Pensioni e illusioni

Civil servant ricorda le modalità di funzionamento dei sistemi previdenziali e chiarisce che provvedimenti come “quota 100” non possono che ridurre gli assegni mensili di chi, anticipando il pensionamento, avrà più anni di riposo. Civil servant sottolinea che si tratta non di una penalizzazione ma di una diversa distribuzione temporale delle risorse disponibili e stima per ogni anno di anticipo l’assegno mensile subirà una riduzione tra il 4% e il 5% che può arrivare al 7,5% se si considera la perdita rispetto alla pensione che spetterebbe versando un anno in più di contributi.

Qualsiasi sistema previdenziale non fa altro che spostare una parte del Pil da chi lo produce effettivamente in un certo momento, ossia i lavoratori e gli imprenditori in attività, verso chi ha smesso di lavorare. Versando i contributi all’Inps o a un fondo pensionistico privato ciascuno “prenota” una parte più o meno consistente dei beni e servizi che verranno prodotti in futuro. Ma se al momento del pensionamento non ci fossero risorse sufficienti, questa prenotazione varrebbe meno di un biglietto aereo acquistato in overbooking (che almeno garantisce l’imbarco sul primo volo utile). Le vittime di parecchi fondi pensione americani e inglesi ne sanno qualcosa.

I pensionati, come tutti gli altri consumatori, utilizzano beni e servizi appena prodotti, non quelli eventualmente fabbricati e accumulati mentre lavoravano. Quindi tutti i sistemi previdenziali devono mettere loro a disposizione delle risorse fresche mentre loro si godono il meritato riposo. I vari sistemi previdenziali differiscono per come si acquisiscono e si esigono le prestazioni pensionistiche, ma non per il loro obiettivo finale. Nel vecchio sistema retributivo il valore dei beni e servizi riservati al pensionato erano proporzionali a quello che aveva prodotto negli ultimi anni di attività. In quello contributivo questo valore deriva da tutta la sua storia retributiva. In un sistema basato su fondi di investimento privati la pensione dipende anche dall’abilità dei gestori nell’amministrare le attività finanziarie e reali acquisite con i premi versati negli anni dai lavoratori. In un sistema primitivo il sostentamento degli anziani dipende semplicemente dalla capacità e dalla generosità della propria tribù, indipendentemente dalle risorse prodotte quando si era ancora in attività (che corrispondono più o meno ai nostri contributi previdenziali e ai premi versati ai fondi pensione).

Oggi le pensioni vengono finanziate sostanzialmente in due modi. Il primo è rappresentato dalle risorse fresche prodotte da chi è ancora in attività e versa contributi e tasse per assicurarsi a sua volta una pensione. Il secondo è più sofisticato, perché passa attraverso la distribuzione di guadagni in conto capitale e rendimenti di attività reali e finanziarie accumulate in passato, generalmente gestite da un fondo pensionistico. Nonostante le apparenze, anche queste risorse sono assicurate solo dai lavoratori e dagli imprenditori in attività, che si adattano a pagare prezzi più elevati su tutti i beni e servizi, in modo da assicurare i margini di profitto necessari a liquidare le attività accumulate per finanziare le pensioni. L’unica differenza è che un fondo pensioni che ha investito in tutto il mondo può contare su una platea più ampia per reperire le risorse necessarie a pagare le pensioni correnti. Dall’età della pietra in poi, le pensioni dipendono dunque, in ultima analisi, dalla produttività di un villaggio più o meno globale. Se una società non è disposta a rinunciare a una parte di quello che produce per darlo agli anziani e agli inabili, ci sono poche alternative alla pratica diffusa presso una tribù africana (citata da Federico Caffè in un suo scritto del 1986, ma probabilmente solo immaginaria) in cui “le persone anziane diventate incapaci di dare qualsiasi contributo alla comunità vengono portate sulla riva di un fiume profondo e spinte, dolcemente ma inflessibilmente, con lunghe pertiche verso il punto del non ritorno”..

Non ci si possono aspettare neanche grandi risultati dal passaggio da un sistema previdenziale pubblico ad uno individuale basato sui fondi pensione, poiché il sacrificio richiesto ai lavoratori in attività, a parità di prestazioni erogate agli anziani, sarebbe addirittura superiore, dovendo garantire anche un adeguato margine di profitto per i gestori dei fondi. In tutti i casi, il peso economico dei pensionati sulla collettività può rimanere costante solo se gli assegni individuali crescono ad un ritmo pari a quello del Pil ridotto del tasso di crescita dei pensionati, come dimostrato già dagli anni sessanta del secolo scorso da Samuelson e Aaron Chi promette condizioni più favorevoli, eventualmente facendo affidamento sulle performance offerte dai mercati globali, dice semplicemente delle bugie oppure conta sul contributo più o meno volontario dei lavoratori e delle imprese di qualche altro paese, con tutti i rischi geo-politici che questo “prelievo” può comportare.

Ci sono molti buoni motivi per legare l’ammontare della pensione al contributo dato alla produzione quando si era in attività. Il principale è quello di promuovere comportamenti virtuosi, che fanno aumentare le risorse per tutti e penalizzano l’ozio. Per il momento, sembra socialmente e culturalmente accettabile che la pensione sia proporzionale ai contributi versati (o, più propriamente, alle risorse “prenotate”) durante tutta la vita. Una scelta etica differente che, ad esempio, privilegi l’egualitarismo almeno tra gli anziani o preveda meno sacrifici per chi è in attività, porterebbe a soluzioni differenti. In base alle attuali preferenze sociali, a fine carriera, il “montante” dei diritti di prelazione sulle risorse future ed il relativo rendimento dovranno essere distribuiti lungo tutti gli anni che restano da vivere, riservando eventualmente qualcosa per pagare un assegno di reversibilità ai parenti superstiti. Decidere di ricevere tutto il montante prenotato in passato solo a partire da una età molto avanzata significa percepire un assegno pensionistico relativamente elevato, ma presumibilmente solo per pochi mesi. All’opposto, anticipare il pensionamento comporta un minore accumulo di risorse “prenotate” e un numero maggiore di anni in cui ci si può godere la pensione. È dunque improprio lamentare una “penalizzazione” nel caso di un ritiro anticipato dal lavoro. Al massimo si dovrebbe parlare di una diversa distribuzione tra lavoro e tempo libero nel corso di tutta la vita. Non a caso, “penalizzazioni” di questo tipo esistevano anche ai tempi d’oro delle pensioni baby, che infatti erano ben lontane dall’importo massimo spettante per chi accettava di rimanere al lavoro fino al massimo consentito perché il calcolo della pensione retributiva si basa sul numero di anni di contribuzione.

Una volta accettato il principio (tutt’altro che naturale e universale) che la pensione sia proporzionale ai contributi versati, è facile quantificare la riduzione dell’assegno per ogni anno di anticipo del pensionamento. Per prima cosa, l’ammontare di contributi M accumulati durante la vita lavorativa deve essere spalmato nel tempo per pagare la pensione un anno in più. Se la speranza di vita di un pensionato dopo L anni di lavoro è di V anni, allora la pensione media annua P è pressappoco pari a M/V, quindi prolungare la pensione di un anno implica una decurtazione complessiva dell’assegno medio annuale pari a circa 1/V. Con una età di pensionamento vicina a 65 anni e una vita media di circa 85 anni, come ci informa l’Istat, allora V si aggira sui 20 anni e quindi la decurtazione dell’assegno medio dovrebbe essere del 5% per ogni anno di anticipo, se calcolata in base al montante dei contributi effettivamente accumulati fino al momento del pensionamento. Questa percentuale si riduce se si tiene conto che una quota della pensione passa agli eredi con un reddito inferiore a determinate soglie. Attualmente la quota di reversibilità è del 60% per un vedovo/a senza figlia carico, che è il caso più comune. Quindi, ammesso che l’erede sopravviva altri S anni, è facile calcolare che la decurtazione dell’assegno pensionistico scende a 1/V+0,6s, che per S vicino a 10 vale il 3,8%.

Ma questa è solo una parte della storia, perché anticipare la pensione significa anche versare meno contributi Se, in media, è stato accumulato un contributo C per ogni anno di lavoro, l’ammontare complessivo delle risorse prenotate al momento del ritiro, dopo L anni, sarà pari a M = C L. Il semplice anticipo di un anno del pensionamento determina dunque una riduzione percentuale delle risorse complessivamente “prenotate” per la vecchiaia pari approssimativamente a = . Per una vita lavorativa di una quarantina di anni, questa percentuale sui aggira sul 2,5%. Quindi un lavoratore deve essere disposto a rinunciare almeno al 2,5%+3,8% = 6,3% rispetto alla pensione che avrebbe potuto percepire restando al suo posto un anno in più. Se non ha eredi questa cifra tocca invece il 7,5%.

Questo calcolo può essere raffinato tenendo conto della crescita nel tempo dei contributi versati, di qualche forma di indicizzazione delle pensioni, della diversa preferenza individuale tra uova e galline (ossia tra somme esigibili solo in futuro e quelle immediatamente disponibili), ma la sostanza cambia poco, come mostrano anche le sofisticate simulazioni presentate dall’UPB. In tutti i casi, la riduzione dell’assegno annuale connesso ad un anticipo della pensione non può essere considerata una punizione per chi vuole smettere di lavorare prima, ma serve solo a compensare il prolungamento del periodo di godimento della pensione. Sul lungo periodo, l’Inps non guadagna né perde nulla da una operazione del genere, anche se potrebbe avere qualche problema di liquidità a breve termine. Anche i lavoratori che scelgono di andare in pensione prima, con un assegno decurtato, non subiscono alcuna perdita sul lungo periodo e guadagnano solo in termini di maggiore libertà di scelta sul momento in cui possono ritirarsi dal lavoro. A differenza di altre riforme precedenti, questo ricalcolo non intacca minimamente il valore del montante accumulato negli anni di lavoro, né il suo rendimento. D’altra parte, non tener conto di questa equivalenza tra percorsi di lavoro diversi significherebbe conferire ai pensionati precoci un bonus che potrebbe trovare giustificazione solo in una perequazione tra i redditi dei più anziani, anche se non vi è alcun motivo per pensare che chi si ritira prima dal lavoro abbia avuto minori opportunità di carriera oppure sia partito da posizioni più svantaggiate di altri.

A dire il vero, le percentuali di riduzione calcolate in precedenza potrebbero essere anche viste come un premio per chi si trattiene al lavoro un anno in più del limite minimo consentito. Questo bonus avvantaggia chi fa un lavoro soddisfacente e quelle imprese che hanno bisogno soprattutto di professionalità più mature, e non sono troppo propense ad assumere dei giovani ancora da formare al posto dei pensionati. Ci perdono inevitabilmente chi svolge i lavori più usuranti e le imprese che hanno bisogno delle competenze, della resistenza, dell’entusiasmo e della creatività dei più giovani. Di fronte a questa prospettiva, non è detto che tutti i lavoratori siano disposti ad usufruire di un anticipo della pensione e che tutte le imprese incoraggino l’esodo degli anziani. Questo significa che molte delle previsioni sul costo di provvedimenti come “quota 100” possono risultare piuttosto esagerate. Quindi non è tanto un vincolo finanziario di breve periodo a dover guidare le politiche previdenziali, ma piuttosto l’equità sociale dei provvedimenti e le loro conseguenze sull’occupazione, sulla produttività e sulla struttura dell’economia. Anticipare l’età minima per la pensione, lasciando al lavoro solo gli anziani più produttivi e appagati e favorendo il ricambio generazionale nelle imprese che puntano sui giovani, è probabilmente meglio che prolungare la vita lavorativa per tutti, fossilizzando il mercato del lavoro come hanno fatto le precedenti riforme pensionistiche.

Il principale aspetto critico di qualsiasi provvedimento che anticipa l’età della pensione è l’eventualità che qualcuno decida di ritirarsi prima dal lavoro solo per intraprendere altre attività con la garanzia di un reddito fisso mensile. Questi attempati stakanovisti contenderebbero il posto ai giovani e farebbero concorrenza sleale a coloro che non possono contare su nessun “paracadute” retributivo. È difficile sanzionare simili comportamenti in un paese in cui l’economia “non osservata” supera il 15% del Pil, ma riforme come “quota 100” dovrebbero essere necessariamente accompagnate dal divieto (o almeno da una super-tassazione) di qualsiasi attività retribuita per i pensionati e da controlli più stringenti sulle imprese. In caso contrario, un provvedimento che intende migliorare la qualità della vita dei lavoratori e svecchiare la forza lavoro e l’industria italiana finirebbe invece per alimentare il lavoro nero, deprimere i salari e cristallizzare tecnologie e modelli organizzativi antiquati nelle imprese. Prevedere decurtazioni anche superiori al 7,5% l’anno per anticipare la pensione, anche se è molto impopolare, potrebbe limitare questi rischi. Per evitare di penalizzare ingiustamente chi è meno in salute, si può prevedere un indennizzo finale nel caso di una sua prematura dipartita.

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