L’integrazione europea e gli “opposti sovranismi”

Francesco Farina riconduce il malessere che attraversa oggi i paesi dell’euro al debole impianto istituzionale dell’Eurozona,. A suo parere l’impatto della Grande Recessione sul benessere delle persone è stato acuito dal “sovranismo” della Germania, che ha imposto l’austerità, colpendo soprattutto i ceti più deboli e, d’altro canto, la disaffezione di ampi strati sociali per l’ integrazione europea ha scatenato il “sovranismo” dei movimenti populisti, che si oppongono all’establishment nazionale ed all’euro. Secondo Farina si tratta, in ambedue i casi, di posizioni miopi.

Perché, come documentano le rilevazioni Eurobarometer, ed il profondo sconvolgimento in corso nelle rappresentanze dei parlamenti nazionali ed europeo, larghi strati della società europea stanno voltando le spalle all’Europa? La risposta sta negli “opposti sovranismi” del paese dominante in Europa e dei ceti sociali perdenti, a causa della Grande Recessione e dell’austerità. Il legame fra i due sovranismi è l’assenza di una robusta crescita, cui ha contribuito la debole struttura istituzionale dell’Eurozona.

La storia conta, e se inascoltata quasi sempre si vendica. Come è potuto accadere che i governi europei, alla fine degli anni ’80, si limitassero a seguire l’incontrollabile deregolamentazione finanziaria avviata dagli Stati Uniti, culminata – in nome del credo neo-liberista imperante – nella completa liberalizzazione dei movimenti di capitale? Come non accorgersi che gli operatori dei mercati finanziari avrebbero finito per diventare l’”arbitro unico” della sostenibilità dei debiti pubblici nazionali? Come non capire che occorreva costruire subito una rete di istituzioni capaci di realizzare la governance macroeconomica comune dell’area monetaria in costruzione (l’unione fiscale e l’unione bancaria, che ancora oggi continuano ad essere rinviate a data da destinarsi)?

Mercato unico e moneta unica non sarebbero bastati, anzi. I mercati quando si integrano si rafforzano, ma si espongono anche a “fallimenti” ancora più gravi di quelli dei “mercati nazionali”. Nell’UE, il grado di concorrenza è gravemente compromesso dall’eterogeneità dei regimi fiscali (soprattutto riguardo a banche ed attività finanziarie), dalla competizione fiscale (le imprese multinazionali possono minacciare la delocalizzazione se non viene abbattuta la tassazione sul capitale), e dalla competizione fra i sistemi di protezione sociale (fra i lavoratori europei è del tutto assente l’equità orizzontale. L’integrazione dei mercati non è affatto sinonimo di convergenza fra le condizioni di benessere e di coesione sociale. Per realizzare al contempo efficienza economica, equità e consenso occorre affiancare alle leggi del mercato sia istituzioni economiche che ne emendino i fallimenti, sia istituzioni politiche che siano espressione di una maggioranza nella società civile, idonee a determinare una distribuzione del reddito non troppo diseguale, che legittimi il potere democratico. Dell’urgenza di tutto ciò, le classi politiche europee non hanno mai dato neppure l’impressione di essere consapevoli.

Queste condizioni erano assenti anche nei Trente Glorieuses (1945-1975). Allora, però, fu una poderosa crescita economica a permettere un notevole rafforzamento delle istituzioni di Welfare. Così, nei primi decenni della globalizzazione, una crescente instabilità macroeconomica potette essere felicemente contrastata in virtù di un efficace meccanismo di ridistribuzione del reddito. Negli anni ’80 e ’90, in molti degli attuali paesi dell’Eurozona all’impoverimento dell’elettore mediano (il cui voto, secondo il Teorema dell’elettore mediano è decisivo, in quanto espressione della coalizione maggioritaria di elettori) seguiva il successo di governi che – realizzando politiche pubbliche ridistributive – permettevano di contrastare l’incremento nella diseguaglianza fra i redditi di mercato (E. Croci Angelini e F. Farina, in Inequality and Economic Integration, a cura di F. Farina e E. Savaglio, Routledge. 2006). Negli Stati Uniti, alla “preferenza sociale” per una bassa tassazione si associano alti tassi di crescita ed un’alta diseguaglianza di reddito (dando vita al “paradosso di Robin Hood”: il paese avanzato con la più elevata diseguaglianza ha lo Stato sociale di più ridotte dimensioni). Al contrario, l’Europa, fino alla crisi del 2008, si è caratterizzata – mediamente – per un’alta tassazione, una bassa crescita ed una diseguaglianza non troppo elevata (Alesina et al., in Economic Journal, 2012). A questa triade di valori economici corrispondeva nella società civile dei grandi paesi europei il consolidamento del primato della classe media nelle istituzioni politiche; in seguito all’aumento dell’occupazione e del salario dei lavoratori a media qualificazione, la sua quota di reddito si andò ampliando almeno fino agli anni ’90, fungendo da cerniera fra il mondo imprenditoriale e le classi sociali più deboli.

Questo felice, per quanto sempre instabile, “equilibrio socio-economico europeo” è stato spazzato via dalla globalizzazione prima, e dalla crisi finanziaria e dall’austerità poi. Ci si può chiedere come mai la pressione politica espressa nelle urne, che aveva permesso nei due decenni precedenti di annullare con la ridistribuzione la diseguaglianza di reddito che si creava nel mercato (la correlazione positiva fra diseguaglianza e ridistribuzione del reddito evidenziata dalle stime econometriche) sia venuta progressivamente meno. Una possibile spiegazione è che il crollo della crescita in Europa, già in corso a causa del rallentamento della crescita della produttività totale dei fattori (se si esclude la fiammata del Pil del 2004-07, “drogata” dai bassi tassi di interesse sull’euro) stava causando il ridimensionamento della quota del reddito e del potere politico della classe media. Il colpo di grazia alla spesa sociale (e quindi alla ridistribuzione) è arrivato con l’austerità con cui i poteri dominanti in Europa hanno preteso di curare la Grande Recessione. Nel decennio 2008-2017 abbiamo assistito non solo all’impoverimento dei ceti più “deboli”, ma anche all’esaurirsi della più importante fonte finanziaria dei flussi perequativi fra le classi sociali: la crescita economica, da cui dipendono le risorse finanziarie disponibili nel bilancio pubblico (F. Farina e M.A. Ricci, in Journal of Income Distribution 2018). Di più. Le democrazie europee, avendo dovuto ingoiare l’austerità imposta da Berlino, sono state colte dal virus della “sfiducia nello Stato”, tradizionale valore ideologico statunitense. Per i livelli alti di diseguaglianza di reddito e di ricchezza, e per la “cattura” del voto dei ceti medi da parte delle élites dei ricchi (R. Benabou e J Tirole, in Quarterly Journal of Economics, 2006), l’Europa assomiglia sempre più agli Stati Uniti. Pur volendo dare per buona la ricetta del trickle down (meno tasse, più investimenti, più diffusione di benessere), gli Stati Uniti non dispongono dello strumento del taglio della spesa di Welfare, essendo dotati di uno Stato sociale già piccolo; il nemico colpevole del restringimento dell’occupazione manifatturiera viene trovato in Cina, sicché l’influenza mediatica delle élites ricorre allo slogan protezionista “America first”. Nelle grandi economie dell’Eurozona, l’esplosione del voto populista è più trasversale fra le classi sociali, perché ha origine in una perdita di benessere riconducibile sia al mercato sia alle istituzioni; alla caduta dei redditi famigliari si aggiungono i tagli nel bilancio pubblico che non permettono più la ridistribuzione ed alimentano l’opposizione alle classi dirigenti, subalterne all’austerità imposta da Bruxelles. Una spiegazione convincente del crollo di consenso per l’integrazione europea nei paesi dell’euro è dunque il ritardo dell’”integrazione istituzionale” di fronte alle sfide poste dall’interdipendenza, cifra distintiva della globalizzazione (F. Farina e R. Tamborini, in Economics, Discussion Paper n. 44, 2017).

Eppure, queste semplici evidenze non sembrano preoccupare il paese leader in Europa. In nessun paese la fede nella “responsabilità individuale” è tanto radicata quanto in Germania. Come un autorevole economista tedesco ha recentemente ricordato (P. Bofinger, “La linea tedesca del rigore è fallita, Berlino dovrebbe ringraziare Draghi”, mimeo, 2016), Berlino continua a coltivare una visione solipsistica dell’economia, inquadrata com’è nella rigida cornice di regolazione statuale teorizzata dall’Ordoliberalismo. Da quando fu avviato con il Trattato di Roma il processo di integrazione europeo, la Grundnorm federale non sorveglia soltanto i Lander tedeschi, ma è anche chiamata a delimitare i poteri dell’Unione Europea. E’ solo in Germania che questi ultimi sono “sottodeterminati” – al di là di quanto venga sancito nell’acquis communautaire accumulatosi nel succedersi dei vari Trattati dell’Unione – rispetto all’ordinamento giuridico nazionale tedesco. La visione tedesca dell’economia sembra quindi impermeabile al concetto di integrazione sovra-nazionale. L’inscindibile nesso ordoliberale fra economia e nazione si impone sulla realtà della stretta interdipendenza fra le economie. Nell’epoca della globalizzazione, i governanti tedeschi ragionano come se la performance macroeconomica nell’ area dell’euro sia di esclusiva responsabilità di ogni paese e di ogni popolo. Il processo di “integrazione positiva”, le istituzioni comuni indispensabili all’Europa per non soccombere, è oggi bloccato dai diktat della Germania. Se la bilancia commerciale di un paese è in negativo è solo perché gli altri non hanno fatto riforme strutturali per abbattere i costi di produzione e guadagnare in competitività; se il settore bancario degli altri non soddisfa ai target di affidabilità è perché i portafogli bancari sono gravati dai troppi titoli pubblici nazionali di incerto valore; se il rapporto debito pubblico / Pil continua a salire, invece di scendere, la causa risiede nella ”irresponsabilità nazionale” che fa aumentare la cifra al numeratore, anche se la realtà dice che l’incremento del rapporto è dovuto agli stringenti vincoli fiscali comuni – ed all’austerità imposta durante la crisi – che comprimono la crescita al denominatore.

Molte, e rigorose, analisi economiche sostengono la tesi degli effetti di deflazione e di aggravamento della diseguaglianza di reddito prodotti in Europa dai tagli alla spesa pubblica. Due economisti non sospetti di eterodossia hanno documentato come “i consolidamenti fiscali abbiano avuto un impatto negativo sui tassi di crescita” (A. Fatás e L. Summers, , NBER Working Paper No. 22374, 2016). E le recenti stime del moltiplicatore fiscale dimostrano come i suoi valori siano oggi molto alti, dopo la forzata compressione dei consumi causata dalla grave caduta dei redditi che ha fatto seguito alla crisi finanziaria: l’aumento del Pil che consegue ad ogni euro di spesa pubblica in più risulta anche superiore ai due euro (A.J. Auerbach e Y. Gorodnichenko, IMF Economic Review, 2016).

E’ certamente vero che in molti paesi all’origine della bassa crescita ci sono ritardi ed inefficienze strutturali “domestici” (a cominciare, in Italia, da una stagnazione quasi ventennale della produttività); ma è anche vero che dopo la crisi del 2008 l’austerità non ha fatto altro che aggravare il problema. La maggiore vulnerabilità è tipica dei mercati globali. Ergo, la performance macroeconomica è sempre più dipendente dalla qualità delle istituzioni su cui si fondano i mercati. Quelle dell’Eurozona sono deboli innanzitutto perché nazionali. Chiedere che il rafforzamento delle istituzioni comuni – il meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie, l’assicurazione dei depositi, ed un inizio di mutualizzazione (risk sharing) del debito pubblico – sia subordinato alla riduzione del debito pubblico vuol dire continuare l’austerità – ed il conseguente affossamento della crescita – con altri mezzi. I vincoli più stringenti sul capitale che il Consiglio dei ministri dell’Economia ha imposto nei giorni scorsi alle banche, con l’esenzione di quelle regionali tedesche, non ne sono che l’ultima conferma.

Bassa crescita ed aumento delle diseguaglianze sono il duro lascito della Grande Recessione e dell’austerità imposta dall’Europa. Come può meravigliare il rafforzamento dei movimenti sovranisti di destra e di sinistra in tutt’Europa? Se la concezione dell’Europa che la colta Germania oggi esprime è un mero “sovranismo tedesco”, come possiamo attenderci che la ribellione anti-establishment dei ceti usciti perdenti da quel peculiare esempio di globalizzazione che è l’Eurozona sappiano distinguere fra ciò che nell’attuale crisi dell’integrazione europea sarebbe virtuoso fare e ciò che sarebbe invece esiziale per il benessere dei cittadini?

Secondo stime affidabili, il “contratto” Lega-5Stelle (a fronte di entrate fiscali abbattute dalla flat tax, dell’onere finanziario connesso alla revisione della legge pensionistica, e della spesa pubblica aggiuntiva per il reddito di cittadinanza) dovrebbe comportare un aggravio di bilancio vicino ai di 100 milioni di euro. Dopo averlo letto, l’ex Chief Economist del FMI Olivier Blanchard, in un articolo con S.Merler e J.Zettelmeyer di qualche giorno fa, si è chiesto: How Worried Should We Be about an Italian Debt Crisis? La sua risposta è stata: moltissimo. Essa non è però riferita solo ad un’Italexit causata dalla reazione dei mercati al governo del “contratto” attraverso la vendita del debito pubblico italiano ed il conseguente aumento vertiginoso dello spread. La risposta di Blanchard è molto più allarmata. Riguarda le conseguenze dell’”azzardo sovranista” italiano, la non tanto “coperta” strategia di avviare una contrattazione aggressiva con l’Europa, diretta a rendere inevitabile l’uscita dell’Italia dall’euro. Ripagare il debito pubblico ai risparmiatori italiani nella “nuova lira” pesantemente svalutata equivale ad una catastrofe (che sarebbe ancora maggiore se si volesse imporre la restituzione del debito al cambio euro/nuova lira anche alle banche ed ai fondi di investimento internazionali). Nell’interconnesso sistema finanziario europeo si innescherebbero una serie di insolvenze a catena, che metterebbero a rischio la stessa capacità dell’Eurozona di sopravvivere. I miopi obiettivi del sovranismo della Germania ordoliberale (fare “i primi della classe” agli occhi dei mercati, costi quel che costi per l’impatto dell’austerità sugli altri) e del sovranismo populista anti-sistema (eliminare l’euro, ridistribuire il reddito in base all’etnia) minacciano di svalutare il nostro futuro.

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