L’apprendista stregone nella accademia italiana

Daniele Archibugi muove dalla considerazione che l’accademia italiana, pur screditata agli occhi dell’opinione pubblica, ancora genera talenti che trovano appetibili posti di lavoro all’estero e ad accrescere la propria presenza nelle pubblicazioni mondiali. Vi è, però, il problema – al centro del suo libro Apprendista stregone, cui Archibugi qui si richiama - di dotare i giovani studiosi oltre che di competenze disciplinari anche delle cosiddette soft-skills, cruciali per la loro affermazione professionale.

L’accademia italiana non gode di buona fama. Periodicamente trasmissioni televisive di successo mettono in luce magagne quali nepotismo, consanguineità, faide, se non addirittura molestie e corruzione. Lo stereotipo si è così radicato che film come la saga Smetto quando voglio di Sydney Sibilia o Tutta la vita davanti di Paolo Virzì sono diventati dei “cult” per la loro capacità di far rivivere i drammi di una intera generazione. Ragazzi (come il Pietro Zinni interpretato da Edoardo Leo) o ragazze (come la Marta interpretata da Isabella Ragonese) di talento, spesso usciti dalla gavetta, devono affrontare una vera e propria corsa ad ostacoli per sviluppare le proprie idee. La loro strada è intralciata da numerosi antagonisti: i cosiddetti baroni, le istituzioni burocratiche, i concorrenti meno dotati ma più appoggiati. In questo scenario, si vede una luce in fondo al tunnel solamente quando il protagonista abbandona la natìa e ingrata patria per trovare adeguati riconoscimenti in un imprecisato estero dove l’ingegno è apprezzato e remunerato. Se il viaggio dell’eroe così ben descritto dallo psicologo John Campbell prevede anche il ritorno in patria, nel caso del giovane studioso italiano non è così e sembra anzi che aver imparato qualcosa all’estero sia ritenuto un atto di insubordinazione, una inopinata rivolta contro la saggezza convenzionale, e il ribelle deve essere punito. Se non lo si può sottoporre a adeguate ritorsioni perché ha chiesto asilo accademico all’estero, un adeguato ostracismo varrà come buon esempio per tutti coloro che volessero imitarlo.

Lo stereotipo ha viaggiato in lungo e in largo, tanto che i numi sacri della letteratura scientifica, basti pensare a Nature oppure a Science, pubblicano a raffica articoli in cui si espongono i guai dell’università italica. In tempi recenti, la London Review of Books ha pubblicato una nota di John Foot (“On the Barone”, London Review of Books, March 2021) condivisa a fiotti, dove il Barone è stato erto a una nuova maschera della sempiterna commedia dell’arte (o forse più semplicemente commedia all’italiana).

Come spesso accade, gli stereotipi hanno molto di vero e anche molto di falso. Forse lo spirito anti-italiano, cosi ben descritto da Perry Anderson (The New Old World, Verso, 2011), ha colpito l’accademia più che altre istituzioni. Siamo sicuri di essere così mal ridotti? Che cosa ci dicono analisi quantitative che vadano al di là dei singoli episodi?

Studi di economia e politica della scienza e della tecnologia – la mia competenza professionale – fanno emergere incongruenze spesso difficili da spiegare. Ad esempio, se l’accademia italiana è davvero in crisi, come mai riesce ancora ad esportare talenti che ci vengono così spesso rubati da altri paesi? I dati parlano di circa un 10 per cento di dottori di ricerca italiani che periodicamente lasciano il Belpaese per trovare appetibili posti di lavoro altrove. Per non parlare poi dei giovani che abbandonano l’Italia ancora prima e riescono a conseguire borse di studio per svolgere il dottorato nelle nazioni che li ospitano. C’è insomma una vitalità intellettuale che dà ancora i suoi inaspettati frutti. Il sistema non sembra sterile, bensì capace di trasmettere competenze da una generazione all’altra.

Lo stesso vale per l’output della produzione intellettuale. Se l’Italia marca ancora il passo per quanto riguarda le invenzioni brevettati – che principalmente riflettono la capacità delle imprese – ci sono segnali incoraggianti per quanto riguarda le pubblicazioni scientifiche – più direttamente associate alle attività delle università e degli enti pubblici di ricerca. Mentre la maggior parte dei Paesi Ocse riducono la propria quota a causa della spettacolare crescita della Cina, l’Italia riesce a mantenerla e addirittura a consolidarla (Cfr. Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia. Analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia, a cura di D.Archibugi, E. Reale e F. Tuzi, Cnr Edizioni, 2022).

Vivendo a cavallo tra l’accademia italiana e quella inglese, ho avuto il privilegio di avere a che fare con studenti provenienti da entrambi i Paesi. E ho potuto constatare che spesso le istituzioni e i comportamenti sono diversi, ma in entrambi i casi è necessario guidare chi voglia tentare la professione intellettuale.

Molte università e enti di ricerca stranieri si pongono il problema di formare adeguatamente gli animali accademici del futuro. C’è la consapevolezza che formare uno studioso sia un compito gravoso e di lungo periodo. Questa formazione riguarda non solamente le competenze specifiche di una disciplina – la chimica, l’economia, la teologia o quant’altro – ma anche alcune competenze trasversali all’intera comunità dei sapienti. Il chimico svolge il suo lavoro in laboratorio, l’economista in un centro di calcolo, il teologo in seminario. Eppure, se sono accademici, si troveranno a sedere insieme nello stesso Senato accademico, a frequentare associazioni professionali simili, a richiedere e a scrivere lettere di referenza, a tentare di pubblicare i propri studi su riviste che si avvalgono di revisori anonimi, a compilare gli stessi moduli per ottenere finanziamenti. Nel momento in cui le università, i centri di ricerca, le imprese innovative, hanno bisogno di selezionare e formare i propri quadri, diventa essenziale che si articolino e trasmettano anche queste cosiddette soft-skills.

Mi sono così ritrovato ad organizzare corsi su queste soft-skills presso diverse istituzioni: il Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Birkbeck College dell’Università di Londra, la Venice International University. Ho dovuto dire così tante volte le stesse cose che alla fine ho deciso di raccogliere i suggerimenti in un volume (L’apprendista stregone. Consigli, trucchi e sortilegi per aspiranti studiosi, Luiss University Press, 2022). Non perché mi sia venuto a noia dirle, ma perché mi sono accorto che i miei allievi non avevano più voglia di sentirsele ripetere. Se si diventa così monotoni, beh, è il segno evidente che si è purtroppo invecchiati.

Dei tanti consigli che ho trasmesso, ne elenco solamente cinque.

Il primo è di scegliere accuratamente i propri mentori. È troppo spesso una scelta che i giovani lasciano al caso, anche se da essa facilmente dipende se si diventerà uno studioso di professione o si è, invece, destinati al fallimento. La prima qualità di un mentore è possedere competenze appetibili. Abbiamo bisogno di mentori perché non tutte le conoscenze professionali si ritrovano scritte nei manuali. Molte di esse sono tacite, direbbe Michael Polanyi, e per essere acquisite occorre che il garzone lavori a contatto di gomito con il capomastro. Eppure, non tutti gli accademici sono ben disposti nei confronti dei loro più giovani colleghi: molti sono così gelosi del proprio sapere che percepiscono gli allievi come dei potenziali concorrenti piuttosto che come membri della generazione futura cui passare il testimone. Per cui, occorre trovare il mentore che combini insieme capacità scientifica e volontà di fare scuola, accettando oltretutto che i suoi discepoli non si limitino a ripetere pedissequamente quanto da lui o lei enunciato. Piuttosto dovrebbe incoraggiarli a sviluppare nuovi strumenti e tecniche di analisi.

Il secondo è di valutare in maniera realistica e spietata le proprie capacità. Il mondo del sapere ha bisogno di persone che sappiano scrivere e far di calcolo, che siano capaci di organizzare progetti complessi e mantenere rapporti professionali esterni al ristretto mondo accademico. Occorre puntare sui campi in cui si riesce meglio e poi affidarsi a fruttuose collaborazioni con colleghi che dispongano di competenze complementari.

Da qui scaturisce un terzo suggerimento, ossia quello di coltivare un proprio gruppo creativo. Una disamina della storia della scienza e della cultura mostra che raramente scoperte e movimenti rilevanti sono il frutto di un solo genio. Nella maggior parte dei casi, i progressi nella conoscenza e nell’arte sono determinati da più individui che hanno lavorato insieme, che si sono confrontati – anche polemicamente – tra loro, che si sono fatti influenzare e che hanno imitato scuole di pensiero contigue.

Il quarto suggerimento è di avere il coraggio di farsi contaminare da istituzioni e luoghi diversi. Rimanere dalla culla alla bara nella stessa sede può forse procurare comfort personale, ma non aiuta a padroneggiare le nuove competenze. Uno studioso, specie nelle fasi iniziali della propria carriera, deve invece essere disposto a viaggiare nei centri di eccellenza per osservare e impadronirsi alla fonte delle nuove opportunità scientifiche.

Il quinto è di non prendersi mai troppo sul serio. Non è affatto detto che gli studiosi debbano essere pedanti. Possono al contrario permettersi di seguire le proprie inclinazioni, usare come ispirazione per il proprio lavoro non solo le fonti scientifiche, ma anche gli stimoli provenienti dal mondo professionale, dalle arti, dalla letteratura, dal cinema. Coltivare un pizzico di stravaganza e addirittura hobbies e passioni extra-accademiche non va a discapito della serietà professionale ma può, entro certi limiti, addirittura rafforzarla.

Mi preme ricordare che il mio libro è dedicato al mio amico e Maestro Federico Caffè. Tra le sue tante qualità, Caffè aveva anche quella di essere capace di ascoltare i suoi allievi e colleghi più giovani, di interrogarsi sulle loro aspirazioni, di dare loro fiducia e allo stesso tempo spronarli a fare meglio il proprio lavoro. Ho avuto il grande privilegio di aver ascoltato molti dei suoi consigli e, purtroppo, non posso dire di averli seguiti tutti. Ma nel corso degli anni, mi sono sempre di più ritornati alla mente, specie quando anch’io mi sono ritrovati a ripeterli ai miei allievi. Dopo aver enunciato i suoi suggerimenti, Caffè sentenziava: “intanto lo so che poi alla fine farai a modo tuo. A lavar la testa all’asino, si perde la spazzola e il sapone”. Beh, dopo tutti questi anni, vorrei tanto fargli sapere quanto mi è stato utile ascoltarlo. E che ancora oggi le sue parole mi tengono una grande compagnia.

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