ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 172/2022

19 Maggio 2022

Lo spettro della stagflazione, con o senza stretta monetaria

Roberto Tamborini di fronte alle persistenti tendenze verso una elevata inflazione riflette sulle analogie tra lo spettro della “stagflazione” di oggi e quella degli anni Settanta traendone, pur nella consapevolezza che la Storia non si ripete mai in modo uguale, due conclusioni. La prima è che l’inflazione creata dalle materie prime importate riduce i consumi e la produzione anche senza una stretta monetaria. La seconda è che la prudenza della Banca centrale europea è giustificata, almeno per ora.

Mentre il mondo sta cercando di lasciarsi alle spalle la tragedia della pandemia, l’intreccio tra economia e crisi politico-militari sembra riportarci, come un crudele gioco dell’oca, agli anni Settanta del secolo scorso, il decennio della “Grande inflazione”. Era l’ottobre 1973, e a supporto della guerra del Kippur di Siria ed Egitto contro Israele, i paesi arabi membri dell’Opec (l’organizzazione dei paesi produttori di petrolio) decisero di colpire i paesi filo-israeliani con un embargo delle esportazioni di greggio, e poi un aumento unilaterale del suo prezzo da circa 3 dollari al barile a oltre 11. Pochi anni dopo, nel 1979, arrivò il secondo shock petrolifero, in seguito alla rivoluzione islamica in Iran e a un’altra guerra, tra il gigante Sciita e l’Iraq. Il prezzo del greggio triplicò di nuovo e superò i 30 dollari al barile.

Siamo ancora lontani, per ora, dal vertiginoso aumento del costo della vita che prese piede in quel periodo, ma le previsioni, o auspici, di uno shock inflazionistico di breve durata, dovuto a fattori transitori legati al rimbalzo post-pandemia dell’economia mondiale, si stanno rivelando fallaci. Lo spettro della “stagflazione” degli anni Settanta, alta inflazione accompagnata da economia stagnante, si aggira per il mondo e sta mettendo in allarme i vertici delle banche centrali (BCE, Decisioni di politica monetaria, 14-4-2022). Le pressioni dei “falchi” della stabilità dei prezzi s’intensificano, in particolare in Europa, chiedendo azioni risolute. Sappiamo che la Storia non si ripete mai uguale, ma ci sono alcune analogie con gli anni Settanta che è utile considerare per il presente.

Una riguarda il comportamento della Riserva federale degli Stati Uniti cinquant’anni orsono e quello della Banca centrale europea (BCE) oggi. Entrambe appaiono improntate a prudenza e gradualità nell’affrontare l’impennata dei prezzi. Viceversa, in questo momento la Fed ha annunciato una serie di provvedimenti restrittivi più rapidi e incisivi della BCE. Quali erano le ragioni della Fed di Arthur Burns, presidente dal 1970 al 1978? Hanno qualcosa in comune con quelle della BCE di Christine Lagarde?

 In un documento del Federal Open Market Committee (l’organo decisionale della Fed) della primavera del 1971, in presenza del progressivo innalzamento dei costi delle materie prime che precedette lo shock petrolifero, si legge: “Il punto è se la politica monetaria possa o debba agire in qualche modo per combattere un persistente tasso d’inflazione (…) La risposta è negativa (…) Questi continui aumenti dei costi devono essere considerati un problema strutturale che non è trattabile con misure macroeconomiche” (cit. in K. Whelan, 2021). Otto anni dopo, siamo nel 1979 con il greggio quasi dieci volte più caro e un tasso d’inflazione triplicato (dal 4% al 12% annuale), il briefing dell’ultimo FOMC presieduto da William Miller, succeduto a Burns, riferiva che a riguardo degli “sviluppi di quest’anno – in particolare i prezzi dell’energia, le discontinuità nella produzione, e un’inflazione dei prezzi alimentari maggiore del previsto (…) non sembra esservi molto che la sola politica monetaria possa fare per ottenere significativi miglioramenti nel giro di un anno o due” (cit. in K. Whelan, 2021).

Com’era possibile che il vertice della più potente banca centrale del mondo pensasse di non poter far molto per combattere l’inflazione? La spiegazione più accreditata sui libri di economia e di storia è quella fornita dalla scuola monetarista di Milton Friedman, a quel tempo, per così dire, all’opposizione, secondo cui la Fed (e la maggior parte delle banche centrali, esclusa quella tedesca) era prigioniera di una visione sbagliata dell’economia, del fenomeno dell’inflazione, e del proprio compito fondamentale. La visione sbagliata era quella keynesiana, che portava la politica monetaria ad assecondare la tendenza dei governi a stimolare continuamente l’economia anche a scapito del mandato di salvaguardare la stabilità dei prezzi e il valore della moneta. Divenne articolo di fede lo slogan di Friedman: “l’inflazione è sempre e dovunque un fenomeno monetario”.

Tuttavia il quadro concettuale della Fed non era così naïf. L’inflazione era attribuita a due cause: poteva essere trainata dalla domanda (demand pull) ma anche spinta dai costi (cost push). La critica monetarista poteva essere applicata al primo fenomeno, mentre il secondo era diverso, e più complicato.

E’ vero che a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, l’economia USA presentava anche tutti i sintomi dell’inflazione da domanda, ma l’inflazione da costi, in particolare quelli delle materie prime importate, può nascere anche in assenza di un eccesso di stimolo dell’economia interna (ci può essere un surriscaldamento dell’economia mondiale, ma allora è un’altra storia). Si tratta, nel gergo macroeconomico, di uno shock dal lato dell’offerta, piuttosto che della domanda, che comporta aggiustamenti settoriali dei prezzi relativi, piuttosto che del livello generali dei prezzi. Una stretta monetaria è sempre e dovunque la soluzione?

Per rispondere correttamente occorre liberarsi dall’idea, questa sì naïf, che una stretta monetaria, o addirittura il suo semplice annuncio, abbia effetti automatici sull’andamento dei prezzi. La relazione tra moneta e inflazione passa attraverso una serie di “meccanismi di trasmissione”, uno dei quali, probabilmente il più importante, riguarda la riduzione della capacità di spesa nel sistema economico, ossia della domanda di beni e servizi rispetto all’offerta. I modelli macroeconomici correnti (di matrice neo-keynesiana) hanno altresì generato l’idea che, se non c’è una stretta monetaria, l’accelerazione dell’inflazione non trova alcun freno dal lato della domanda (la quale anzi tende ad aumentare per via del gioco delle aspettative, su cui tornerò in seguito). Questa idea è sia infondata teoricamente che irrealistica, con particolare evidenza proprio nel caso d’inflazione da costi in un contesto neo-keynesiano di “rigidità nominali”, in cui cioè il valore monetario dei redditi non è perfettamente indicizzato all’inflazione corrente.

Il trasferimento dell’aumento dei costi sui prezzi dei prodotti provoca di per sé una riduzione imprevista del valore reale dei redditi monetari e quindi una riduzione della domanda, in base alla propensione marginale al consumo “di breve periodo”, come spiegato dagli stessi modelli ortodossi del ciclo di vita di Modigliani e Brunberg, e del reddito permanente di Friedman e Hall. Le imprese si trovano a fronteggiare costi più alti e domanda più bassa, con la conseguenza di dover ridurre produzione e occupazione, creando appunto stagflazione. Basta ascoltare ogni giorno le preoccupazioni di famiglie, imprese, commercianti per capire che è proprio questa la situazione che stiamo vivendo.

La figura 1 presenta la simulazione di un modello base neo-keynesiano (le tre equazioni, IS per il PIL, Curva di Phillips per l’inflazione, Regola di Taylor per il tasso d’interesse), in seguito a uno shock inflazionistico del 3% al di sopra del target del 2%, in presenza dell’effetto reddito descritto sopra. Il grafico a sinistra riporta la simulazione senza reazione di politica monetaria (il tasso d’interesse rimane costante al valore inziale). Il grafico a destra riporta la differenza dell’andamento di inflazione e PIL rispetto alla simulazione dello stesso shock con restrizione monetaria. Le variabili sono espresse come deviazioni dai valori di equilibrio.

Questo esercizio mette in luce due aspetti poco considerati. Il primo è che la stagflazione è un esito intrinseco dell’inflazione da costi, con o senza stretta monetaria. Il secondo, è che questo meccanismo endogeno di contrazione della domanda può stabilizzare l’inflazione anche in assenza di una stretta monetaria. Al di là di alcune differenze quantitative, in entrambi i casi lo shock inflazionistico viene riassorbito. Come si vede dal grafico di destra, senza l’attivazione della politica monetaria restrittiva l’inflazione rimane leggermente maggiore all’inizio dell’aggiustamento, mentre il PIL si riduce un po’ di meno. In buona sostanza, la restrizione monetaria non fa altro che amplificare la contrazione della domanda e del PIL.

Figura 1. Simulazione di uno shock inflazionistico con effetto reddito

Le simulazioni sono rielaborazioni basate su Bonatti et al. (2021). La propensione marginale al consumo di breve periodo è stata fissata a 0.6 (cfr. ad es. Jappelli T., Pistaferri L. (2010), “The Consumption Response to Income Changes”, Annual Review of Economics, vol. 2, pp. 479-496).

Un argomento a favore può essere che la banca centrale onora la propria credibilità e che la riduzione dell’inflazione può essere più rapida, anche se a costo di un peggioramento dell’economia. L’argomento è andato assumendo un peso sempre maggiore man mano che si è consolidata la “rivoluzione delle aspettative” nella teoria della politica monetaria e dell’inflazione, iniziata proprio negli anni Settanta.

In effetti, le simulazioni precedenti si basano su due ipotesi: sia le aspettative d’inflazione che la dinamica salariale sono “ancorate” al valore obiettivo della banca centrale (da cui l’effetto reddito reale dello shock inflazionistico). A lungo andare, una riduzione troppo lenta dell’inflazione è considerata nociva per due motivi principali. Il primo è che le aspettative d’inflazione potrebbero “disancorarsi”, imprimendo un’ulteriore spinta all’inflazione stessa. Il secondo è che anche i salari potrebbero disancorarsi e partire all’inseguimento dell’inflazione, annullando l’effetto reddito. A quel punto, la restrizione monetaria rimarrebbe l’unico strumento per controllare domanda aggregata e inflazione (e il tasso d’interesse dovrebbe aumentare più rapidamente dell’inflazione, secondo il noto Principio di Taylor). Tuttavia, siamo di nuovo sul terreno delle circostanze empiriche, le quali, finora, sembrano meno preoccupanti in Europa che negli Stati Uniti. Secondo il Bollettino Economico della BCE del marzo scorso, la dinamica salariale rimane moderata e in linea con il trend storico, mentre l’indagine sulle previsioni d’inflazione indica un innalzamento al 3% tra 2022-23 e poi un successivo rientro al 2% (ricordando che nel decennio scorso le previsioni sono state sistematicamente disancorate al di sotto del 2%).

Inoltre, il bilancio complessivo dei pro e dei contro della shock therapy monetaria è più complicato ancora. Per esempio, può innescare un ulteriore aumento dei costi, nella misura in cui il costo del denaro pesa sui bilanci. Inoltre il costo del denaro non impatta solo sulla domanda di beni, ma anche sulla stabilità finanziaria, un argomento di un certo peso nella Zona Euro, ma non solo (cfr. Benigno et al., 2021). E ancora, per contrastare l’aumento dei prezzi sui mercati mondiali delle materie prime e dell’energia, quanto grande dovrebbe essere la caduta dell’attività economica in un singolo paese?

Nell’autunno del 1979, prima di lasciare la Casa Bianca a Ronald Reagan Jimmy Carter sostituì William Miller con Paul Volcker al vertice della banca centrale. Quest’ultimo abbandonò dubbi e prudenze dei predecessori, legando il proprio nome alla terapia d’urto monetarista che piegò il tasso d’inflazione fino al 4% registrato alla fine del 1982 (Volcker disinflation). Fu il trionfo e nel contempo la caduta del monetarismo pratico. Esso infatti prometteva un arresto rapido della spirale inflattiva senza infliggere pesanti perdite di produzione e occupazione. Le cose andarono diversamente. La disinflazione richiese quasi tre anni durante i quali il tasso d’interesse sui fondi federali, con paurose oscillazioni, raggiunse il massimo storico del 22% (inizio 1982), l’economia cadde in due recessioni e il tasso di disoccupazione salì dal 6% all’11%. L’instabilità finanziaria non fu da meno, e siccome gli Stati Uniti non sono un piccolo paese isolato, si trasmise rapidamente al resto del mondo. Le prime vittime dell’alto costo del denaro (e del dollaro) furono i governi di diversi paesi in via di sviluppo, soprattutto latinoamericani, che dovettero dichiarare bancarotta.

Tornando al presente, lo shock dei costi energetici sta colpendo i paesi avanzati non al culmine del più lungo periodo di crescita e quasi piena occupazione della storia, ma dopo un decennio di segno opposto e la caduta nel baratro della pandemia. Se l’economia americana forse sta correndo troppo velocemente, non altrettanto si può dire per l’Europa. Prima dello scoppio della guerra russo-ucraina si prevedeva per questo primo semestre 2022 il ritorno ai livelli di prodotto interno del 2019, quando l’inflazione era ben al di sotto del 2%. L’indebitamento, pubblico e privato, è ai massimi, e in uno scenario alla Volcker i paesi ad alto debito, in primis il nostro, probabilmente farebbero la stessa fine dei sudamericani degli anni Ottanta, mettendo a repentaglio l’esistenza dell’euro. Che Lagarde, finora, abbia condiviso i dubbi e la prudenza di Burns e Miller non pare dunque del tutto infondato né riprovevole. Però ora la guerra moltiplicherà le forze della stagflazione, e la lezione americana degli anni Settanta è che, se prende piede l’aspettativa che la corsa dei prezzi sia senza freno in tutti i settori, trasformandola in una rincorsa anche dei salari, il tempo della prudenza può esaurirsi rapidamente.

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