L’estate del nostro scontento

Francesco Farina sostiene che un’integrazione finanziaria senza regole e la crescente competizione cui sono state sottoposte le più deboli strutture produttive della Periferia mostrano che nell’Eurozona l’equilibrio macroeconomico dipende non dall’efficienza di ciascun sistema economico ma dalle interconnessioni che si stabiliscono tra paesi. Secondo Farina, dopo aver sottovalutato le esternalità provocate dall’interdipendenza sistemica, e gli effetti recessivi dell’austerità, i governanti europei non sembrano consapevoli che le istituzioni di governance richiedono profonde riforme.

Per comprendere l’attuale crisi dell’Eurozona occorre comprendere come e perché la moneta unica abbia profondamente modificato il quadro macroeconomico in cui interagiscono i paesi dell’area valutaria. Cominciamo col dire che i media non aiutano i cittadini a formarsi un giudizio ben informato. La vulgata che leggiamo sui giornali ed ascoltiamo sui media – sebbene a volte venga presentata in modo paludato – è un profluvio di certezze e giudizi superficiali. La disinformazione finisce a volte per raggiungere punte davvero grottesche. Accade in particolare quando si cerca di difendere l’ideologia neo-liberista degli “effetti non-keynesiani” dell’austerità (maggiore è l’impulso restrittivo nel bilancio pubblico, maggiore sarà la crescita del reddito) di fronte alle dure repliche della realtà. Sul maggiore quotidiano economico italiano il 3 luglio si leggeva (non in un trafiletto o in un taglio basso, no, nell’articolo di fondo) che l’Irlanda sì che ha applicato bene l’austerità – a differenza della Grecia. Se oggi l’Irlanda appare in ripresa, è perché si è sbarazzata della “interposizione (sic!) pubblica in economia”. Ci sarebbe molto da discutere sulle virtù della flessibilità del lavoro e della competizione fiscale (di entrambe l’Irlanda è un esempio), a cominciare dalla diversa capacità dei sistemi produttivi di avvantaggiarsene. Il punto però è un altro. Con questa espressione da zona di guerra si cerca di trasmettere al lettore la certezza che ogni intervento pubblico è un danno – neanche tanto collaterale – all’economia. Tre-quattro parole e voilà, evaporano intere biblioteche di macroeconomia, economia pubblica ed economia del benessere: Keynes e Meade, Sen e Stiglitz, tutti inceneriti dall’interposizione neo-liberista. Peccato che il salvataggio delle banche irlandesi dopo lo scoppio della bolla immobiliare (provocata da una creazione di credito pari a quattro volte il PIL nazionale) abbia richiesto di trasformare allegramente il debito privato in debito pubblico, che è così schizzato in pochi anni dal 25% a circa il 130% del PIL. Meno male che c’è stata l’interposizione statalista, verrebbe da dire, altrimenti l’Irlanda sarebbe (letteralmente) affogata nell’Atlantico.

La vulgata è particolarmente subdola perché si ammanta di virtù etiche. La morale vuole che chi abbia contratto un debito sia tenuto a pagarlo. Bene, ma questo ragionamento sul dare e l’avere è davvero esaustivo di ciò di cui dobbiamo tenere conto per comprendere l’Europa di oggi? Siamo sicuri che l’equazione evocata dal termine tedesco schuld – secondo cui “ogni debito (non pagato) fa emergere una colpa” – sia inattaccabile? E il creditore che, approfittando della necessità (o dell’ingordigia) del debitore gli avesse prestato tanto danaro ad un interesse più alto che ad altri, dovrebbe davvero rivendicare – come Shylock – la sua “libbra di carne”? Sarebbe davvero giustificato a farlo anche nel caso in cui l’investimento risultasse sbagliato sotto il profilo delle leggi dell’economia? Bisognerà concedere che quello fra morale ed economia è un rapporto difficile. Ma non perché l’economia sia per sua natura a-morale. Anche nei volumi di economia matematica i riferimenti a “ciò che è giusto” e “ciò che è bene” si sprecano. Il fatto è che ragionamenti che appaiono a prima vista di un’evidenza incontrovertibile, quasi un riflesso dei dati di realtà, una volta rielaborati mediante le categorie dell’economia hanno il difetto (o la virtù?) di fare sprofondare nel dubbio chi li abbia un attimo prima enunciati.

Ogni Unione – sia essa monetaria o matrimoniale, poco conta – si caratterizza perché i partner, nonostante le diverse doti apportate, si impegnano a collaborare per il conseguimento dell’obiettivo comune, ovvero la formazione di un surplus esisteva prima inesistente. Possiamo dire che Germania e Grecia abbiano entrambe ottemperato all’impegno reciproco ad investire in cooperazione affinché tale surplus si realizzasse? La risposta è un semplice no. La Grecia, per evitare di avviare le riforme strutturali che l’avrebbero aiutata a trasformarsi in un paese moderno, ha approfittato della riduzione del rischio-paese permessa dall’ombrello dell’euro per accrescere gli sperperi (le Olimpiadi di Atene furono l’esempio più eclatante). La Germania, dal suo canto, un attimo dopo avere accettato di fare parte di una cooperativa di 12 membri, ha dato inizio ad una strategia economica di lungo periodo che aveva fra i probabili effetti quello di porre fuori mercato molte imprese dei paesi partner della moneta unica. La Grecia ha sbagliato nella pessima gestione delle finanze pubbliche e nel mantenimento di privilegi ed inefficienze nei mercati dei beni e del lavoro. La Germania ha agito nel senso non di armonizzare la governance dei mercati, ma di accrescere la concorrenza nel mercato del lavoro (abbattendo i salari e le garanzie dei lavoratori così rinunciando a contenere la disuguaglianza) e le sue banche (con la complicità della Bundesbank) hanno assunto eccessivi rischi negli investimenti finanziari.

Entrambi colpevoli? Si potrebbe rispondere: sì, ma la Germania di più, perché il paese più grande e ricco non agisce da Shylock per trarre il massimo beneficio con il minimo rischio, ma assume la guida di un progetto di unificazione e non utilizza la moneta unica per approfittare dell’effetto di svalutazione reale che ha la riduzione del costo del lavoro rispetto ai concorrenti. L’economia non sospende la morale. La sua indifferenza rispetto alla ricerca del colpevole è solo apparente. In realtà, tale presunta indifferenza riflette soltanto il fatto che quando si costruisce un’unione economica e monetaria, l’impegno profuso (e gli errori fatti) da ciascuno nella costruzione del surplus divengono di difficile attribuzione. Il motivo è semplice: una joint-venture modifica profondamente il contesto in cui si è avviata la cooperazione.

Dall’interdipendenza sistemica discende che il raggiungimento dell’equilibrio macroeconomico non è più soltanto determinato dall’efficienza di ciascun sistema economico, ma è il risultato delle interconnessioni che si stabiliscono tra i paesi. L’equilibrio macroeconomico di un’economia aperta che viene descritto dal modello AS-AD-BP spiega perché l’Eurozona non fosse un’area valutaria ottimale prima dell’euro ma non può dire molto sulle “condizioni di sostenibilità” dell’Eurozona dopo il cambiamento strutturale determinato da tanti anni di area valutaria. Le forti interdipendenze che oggi legano i mercati e le strutture produttive europee hanno mutato profondamente le condizioni macroeconomiche di ciascun paese – ed in modo asimmetrico fra Centro e Periferia.

Si comprenderà quindi perché interrogarsi oggi sul “restare o meno nell’euro” sulla base del modello AS-AD-BP riferito a paesi singoli legati solo da scambi commerciali possa – oggi – eventualmente confermarci nell’idea che fu un azzardo aderire – allora – ad un’unione monetaria fortemente inadeguata su molti piani. A cominciare da quello della compensazione degli shock macroeconomici (di qui la tardiva ammissione di non avere messo a suo tempo in cantiere l’Unione fiscale) e della necessità di prevenire le inefficienze tipiche del mercato del credito, attraverso la cooperazione nella regolazione del sistema bancario (di qui, il recente piano di Unione bancaria). Con buona pace dei sostenitori dello slogan “l’euro ci fa male, ergo è meglio tornare alla lira”, le esternalità reciproche consolidatesi fra i paesi rendono i costi di uscita dall’Eurozona, per quanto di ardua computazione, con ogni probabilità molto superiori nel lungo termine rispetto ai benefici a breve termine.

I quasi 17 anni di moneta unica trascorsi, la diversificazione di portafoglio perseguita dagli operatori finanziari durante la rapida integrazione fra banche e mercati finanziari dell’Eurozona, ed il forte incremento della concorrenza subito dalle strutture produttive più deboli, hanno generato un nuovo quadro macroeconomico, caratterizzato da due interdipendenze.

  1. l’interdipendenza finanziaria: è noto che in un’area valutaria le esternalità negative si propagano automaticamente per le interconnessioni fra operatori finanziari i cui comportamenti sono spesso imitativi e affetti da asimmetrie informative. L’irrational exuberance dei mercati fa sì che condizioni di illiquidità si tramutino rapidamente in insolvenze attraverso l’”effetto domino”. La crisi della Grecia innescò il “contagio” dell’innalzamento dello spread in tutta la Periferia; quest’ultimo crebbe molto di più, a parità di rapporto debito pubblico/Pil e quindi di aspettative di sulla sostenibilità finanziaria – nei paesi dell’Eurozona rispetto agli altri. L’interdipendenza finanziaria ha quindi accresciuto le responsabilità dei governi della Periferia sulla sostenibilità del debito pubblico ben al di là di quanto sarebbe stato giustificato dal suo livello.

Le successive performance macroeconomiche della Periferia sono state peggiorate prima da spread ingiustificatamente alti, poi dalle improvvide politiche dell’austerità. L’integrazione europea avrebbe avuto bisogno di istituzioni adeguate alle interdipendenze che si andavano generando. Un forte coordinamento della politica fiscale avrebbe consentito ad un paese dell’Eurozona in recessione di non doversi avvitare in politiche fiscali restrittive, e quindi dannosamente pro-cicliche, con il risultato di accrescere ulteriormente gli spread. Alla debolezza istituzionale dell’assenza di un’unione fiscale cominciò a supplire il Presidente Draghi, con gli acquisti di titoli sovrani giustificati con l’esigenza di ripristinare la funzionalità della trasmissione della politica monetaria della BCE, compromessa dal credit crunch. Ma l’opposizione tedesca ha impedito che nel corso della crisi greca venissero usati strumenti compensativi dei vincoli statutari che legano le mani alla BCE in caso di crisi (come gli acquisti di titoli con l’OMT ed il nuovo fondo salva-stati ESM).

E’ molto probabile che Schauble e Wildermann avrebbero preferito che già giorni fa Draghi avesse “staccato la spina” alla Grecia, abolendo le linee di finanziamento dell’ELA che hanno fin qui consentito di tenere in vita le banche greche. Nel registrare l’ enorme squilibrio di potere, l’esito dello stadio del gioco fra Berlino ed Atene cui abbiamo assistito come nella notte di domenica scorsa la dice lunga sulla classe politica che guida l’Europa, abituata a soccombere di fronte agli interessi delle banche e dei mercati, ma pronta ad utilizzare l’interdipendenza finanziaria come clava contro i paesi in difficoltà. Del resto, i pay-off scritti sui nodi dell’albero del gioco erano ben noti a tutti: l’insolvenza nella restituzione del prestito in scadenza il 20 luglio avrebbe inevitabilmente provocato l’azzeramento del valore dei titoli dati come collaterale alla BCE ed il conseguente default della Grecia. Tsipras è stato quindi costretto ad accettare un accordo umiliante, iniquo sul piano etico e dannoso su quello dell’economia

  1. l’interdipendenza reale: mercati dei beni molto integrati, in una fase di prolungata recessione, trasmettono rapidamente all’interno dell’area valutaria l’aspettativa di domanda stagnante, esaltando l’effetto deflazionistico provocato dalle politiche dell’austerità. Il livello di attività economica ha risentito di due esternalità negative: 1. gli impulsi fiscali restrittivi necessari sia a soddisfare agli impegni con la Troika dei paesi sotto sorveglianza, sia a compensare la spesa per interessi accresciuta dagli spread; 2. la crescente difficoltà delle esportazioni, compresse dall’espansione progressiva del surplus commerciale tedesco, a sostenere il PIL. In assenza del sostegno della domanda estera e di quella pubblica, è mancata la compensazione del crollo della domanda di consumi (a causa della deflazione di salari e prezzi imposta dall’austerità) ed i redditi della Periferia sono stati duramente colpiti. La deflazione ha ridotto il divario di competitività con il Centro, ma i cittadini della Periferia non hanno ricevuto alcuna ricompensa per i sacrifici. Non è però tutto. La possibilità garantita dal Target2 (il Sistema dei pagamenti regolato dalla BCE) di vedere finanziati ad libitum i deficit di conto corrente invece di favorire la convergenza rischia di amplificare la divergenza reale fra Centro e Periferia: i paesi in deficit possono omettere nel breve periodo correzioni del conto commerciale e quelli in surplus (in primis la Germania) possono consolidare sul lungo periodo la propria posizione dominante nei mercati degli altri paesi dell’Eurozona.

L’integrazione reale e finanziaria avrebbe richiesto tutt’altra governance dell’Unione Europea. Non l’adozione del principio di sussidiarietà, ma il coordinamento delle regole di funzionamento di mercati europei sempre più interconnessi. Non solo il Target2, ma un coordinamento di politica fiscale tale da limitare la formazione di surplus e deficit commerciali. Non il decentramento della negoziazione salariale a livello regionale, ma la centralizzazione europea dei contratti (con le opportune clausole di differenziazione nazionale) a livello di settore. Non la competizione fiscale, ma l’armonizzazione della tassazione dei beni e dei capitali. Non la flessibilità salariale, ma un sistema di salario minimo tarato sull’obiettivo della convergenza verso il basso dei tassi di disoccupazione. E così via. Ma si sa, per la Germania l’Unione Europea è solo il contesto, il campo di gioco. Una volta stabilite le regole del gioco (dalle liberalizzazioni, alla moneta unica, al Fiscal Compact), ognuno per sé, non ci sono obiettivi comuni. Coerentemente con l’ideologia Ordoliberale che tanto permea le politiche e le coscienze di questo paese, i politici tedeschi – appartengano essi alla CDU oppure alla SPD – ritengono che ciascuno stato membro dell’Unione sia responsabile dell’efficienza economica del proprio sistema-paese. Nonostante l’analisi economica insegni che un sistema integrato è tale proprio in quanto le interdipendenze creano esternalità reciproche che limitano fortemente la possibilità di attribuire a ciascuno colpe e meriti.

La Germania è oggi essenzialmente interessata ad accaparrarsi i vantaggi del libero scambio di merci nell’Unione europea ed a contendere alla City di Londra la posizione semi-monopolistica nel mercato finanziario europeo. Il sogno Ordoliberale della Germania sembra essere quello di ripristinare il Gold Standard in Europa. Autorappresentandosi come il paese obbligato a riportare ordine economico in Europa, la Germania sembra vivere di dimenticanze. E dimentica anche che quel sistema monetario internazionale se preservò il dominio della Gran Bretagna negli scambi commerciali fino al 1914, quando venne riportato in vita fra il 1928 ed il 1931, con il “ritorno all’oro”, finì solo per aggravare la Grande Depressione in Europa.

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