Non c’è nascita senza madre

Francesca Angelini ricostruisce criticamente la vicenda relativa alle domande di trascrizione, in Italia, degli atti di nascita esteri di bambini nati da accordi di surrogazione di maternità, alla vigilia di un nuovo intervento delle S.U. della Cass., atteso a seguito del rinvio della Prima sez. civ. in cui si chiede di consentire, al giudice, il superamento del principio della verità di parto e il riconoscimento di atti di nascita riportanti i nomi del padre biologico e del genitore sociale.

Negli ultimi anni, sono aumentate le nascite di bambini all’estero, nell’ambito di famiglie omoparentali, attraverso fecondazione artificiale il cui accesso, come è noto, è precluso in Italia alle coppie seme sex. Il rilievo assunto da alcune vicende giurisprudenziali (non solo statali s.v. CGUE, V.M.A. c. Stolichna…, causa C-490/20) riguardanti la richiesta di trascrizione, nel nostro Paese, degli atti di nascita di alcuni di quei bambini ha posto la dottrina di fronte alla necessità di riflettere su una questione delicata e complessa: quella delle profonde differenze, sotto il profilo biologico oltre che giuridico, fra pratiche quali la procreazione medicalmente assistita (pma), e la surrogazione di maternità (sdm) (cfr. S. Niccolai, La maternità omosessuale e diritto delle persone omosessuali alla procreazione. Sono la stessa cosa? Una proposta di riflessione, in Costituzionalismo.it, 1, 2015). Nel quadro della procreazione artificiale, la sdm, il cui ricorso è necessario nei progetti di filiazione naturale delle coppie omoaffettive di uomini, presenta una peculiarità assoluta, perché implica la scissione della maternità nei ruoli diversi di madre di parto, genetica e sociale e finisce per travolgere quella garanzia di certezza sull’identità materna individuabile nel principio mater semper certa est; per tali ragioni essa viene riconosciuta come un’esperienza contrastata e che mette in discussione principi dell’intera comunità. La giurisprudenza alla quale fa riferimento riguarda, in particolare, una serie di ricorsi e una pratica giudiziaria che hanno mirato ad uniformare le domande di omogenitorialità senza considerare il diverso apporto nella procreazione del corpo femminile, indebolendo così il ruolo della madre naturale e della relazione materna (S Niccolai, E. Olivito (a cura di) Maternità filiazione genitorialità, Jovene, 2017, 2017; F. Angelini, Profili costituzionali della procreazione medicalmente assistita e della surrogazione di maternità, ES, 2020).

All’origine di tali sentenze troviamo l’azione insistente di liti strategiche che utilizzano la tutela antidiscriminatoria con argomenti che tendono a occultare o livellare differenze che sono invece importanti quali quelle fra pma eterologa e gestazione per altri (gpa); fra diritto di «svolgere» le funzioni genitoriali e diritto a «diventare» genitori; fra relazione materna e relazione genitoriale ricorrendo ad un linguaggio che sostituisce alla parola «madre» quella di «genitore» o «gestante» e dove non si parla più di maternità, ma di sola genitorialità (E. Olivito, (Omo)genitorialità intenzionale e procreazione medicalmente assistita nella sentenza n. 230 del 2020: la neutralità delle liti strategiche non paga, in Osservatorio AIC, 2, 2021). Si tratta, infine, di una pratica giudiziaria che pone al centro il volontarismo procreativo, teso a privilegiare, nel riconoscimento della genitorialità, l’elemento della volontarietà su quello della verità biologica, e quindi di parto, ma che ha ugualmente utilizzato strategicamente casi di omogenitorialità femminile, più facili da accettare, con l’obiettivo di estendere, per via giudiziaria, gli eventuali esiti positivi anche alle coppie omoaffettive maschili (così: Cass. sent. 24001/2014; CGUE, Causa C-490/20).

Tali questioni si sono inoltre intrecciate alla storia di contestazione giudiziale della l. n. 40/2004 sulla pma, potendo essere interpretate all’interno di uno schema rappresentativo dei rapporti fra legislatore e giudice, che le vede oscillare in maniera “inversa” fra i due poli, coincidenti con i due elementi di scaturigine del diritto: la “volontà” e l’“esigenza di giustizia”. In un caso, il legislatore ha posto nella legge sulla pma una regolamentazione eccedente di volontà, rigida nella salvaguardia di un primario obiettivo (la tutela dell’embrione) e sorda verso altri interessi oltre che alle indicazioni terapeutiche. L’intervento dei giudici ha riequilibrato la disciplina rendendola aperta ad accogliere superiori esigenze di giustizia. In un altro caso, invece, il legislatore si è limitato a non ammettere la sdm con un divieto che mira a colpire l’intermediazione e la commercializzazione di tale pratica e sono stati i giudici (di legittimità e di merito) a far prevalere spesso, nelle loro decisioni, l’elemento della volontà, aggirando, con una giurisprudenza creativa, il divieto posto dalla legge a tutela di principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. La giurisprudenza in questione, che si è misurata con il limite dell’ordine pubblico internazionale (opi), ha finito per avere implicazioni anche sistemiche, che si sono manifestate nell’attenuazione del controllo operato dal limite dell’opi su diritti quali la dignità della madre, del neonato e del principio Mater sempre certa est, con ripercussioni sul diritto costituzionale, i cui principi fondamentali sono stati sviliti e adattati alle sole esigenze di apertura inter e sovranazionale (F. Angelini, cit., 2020).

Il volontarismo dei giudici, nel caso delle richieste di trascrizione degli atti di nascita di bambini nati all’estero da sdm, si è reso evidente anche nel tentativo di aggirare il divieto, prescritto dalla l. 40, facendo appello alla sua generale “fragilità”, come se tutta la l. 40 fosse una “legge sbagliata” e dunque facilmente aggirabile. Tale atteggiamento non ha soltanto offuscato il senso di una precisa scelta di campo del legislatore – quella connessa al divieto di una pratica così controversa – ma ha anche occultato la garanzia di diritti costituzionali salvaguardati dal divieto di sdm, pratica che«offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» (C. cost. sent. n. 272/2017), in primis quella materna.

Le Sezioni Unite civili della Cass. (SU) ritorneranno a breve ad occuparsi di genitorialità da sdm e limite dell’opi. Il tema è stato al centro già di una decisione di grande rilievo proprio delle SU, la sent. n. 12193/2019, chiamate a fare il punto fra interpretazioni contrapposte emerse in sentenze discordanti della Prima sez. civ. della Cass. (s.v. sentt. nn. 24001/2014 e 19599/2016).

È la sent. n. 19599/2016 ad aver inaugurato un filone interpretativo sul limite dell’opi e sull’omogenitorialità ampiamente ripreso dai giudici di merito in pronunce successive. La sentenza riguardava la trascrizione, in Italia, dell’atto di nascita di un bambino nato, in Spagna, da una relazione omoaffettiva fra due donne, nella quale una delle due aveva portato a termine una gravidanza con l’ovocita della compagna, risultando l’una madre naturale e l’altra genetica. Il rilievo della pronuncia è duplice; da una parte si considera la genitorialità omoaffettiva non contraria all’opi, in favore dell’interesse del bambino alla continuità di status, e, dall’altra, si afferma che il principio ex art. 269 c.c., in base al quale madre è colei che partorisce, non solo non coincide con un principio di opi − come, invece, affermato dalla stessa Cass. nella sent. n. 24001/2014 −, ma si pone in contrasto con l’interesse del minore, a tutela del quale, lo si sottolinea, non si chiedeva di sostituire nell’atto di nascita il nome della madre naturale con quello della madre genetica, ma solo di aggiungere accanto al nome della madre naturale, comunque tutelato dal principio mater sempre certa est, anche quello della madre genetica (sulle due sentenze s.v. i saggi contenuti in S. Niccolai, E. Olivito, cit., 2017). Pur non riguardando una sdm, le argomentazioni della sent. n. 19599/2016, soprattutto in relazione ai due profili richiamati, sono state, tuttavia, ampiamente e discutibilmente riprese della giurisprudenza di merito relativa a casi di sdm (ex multis: C d’A. di Milano, ord. n. 273/2016 e decr. 28.10.2016; C d’A. di Trento, ord. 23.2.2017, Trib. di Roma, decr. 11.5.2018).

Il contrasto interpretativo, espresso nelle due decisioni del 2014 e del 2016 della Cass., viene ricomposto dalle SU nella sent. n. 12193/2019, nella quale lo status genitoriale basato su una pratica (la gpa) «penalmente vietata nel nostro ordinamento» è «ritenuta contraria ai principi vigenti di ordine pubblico» (sent. 12193/2019). La domanda rivolta al giudice era finalizzata al riconoscimento diretto del rapporto di filiazione di due padri (biologico e d’intenzione), tramite trascrizione dell’atto di nascita (canadese) del bambino che, non contemplando il nome della madre biologica, rimuoveva la verità di parto. La sentenza delle SU è stata preceduta e seguita da pronunce della Corte cost. (in part. sentt. nn. 272/2017 e 221/2020), sostanzialmente in linea sia sui profili che riguardano la trascrizione degli atti di nascita, sia nel considerare il ricorso, per via giudiziale (ex art. 1, co. 20, l. n. 76/2016), all’adozione “in casi particolari” quale punto diequilibrio tra gli interessi del minore alla continuità di status e gli interessi alla verità di parto e a disincentivare la sdm.Rispetto a quest’ultimo profilo, infatti, la scelta dell’adozione si contrappone chiaramente alle richieste di riconoscimento diretto della filiazione nei casi sdm.

Con l’ord. n. 1842/2022, la Prima sez. civ., ha appena riproposto la stessa questione alle SU, alla luce questa volta della sent. della C. cost. n. 33/2021, nella quale la Consulta, pur riaffermando il divieto di sdm quale principio di ordine pubblico dell’ordinamento, ha, tuttavia, rilevato l’esigenza che sia affidata al legislatore l’individuazione di un sistema di tutela più efficace del minore, nato da sdm, che vanti una vita familiare consolidata con i genitori sociali, rispetto a quella oggi garantita dall’adozione in casi particolari, valutata «una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali» (C. cost. sent. 33/2021). La Cass., considerata l’inerzia del legislatore al monito della Consulta, ha nuovamente reagito a fronte di quella che valuta, constatati i limiti dell’adozione in casi particolari, una situazione di “vuoto normativo” a cui il giudice deve dare risposta in via interpretativa.

La domanda della Cass. è rivolta oggi a rimuovere in primis il divieto “generalizzato”, posto al giudice, di trascrizione dell’atto di nascita di bambini nati da sdm, in modo da riconoscere direttamente il loro status filiationis. Tuttavia, proprio per tener conto dei diversi interessi in gioco, la Cass. prospetta alle SU la possibilità di consentire al giudice di merito la valutazione del caso concreto relativo alla genitorialità da sdm, alla luce delle variabili date nelle diverse situazioni, quali: l’aver realizzato la sdm in un Paese dove si applichi una normativa rispettosa della dignità della madre; l’instaurazione di una vita familiare effettiva con entrambi i padri; l’esistenza di un legame genetico almeno con un genitore; l’assenza da parte dei genitori sociali di pratiche elusive delle norme sull’adozione internazionale e di qualsiasi forma di mercificazione del bambino. La Cass. chiede, infine, alle SU di aprire il terreno delle questioni relative a pratiche di sdm alla valutazione del giudice in modo da operare anche interpretazioni adeguatrici al diritto dell’UE e alla tutela dell’interesse del minore alla vita privata e familiare e all’identità personale.

Vi è, nel ragionamento della Cass., un elemento che appare sottovalutato rispetto alla sent. n. 33/2021. In tale decisione la Consulta affida al legislatore il compito di tutelare gli interessi del minore, sottolineando, che essi devono essere «bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dell’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità penalmente sanzionato dal legislatore». Questo punto di bilanciamento non sembra poter essere affidato, nel caso della sdm, alla «trascrivibilità di un provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che abbia partecipato alla surrogazione di maternità, senza fornire i propri gameti», né alla trascrivibilità «a fortiori dell’originario atto di nascita, che indich(i) quale genitore del bambino il “padre d’intenzione”» (sent. n. 33/2021). La Consulta individua come soluzione, dunque, esclusivamente quella dell’adozione, una forma di adozione diversa da quella di casi particolari ex art. 44, c. 1, lett. d, l. n. 183/1984, quale, ad esempio, l’adozione del figlio del coniuge.

In realtà, per introdurre forme atte a disincentivare il ricorso alla sdm si dovrebbero prevedere, come suggerito dalla dottrina, test che mirino a rendere «operativo il favor per il legame materno, con la verifica del non anonimato della madre di nascita e della garanzia per il minore di conoscerla e intrattenere relazioni con lei» (S. Niccolai, Diritto delle persone omosessuali alla genitorialità a spese della relazione materna? in Giur. cost., 2016), misure che restituirebbero effettività non solo alla valorizzazione della relazione materna, ma anche al divieto di sdm. Tuttavia, in assenza di tali tutele, ciò che appare non ammissibile, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, è il ricorso al riconoscimento di forme di filiazione diretta in cui sia ammessa la scomparsa, nell’atto di nascita, di un dato naturale − che è all’origine della prima relazione umana e la cui salvaguardia, nel garantire l’assenza di accordi di nascita, si pone a tutela della libertà di ogni nuova creatura che viene al mondo −, quello cioè che si nasce da un corpo di donna.

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