La parola “compagno”

“Compagno” è una delle prime parole con cui ci identifichiamo come membri di un gruppo o di una comunità. E quella parola ci accompagna per tutta la vita.
Compagni d’asilo.
Compagni di scuola.
Compagni d’arme.
Compagni di lavoro
Compagni di studi.
Compagni di gite.
Compagni di partito.
Compagni d’amore.
Compagni di ventura e di sventura.
Compagni di vita.
Ma nel revisionismo del revisionismo ora è comparso qualcuno che quella parola la vuole bandire. Perché l’usavano non solo i socialisti ma perfino i comunisti. L’usavano in Spagna, l’usavano nelle Brigate Garibaldi. Invece di dire come e’ proprio dei borghesi e dei servitori “Signore”, – anche a chi dei modi e e del rispetto per l’altrui persona nulla aveva del galateo formale dei signori – dicevano “compagno” a sottolineare un’uguaglianza e una simpatia che esistevano nei fatti o che si sarebbe voluto esistessero. L’uso della parola “compagno” non può essere naturalmente obbligatorio così come non può essere obbligatorio il darsi del tu. Luigi Longo mi diceva di soffrire quando qualche ragazzetto si rivolgeva a Togliatti con il tu e personalmente, da figlio di contadini astigiani, preferiva il “voi” che ha sempre usato quando si rivolgeva ad una compagna. Ma una cosa è la libertà di usare le parole che ci piacciono e quando ci piacciono (non tutti erano “compagni di scuola”, alcuni erano “uno che sta in classe con me”) e altra cosa è imporre o proibire. Io sono onorato di essere stato chiamato “compagno” da Togliatti o Pietro Nenni o Ho Chi Minh, ma sono altrettanto onorato di essere stato chiamato “amico” da Aldo Moro. E non mi sognerei mai di rinunciare all’una o all’altra parola. Possibile che in tempi in cui la crisi proibisce al 95% degli italiani questo o quello ci sia gente che vuol proibire perfino le parole o, meglio, tornare a proibirle? Ma non hanno altro da fare?
l.b.

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