Perché la storia

Bruna Ingrao riflette sugli effetti della drastica riduzione dello spazio dedicato alla storia del pensiero economico e alla storia economica all’interno dei corsi universitari in economia. Ingrao sottolinea, in particolare, l’impoverimento che ne deriva per la capacità degli economisti di interpretare la complessità dei fenomeni economici e sociali e richiama l’attenzione sulla necessità di tornare urgentemente a valorizzare le due discipline e la loro capacità di sollecitare la curiosità attraverso la narrazione di uomini, eventi ed idee.

Nelle università si è drasticamente ridotto, nei corsi di economia, lo spazio dedicato alla storia del pensiero economico e alla storia economica. In Italia, come a livello internazionale, si assiste alla progressiva scomparsa della storia nella formazione dell’economista. Scompare dai requisiti della formazione perfino l’introduzione alla storia delle idee economiche; si diluisce la conoscenza degli eventi economici nel tempo: i regimi monetari, le fasi dello sviluppo, le crisi finanziarie, l’innovazione tecnologica, l’evoluzione delle politiche economiche. Le due discipline, marginali o assenti nelle lauree triennali, sono quasi scomparse nella formazione magistrale e dottorale, quasi fossero un ornamento per l’arricchimento culturale degli studenti, non un pilastro della formazione cognitiva.

Un laureato in economia può uscire dal percorso formativo ignorando Smith, Walras o Schumpeter, senza nozione del dibattito passato su liberismo ed economia pianificata, senza saper distinguere tra liberismo e liberalismo, senza conoscere la prima rivoluzione industriale, la grande depressione, l’evoluzione dei regimi monetari, e così via. Ciò porta in prospettiva all’impoverimento culturale della figura dell’economista. Dobbiamo preoccuparcene? E perché? Intendo argomentare che è urgente ripristinare il ruolo della storia economica e della storia delle idee nella cassetta degli strumenti dell’economista, non solo per l’ovvia ragione di evitare l’ignoranza. Le ragioni profonde riguardano il mestiere dell’economista, come deve essere correttamente esercitato nella costruzione delle teorie, nell’interpretazione dell’attualità, nel contributo alla politica economica per identificarne i compiti e gli aspetti operativi.

Qual è il significato della storia economica per l’economista contemporaneo impegnato prioritariamente nella costruzione di modelli matematici e nella verifica econometrica? E’ l’educazione alla comprensione della complessità nell’economia e specificamente nella rete globale dei mercati: le interazioni con gli aspetti della socialità legati alle istituzioni, alle norme, ai valori; la temporalità irreversibile degli eventi; i processi di cambiamento di medio e lungo periodo. La capacità di vedere la complessità, che è portata dalla conoscenza storica, affina il giudizio dell’economista come teorico, come econometrico, come protagonista delle scelte di politica economica. Il mestiere dell’economista, oltre a capacità logiche, chiede la solidità del giudizio, cioé l’intelligente comprensione per discriminare e adattare flessibilmente i principi nella lettura degli eventi reali, immersi nella storia con dinamica evolutiva irreversibile.

La teoria economica contemporanea rivendica la libertà di modellizzazione: concepisce come compito della teoria la costruzione di modelli matematici immaginati come esperimenti mentali, definiti ora casi ideali, ora casi esemplari, ‘favole’ o ‘storie’. L’economista teorico rivendica la libertà di costruire nei modelli esperimenti mentali per trarne conclusioni in linea deduttiva. La prassi di ricerca dominante scava una distanza incolmabile tra la teoria e l’interpretazione, che non può essere colmata rigorosamente con il ricorso all’evidenza empirica, spesso neppure invocata a riscontro per la natura astratta dell’esperimento cognitivo costruito.

Come discernere la rilevanza o l’irrilevanza del ‘gioco’ teorico per la comprensione della realtà, supposto se ne possano ricavare conclusioni forti, cosa che non sempre l’apparato matematico sofisticato permette? La percezione della complessità della storia e la facoltà del giudizio rientrano di prepotenza dalla finestra nell’interpretazione, dopo essere state cacciate dalla porta formale del modello. Si deve valutare, con attività cognitiva indipendente e specifica, se e quando, entro quali limiti, per quali problemi il ‘gioco’ teorico del modello rilevi nella lettura degli eventi, che si presentano con urgenza all’attenzione dell’economista. Qui la conoscenza della storia economica è compagna indispensabile alla teoria economica, se questa deve prendere senso e trasformarsi in interpretazione della realtà.

La finezza dell’osservazione storica, la narrazione temporale degli eventi, la conoscenza della pluralità degli attori in gioco, insegnano a pesare il giudizio sul rilievo dei vari aspetti in uno specifico panorama. Schumpeter, Fisher o Friedman, autori diversi per approccio d’idee e metodo, hanno fuso nelle loro opere sul ciclo economico teoria e attenzione alla storia economica. A maggior ragione, l’adozione dell’epistemologia ispirata all’estrema libertà di modellizzazione impone all’economista l’affinamento del giudizio nella conoscenza storica, pena il rischio di scadere nell’irrilevanza o nell’irrealtà. Ciò è accaduto nella costruzione delle teorie dette del ciclo reale, dove modelli matematici con un solo agente rappresentativo, sorta di eremita isolato, sono stati spacciati come solide teorie delle fluttuazioni economiche, per cadere nell’irrilevanza e perfino nel ridicolo a fronte della crisi finanziaria 2007-2009, crisi dove è stata cruciale la struttura finanziaria stratificata e fragile, che nei mercati globali legava senza trasparenza agenti diversi, debitori e creditori, con informazione asimmetrica e opaca sulle reciproche situazioni di bilancio.

Nella politica economica, l’attenzione alla storia insegna contro le narrazioni semplificate quanto sia complesso il cambiamento, che deve far interagire mutamenti istituzionali, tecnologici, di norme, di idee, di capacità umane e quanto sia difficile, per promuoverlo, rompere assetti sociali e istituzionali, che abbiano assunto nella storia una stabile, sia pure infelice, coerenza. Nel medio periodo, la politica economica è la costruzione di progetti di cambiamento economico e sociale: richiede l’intervento coordinato tra gli attori disparati, che controllano le risorse pubbliche nelle amministrazioni e nelle istituzioni politiche.

La storia economica insegna la difficoltà delle ricette elementari, mettendo in scena la pluralità degli attori coinvolti nella costruzione delle politiche e i loro conflitti. Quanti progetti per la crescita nelle aree a basso reddito o nei paesi in via di sviluppo si sono arenati per la cecità cognitiva sulla complessità del cambiamento sociale e delle sue dinamiche. Sono temi discussi di recente nelle teorie dello sviluppo ispirate a quadri di lungo termine, dove le istituzioni giocano nell’evoluzione storica. Sono temi discussi nell’analisi storica delle crisi finanziarie o del crollo dei regimi monetari, dove la letteratura storica mette a fuoco la lungimiranza o la cecità dei protagonisti, i problemi di comunicazione, la resistenza degli apparati burocratici, le inerzie nelle scelte politiche. Nell’emergenza finanziaria, come nelle recessioni prolungate, la storia economica insegna la necessità di scelte cruciali, nel contenuto e nel momento, dalle quali dipende l’immediata evoluzione degli eventi economici, come, nel qui e nell’ora, ne potrebbero dipendere una rivoluzione, il crollo di uno Stato, una guerra.

Da qualche decennio la ‘nuova economia politica’ usa la modellizzazione matematica per affrontare temi al confine tra scienza politica ed economia, intrecciati a dinamiche politiche o istituzionali, che sono oggetto della riflessione storica. Le pretese di espandere il campo di ricerca in economia, con gli strumenti ritenuti specifici dell’economista, portano ad affrontare temi come la formazione degli stati nazionali, l’etnicità, la schiavitù, la famiglia, i divari di sviluppo a lungo termine, temi che coinvolgono simultaneamente la sociologia, la scienza politica, l’antropologia, sempre con una dimensione di storicità. Si rivendica l’efficacia degli strumenti modellistici per produrre generalizzazioni valide, con scarso rispetto di quanto la ricerca storica abbia già prodotto, in lavori puntuali o in panoramiche di ampio respiro, con narrazioni che rispettano i canoni di rigore della ricerca storiografica in quanto tale.

Per studiare processi sociali, che hanno nel percorso storico caratteri di sequenzialità, endogeneità, cause molteplici e controverse in contesti storici diversi, si è scaduti in equazioni mal specificate, con spreco di esercizi econometrici, di cui sono mal definiti l’ambito di applicazione, le coordinate temporali, i nessi di causalità. Il ritardo di sviluppo nei paesi africani è stato spiegato frettolosamente con speculazioni sulla tropicalità o la diversità etnica assunte quali variabili esogene nel continente, non si sa su quale incerto arco temporale. Si ignora, allo stesso tempo, come il continente africano sia stato terreno caldo e insanguinato della guerra fredda, con effetti devastanti e durevoli sugli assetti istituzionali e sull’economia. La conoscenza della storia economica deve svolgere una duplice funzione per l’economista impegnato nella teoria e nella politica economica, cognitiva e conoscitiva: educa a riconoscere la complessità dinamica e la sequenzialità irreversibile, proprie dei processi sociali nella storia, mentre offre una gamma amplissima di casi di studio sul successo o sul fallimento delle politiche non ridotti allo scheletro semplice delle equazioni di un modello.

Perché infine la storia delle idee? L’economia, nata nell’ambito della filosofia morale nel diciottesimo secolo, resta oggi una disciplina eclettica in rapporto con la filosofia morale, la cui riflessione non può essere scissa dai concetti di felicità, utilità, reciprocità, lavoro, libertà, socialità, equità, giustizia, Stato, per citarne alcuni essenziali nel discorso economico. L’economista deve comprenderne la valenza ampia e controversa, mentre spesso non ne conosce né le ambiguità né lo spessore. Nella ricerca la storia del pensiero illumina in modo appassionante la logica delle idee nel loro sviluppo, per chiarire punti morti o irrisolti, tracce di ricerca feconde ma parzialmente sviluppate, nessi con la storia economica, i fili rossi delle idee che legano presente e passato, illuminando criticamente l’approdo della teoria contemporanea. Non c’è grande economista del passato, che non si sia misurato con questi fili teorici, da Smith fino ai colti autori contemporanei come Hicks, Solow o Sen. La storia del pensiero, travalicando le classificazioni convenzionali, fa vedere le intersezioni, il dialogo delle idee o il suo fallimento, il contesto della ricerca. Se ne traggono molteplici spunti per procedere nel lavoro teorico contemporaneo. Nella politica economica, il dibattito delle idee è cruciale per mettere a fuoco i compiti, che ne devono essere l’oggetto. Né va trascurata la funzione delle due storie nella didattica. Gli studenti chiedono seminari di storia economica e di storia del pensiero, perché ne sentono la carenza nel percorso formativo. Al nocciolo, le due storie sono narrazioni di uomini, di eventi, di idee, che offrono l’incanto della curiosità, il fascino dell’esplorazione.

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