L’America debole e la tentazione del protezionismo

Uno dei temi riaccesi dalla recente campagna elettorale per le primarie in America e’ il protezionismo. Difficile dire che i candidati democratici e repubblicani si assomiglino tra loro, ma sulle politiche commerciali sembra esserci una pericolosa convergenza che riflette, almeno in parte, l’umore dell’elettorato americano. Uno dei candidati repubblicani emergenti, Mike Huckabee ha affermato: “Non voglio vedere il nostro cibo venire dalla Cina, il nostro petrolio dall’Arabia Saudita e i nostri prodotti manufatti dall’Europa e dall’Asia”. La senatrice Clinton si è spinta fino a proporre –se eletta- un “timeout” ai futuri accordi commerciali, inclusi quelli discussi nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Quali sono i fatti? Il dato centrale e’ la crescente ansia di molti cittadini americani sulle proprie prospettive economiche. Tale ansia non e’ irrazionale, ma affonda le proprie radici in due problemi sostanziali. Primo, il rallentamento dell’economia americana. Secondo, l’aumento delle diseguaglianza nella distribuzione del reddito. Ne discutiamo brevemente.

La brusca frenata degli Sati Uniti e’ sulla bocca di tutti. A gennaio diverse istituzioni economiche forniscono stime sulle prospettive per l’economia dell’anno appena incominciato. Ad esempio, il Global Economic Prospects della Banca Monidale sostiene che la crisi dei mutui cominciata nel 2007 portera’ ad un rallentamento per tutto il 2008 che raggiungera’ il suo apice nel 2009 (cioe’ nel primo anno di vita della nuova amministrazione). Non solo, esiste il rischio che, se i prezzi negli Stati Uniti dovessero iniziare a calare precipitosamente, porterebbero in recessione l’economia americana.

L’ansia dei cittadini americani ha pero’ una radice piu’ profonda della crisi del 2007, e’ la radice della diseguaglianza. In un recente libro (The Conscience of a Liberal), Paul Krugman ne discute estesamente. Citando un noto lavoro di Piketty e Saez del 2003 nota come la distribuzione del reddito in America sia tornata ai livelli di diseguaglianza degli anni venti. Cioe’ prima delle riforme del New Deal di Roosevelt (proseguite poi dalle amministrazioni democratiche e repubblicane –si pensi ad Eisenhower- fino agli anni settanta). Nel 2005 il 10% della popolazione possedeva il 44.3% del reddito complessivo degli Stati Uniti, l’1% dei piu’ ricchi aveva uno share del 17.4%. Numeri sorprendentemente vicini agli anni venti, rispettivamente del 43.6% e del 17.3%.

La tentazione di rispondere a problemi interni con misure che rischiano di danneggiare gli altri paesi e’ ovunque forte. Questo e’ il dramma della globalizzazione, che aumenta l’interdipendenza economica tra diverse aree del mondo, ma lascia la politica chiusa dentro confini nazionali. Ma la domanda che qui poniamo e’ diversa: E’ il protezionismo nell’interesse degli Stati Uniti? In sintesi, la risposta e’ due volte no.

Cominciamo dal problema del rallentamento dell’economia. E’ un fatto assodato che la crescita mondiale negli ultimi anni sia sostenuta dallo sviluppo dei paesi emergenti che sono avanzati a tassi del 7.5% (dato del 2006). La crisi dei mutui americana ha avuto fino a questo punto effetti marginali e la Banca Mondiale prevede che nel 2008-2009, trainati da India e Cina, i paesi emergenti continueranno a crescere al 7%. Svolte protezioniste negli Stati Uniti avrebbero si l’effetto di far aumentare la domanda interna per i prodotti americani, ma gli effetti negativi sui paesi in via di sviluppo (e quindi sulla crescita mondiale) darebbero vita a contraccolpi pericolosi sul lato delle esportazioni (anche in assenza di misure restrittive in altre parti del mondo, che comunque non si farebbero attendere).

Secondo, la distribuzione del reddito. E’ noto che il commercio con paesi con abbondanti risorse di manodopera a basso prezzo tende ad abbassare i salari in termini reali dei lavoratori domestici poco qualificati. Tuttavia, l’evidenza empirica suggerisce che non sia il commercio internazionale (nemmeno nelle sue nuove forme di frammentazione dell’attivita’ produttiva in diverse parti del mondo –offshoring e outsourcing) ad aver determinato un aumento delle diseguaglianze in America. E’ invece il progresso tecnologico (congiuntamente con l’assenza di istituzioni adeguate nel mercato del lavoro, spese sociali ed una tassazione sufficientemente redistributiva, come discusso da Krugman) che ha prodotto effetti rilevanti sulla distribuzione del reddito, favorendo i lavoratori qualificati. L’imposizione di restrizioni al commercio internazionale non risolverebbe, quindi, il problema della iniqua distribuzione del reddito in America e non puo’ sostituirsi all’introduzione di appropriate reti di protezione sociale.

Il rischio della odierna crisi americana (e delle scelte di politica economica della futura amministrazione) per il resto del mondo e’ notevole. In essenza, il problema e’ quello del mantenimento dello stesso sistema economico internazionale come l’abbiamo conosciuto dal dopoguerra ad oggi, cioe’ aperto e cooperativo. In assenza di un governo mondiale, un tale sistema ha bisogno di leadership per funzionare efficacemente. Mi permetto una breve digressione sulla storia dell’integrazione europea che conferma questa tesi. Nella sua prima fase di vita, il processo d’integrazione dell’Europa e’ partito sotto la spinta propulsiva francese e si e’ arenato verso la fine degli anni sessanta con la fine della leadership francese. E’ poi ripartito con la forza della Germania dall’inizio degli anni ottanta e nuovamente ha perso colpi con le difficolta’ tedesche degli ultimi anni novanta. Non e’ un caso: la leadership e’ il riflesso sul piano internazionale dell’energia di un paese. Curiosamente, cio’ che molto spesso non e’ compreso, dimostrare leadership vuol dire saper cedere –esattamente il contrario dell’imposizione. Cosi’, la leadership francese negli anni cinquanta e’ consistita nell’offrire alla Germania appena uscita dalla guerra la possibilita’ di mettere in comune le risorse di carbone e acciaio nella prima comunita’ europea. La Germania all’inizio degli anni novanta ha dimostrato la propria leadership rinunciando alla propria moneta forte. In entrambi i casi, gli effetti positivi di queste scelte non sono mancati, sia per il sistema europeo nel suo complesso che per la Francia (negli anni cinquanta) e per la Germania (nei giorni nostri). Le scelte lungimiranti hanno anche il loro giusto tornaconto.

Il sistema economico mondiale ha funzionato al meglio quando l’America ha saputo cedere, non chiedere. Si pensi ai primi anni del dopoguerra, alle risorse elargite attraverso il piano Marshall o al sostegno dato al mantenimento di un sistema monetario internazionale fino al 1971. Inutile dire che, anche nel caso degli Stati Uniti, le concessioni hanno coinciso con un interesse nazionale di lungo periodo, ma gli effetti positivi sono andati ben oltre i confini americani, trasformando le economie dei paesi coinvolti (Europa e Giappone principalmente). Il richiamo a politche di chiusura dei giorni nostri e’, invece, un sintomo preoccupante di debolezza e, in una prospettiva di lungo periodo, un scelta gravemente sbagliata.

E’ il momento dell’Unione Europea? L’Europa non ha superato molti dei suoi problemi legati alla insufficiente crescita della produttività. Inoltre, gli effetti della difficile congiuntura economica americana non tarderanno a farsi sentire. Tuttavia, non si puo’ negare che non mancano segnali positivi. In primo luogo, l’aumento della competizione dei paesi emergenti sta contribuendo ad aumentare la produttivita’ delle imprese in Europa. Cio’, e questo forse dispiacera’ a chi in Italia sosteneva l’introduzione di nuove barriere tariffarie alla Cina, e’ visibile anche nei dati microeconomici italiani (si veda a proposito un recente studio di Bugamelli e Rosolia della Banca d’Italia). Secondo, nonostante la forza dell’euro diversi paesi dell’Unione hanno continuato ad aumentare le proprie esportazioni. Segnali che i sistemi produttivi stanno reagendo in maniera positiva al nuovo contesto economico. E’ presto pero’ per dire se l’Europa in questa fase avra’ la forza di svolgere un ruolo di leader nel sistema economico internazionale. In parte dipendera’ da come funzioneranno le nuove istituzioni riformate dal trattato di Lisbona, in particolare la politica (economica) estera.

Riferimenti:

Banca Mondiale, Global Economic Prospects 2008.

Bugamelli, M., e A. Rosolia, 2007, Produttivita’ e Concorrenza Estera, Rivista di Politica Economica, in corso di pubblicazione

Krugman, P., 2007, The Conscience of a Liberal, Norton, New York.

Piketty, T. e E. Saez, Income Inequality in the United States: 1913-1998, Quarterly Journal of Economics, 118, 1.

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