliardo di persone della fine del ´700 ai 6,7 miliardi di individui che popolano la terra oggi), e la produzione di sussistenze è cresciuta più che proporzionalmente rispetto alla popolazione. Ciononostante la crescita demografica rimane ancora un problema centrale per lo sviluppo dei paesi poveri, e per la sostenibilità dello sviluppo globale[1].

A questo proposito, è dagli anni Settanta del ´900 che si è assistito ad un nuovo, crescente interesse per la tematica della correlazione tra crescita demografica e sviluppo economico, con particolare riferimento alla sostenibilità dello sviluppo. Le preoccupazioni suscitate dagli altissimi tassi di crescita della popolazione negli anni Sessanta e Settanta (negli anni Settanta nei Paesi in via di sviluppo, si raggiunse una media di 5,9 figli per donna), avevano indotto studiosi e autorità a riconoscere che a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, il pianeta era entrato in una nuova, rivoluzionaria (e pericolosa, per i neo-malthusiani) era demografica. Studiosi quali D. Meadows, L. Robbins, così come la Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, hanno mostrato forti preoccupazioni riguardo le conseguenze degli ulteriori, ed inevitabili, incrementi demografici. Non sono mancate tuttavia posizioni più moderate, come quella espressa da Simon Kuznets. Questo studioso infatti non ha presagito per il nostro pianeta disastrose conseguenze derivanti da ulteriori incrementi della popolazione. Piuttosto, si è limitato a constatare come l’elevata crescita demografica rappresenti un grosso ostacolo alla capacità di sviluppo dei paesi poveri (Kuznets S., 1990, p. 131). Che si voglia aderire all’una o all’altra posizione, emerge con chiarezza come in ogni caso le dinamiche demografiche siano correlate a quelle dello sviluppo dei sistemi economici.

Per questo, non si può dimenticare che ad influire sulla dinamica demografica di un paese intervengono in modo decisivo fattori diversi, quali il grado di diffusione dell’istruzione e il livello delle condizioni igienico-sanitarie in cui versa la popolazione. Occorre perciò indagare se sia la crescita a provocare una diminuzione della popolazione o se sia la diminuzione della popolazione a innescare il processo di crescita.

Nel caso del continente europeo la crescita ha costituito la premessa di un processo di diminuzione della popolazione. In Europa infatti, se nel periodo immediatamente successivo alla rivoluzione industriale si registrò un aumento della popolazione senza precedenti, in un secondo tempo, quando i progressi economici portarono ad un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, l’incremento demografico cominciò a rallentare in modo costante. Dunque, la crescita economica conseguente alla rivoluzione industriale determinò un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, che rese possibile l’avvio del processo di transizione demografica.

Al contrario, la diminuzione della popolazione che nell’ultimo secolo ha riguardato il continente latino-americano, si è verificata indipendentemente dalla crescita dell’economia, ed è stata invece determinata da un migliore contesto igienico-sanitario e dalla contestuale adozione di modelli e di stili di vita tipicamente occidentali. Il caso dell’America Latina mostra che la diffusione dell’istruzione e il miglioramento delle condizioni sanitarie possono condurre ad una riduzione del tasso di incremento demografico anche in assenza o in presenza di bassi livelli di crescita. La crescita, da sola, non sembra poter portare a riduzioni nel tasso di incremento demografico; perché questo avvenga è necessario un più articolato processo di sviluppo che porti la popolazione a veder migliorare le proprie condizioni di vita. Quanto appena detto non deve però indurre a concludere che la crescita costituisca un fattore ininfluente sulla transizione demografica. In primo luogo infatti, essa agisce direttamente su quella serie di fattori sociali (istruzione, condizioni igienico-sanitarie, sistema di tutele sociali) che influiscono a loro volta sui tassi di natalità e di mortalità della popolazione. In secondo luogo, se l’aumento del reddito di una nazione innesca una serie di reazioni che condurranno alla transizione demografica, esso pone anche le basi perché quella stessa nazione sia in grado di affrontare la diminuzione della popolazione ed il suo invecchiamento, rendendo possibile l’istituzione di sistemi di welfare che possano garantire adeguati livelli di assistenza e di equità.

Con l’obiettivo però di tutelare non soltanto le generazioni presenti, ma anche quelle future, ai policy makers vengono affidate, perciò, nuove sfide decisive. Date infatti delle risorse naturali che non sono infinite e una popolazione che cresce sia dal punto di vista numerico che da quello economico, occorre dare risposta alla necessità di salvaguardare quelle risorse e di procedere, in maniera equa ed efficiente, alla loro distribuzione.

Simona Ferrulli

Bibliografia Essenziale

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[1] A questo proposito, nel già richiamato convegno organizzato dalla rivista Etica ed Economia, è il prof. Franzini a sottolineare come nell’affrontare discussioni circa il livello presumibilmente ottimale della popolazione, bisognerebbe tenere in considerazione i problemi della sostenibilità dello sviluppo e dell’accesso alle risorse.

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