La crisi dell’Unione Monetaria e le relazioni centro-periferia in Europa

Giuseppe Celi, Andrea Ginzburg, Dario Guarascio e Anna Maria Simonazzi presentano un sintesi del loro recente libro “Crisis in the European Monetary Union. A core-periphery perspective” dove propongono una lettura di lungo periodo dei problemi dell’Europa. In particolare, essi danno conto del processo di polarizzazione in atto che vede, da un lato, un ‘centro’ forte (la Germania) e, dall’altro, due ‘periferie’ eterogenee ma dipendenti dal medesimo centro (il Sud e l’Est Europa). Nelle conclusioni gli autori indicano la strada da percorre per rinnovare le politiche europee.

La crisi dell’eurozona (EZ) ha disvelato in modo eclatante i limiti e le imperfezioni dell’attuale assetto delle relazioni istituzionali, economiche e monetarie in Europa. La crisi dell’EZ ha radici lontane. Amartya Sen, con mirabile sintesi, inquadrava la crisi del progetto europeo come una sorta di “punizione” derivante da errori di varia natura: (i) di policy (l’anteposizione dell’unione monetaria a quella politica); (ii) di teoria economica (l’aver trascurato la lezione keynesiana abbracciando in modo via via più radicale un approccio ‘supply side’ alla politica economica); (iii) di approccio decisionale (il ‘feticismo’ delle regole contabili anteposto alla razionalità economica); (iv) di travisamento intellettuale (le misure di austerità propagandate come riforme). L’accumularsi di questi errori ha portato l’Europa all’attuale paradosso: da un lato, un progetto originariamente finalizzato a promuovere convergenza e armonizzazione tra i paesi membri; dall’altro, una realtà caratterizzata da grandi divisioni tra aree forti e deboli, tra aree che gestiscono le catene del valore creando opportunità di sviluppo per nuove periferie e aree deindustrializzate, tra aree che crescono e aree che perdono forza lavoro qualificata e che dipendono da flussi finanziari esterni.

Come si è arrivati ad una tale drammatica polarizzazione? Per rispondere a questa domanda è necessario affondare lo sguardo nel lungo periodo. In primo luogo, è necessario riflettere su come il processo di globalizzazione finanziaria che ha avuto avvio negli anni ‘70 con l’abbandono del regime di Bretton Woods si è dispiegato in Europa. Quegli anni segnarono una cesura importante rispetto al trentennio di crescita sostenuta che seguì la fine della seconda guerra mondiale. Tre sono le discontinuità fondamentali: (i) l’interruzione del meccanismo di sviluppo economico basato sull’interazione virtuosa tra investimenti ed esportazioni; (ii) l’assurgere del settore finanziario a motore chiave per l’accumulazione dei profitti; (iii) la transizione da un approccio di policy basato sulla discrezionalità ad uno fondato sull’automatismo delle regole.

Queste tre discontinuità costituiscono il background che sta alla base della via europea alla finanza globale e all’integrazione monetaria, ossia a ciò che abbiamo chiamato ‘Europeizzazione’. All’origine del percorso che ha portato alla costituzione dell’EZ, vi era la compenetrazione di due modelli: quello tedesco che, forte dei successi conseguiti dalla Germania nel contrastare la stagflazione, affermava la stabilità dei prezzi come strategia primaria per l’occupazione e la crescita; e quello americano che, legittimato dalla buona performance economica degli Stati Uniti nella prima metà degli anni ottanta, rivendicava la deregolamentazione e la liberalizzazione dei mercati (del lavoro, dei beni, dei capitali) quale viatico per combattere la disoccupazione. In questo contesto, il processo di integrazione monetaria in Europa si è instradato sui binari di un’agenda neoliberista fondata sulla liberalizzazione dei flussi di capitali tra i paesi membri. Al contempo, l’intento (frequentemente dichiarato) di voler preservare gli elementi chiave del cosiddetto modello sociale europeo è andato sistematicamente disatteso, con il progressivo restringimento del welfare e l’aumento delle diseguaglianze.

La crisi strutturale degli anni settanta ha rappresentato uno snodo cruciale nelle modalità della competizione internazionale, innalzando gli standard richiesti per competere sui mercati globali: la differenziazione dei prodotti basata su qualità e innovazione si afferma progressivamente come risposta alla saturazione della domanda per i beni di consumo di massa durevoli. In questa transizione da un regime di concorrenza basato principalmente sui prezzi (price-led competition) ad uno basato sulla differenziazione dei prodotti (product-led competition), alcuni paesi non hanno retto il passo, interrompendo o rallentando il processo di industrializzazione, mentre altri hanno gestito il cambiamento innovando la struttura industriale. Paesi come l’Italia, la Grecia, il Portogallo e la Spagna hanno arrestato prematuramente il processo di rafforzamento della struttura industriale intrapreso (in modo eterogeneo) sino a quel momento. Al contrario, paesi core, come la Germania, con il supporto delle politiche industriali, hanno intrapreso un percorso di riqualificazione e riorganizzazione della struttura produttiva adeguandosi con successo al mutato regime concorrenziale internazionale. In presenza di una simile eterogeneità di strutture e traiettorie di sviluppo, l’abbattimento delle barriere volte alla limitazione dei flussi di merci e capitali tra i paesi che si accingevano ad aderire al Mercato Unico (e poi all’EZ) ha coinciso con l’imposizione di regole eguali tra entità significativamente diseguali. In altri termini, l’EZ viene a configurarsi fin dall’inizio come una costruzione istituzionale con problemi di embeddedness, sradicata, cioè, dagli specifici contesti socio-economici e istituzionali dei paesi membri e indifferente alle divaricazioni nei loro livelli di sviluppo.

Lo scoppio della crisi del 2008 e i suoi effetti differenziati tra i paesi dell’eurozona vanno dunque esaminati alla luce del background appena tratteggiato. Interpretata erroneamente come un tipico problema di bilancia dei pagamenti, la crisi dell’EZ è in realtà l’esito finale dell’inadeguatezza delle istituzioni europee di fronte ad un break strutturale simile a quello avvenuto negli anni settanta. Ciò che rileva sono, nuovamente, le differenze nella struttura e nelle traiettorie evolutive delle diverse economie. Nei dieci anni successivi alla nascita dell’euro, la Germania dà inizio ad un processo di riorganizzazione della sua economia: energiche riforme del mercato del lavoro (i.e. il piano Hartz); politiche di moderazione salariale; delocalizzazione di importanti produzioni manifatturiere verso paesi dell’Est Europa. Le scelte della Germania contribuiscono a modificare in modo significativo la struttura delle interdipendenze produttive e delle relazioni commerciali con e tra i paesi dell’eurozona. Guardando ai cambiamenti del network delle relazioni commerciali della Germania tra il 1999 e il 2008, colpisce la crescita esponenziale del surplus commerciale tedesco soprattutto nei confronti dei paesi del Sud Europa (e della Francia). Inoltre, nello stesso periodo, il valore delle esportazioni dei paesi dell’Est Europa verso la Germania cresce in modo rilevante superando in modo significativo quello delle esportazioni del Sud Europa verso la stessa Germania; questa evidenza segnala come la proiezione verso l’Est della piattaforma manifatturiera tedesca abbia spiazzato in modo significativo i precedenti legami produttivi con i paesi dell’Europa meridionale.

L’analisi del network delle relazioni commerciali della Germania è utile per offrire una prospettiva diversa al dibattito sulle cause della crisi dell’EZ, solitamente incentrato sulla spiegazione monodirezionale che identifica la moderazione salariale (ovvero la crescita della competitività di prezzo tedesca via bassi salari) quale fattore esplicativo chiave. A nostro avviso, risulta più indicato un approccio multidimensionale l’intera moltitudine di fattori esplicativi. In primo luogo, i legami della Germania con i mercati in espansione dei paesi emergenti capaci di garantire rilevanti flussi di domanda per i beni tedeschi (ciò si è rivelato particolarmente rilevante negli anni successivi alla crisi quando è crollata la domanda nei paesi del Sud Europa). In secondo luogo, l’offshoring tedesco verso l’Est Europa che ha garantito alla Germania l’afflusso di beni intermedi di medio alta qualità ad un prezzo relativamente basso (grazie ai salari più bassi praticati nei paesi dell’Est ed alla forza dell’euro nei confronti delle monete di questi paesi). In aggiunta a ciò, è rilevante sottolineare come le riforme che hanno segmentato il mercato del lavoro tedesco favorendo la moderazione salariale abbiano influenzato soprattutto la parte “non corporativa” dello stesso mercato del lavoro tedesco (il settore dei servizi). La quota crescente dei lavoratori a basso salario e dei working poor sull’occupazione complessiva tedesca ha contribuito a tenere basso il costo dei servizi e, per questa via, a sostenere indirettamente la competitività dell’industria esportatrice. Inoltre, la stessa crescita dell’occupazione a basso salario ha comportato un calo del potere di acquisto di larghi strati della popolazione tedesca, determinando un declino della qualità dei beni importati, che oltre a far crescere il surplus tedesco per un puro effetto di reddito, ha esercitato effetti significativi sulla stessa composizione geografica delle importazioni tedesche: le importazioni di beni di consumo di bassa qualità dalla Cina crescono in modo rilevante nel primo decennio del nuovo millennio, mentre diminuiscono i beni importati dai paesi del Sud Europa. Tutti questi fattori, oltre a incidere in maniera significativa sul surplus tedesco, hanno determinato l’evoluzione divergente di due periferie, il Sud Europa (Italia, Grecia, Portogallo e Spagna ) e l’Est Europa (Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca e Ungheria), nei rapporti con il centro. A partire dall’introduzione dell’euro, i paesi del Sud Europa hanno sperimentato un indebolimento della loro base industriale e una crescente dipendenza da flussi finanziari provenienti dall’estero. Al contrario, i paesi dell’Est Europa, diventando parte integrante della piattaforma manifatturiera europea gestita dalla Germania, hanno allargato e rafforzato in modo rilevante la propria base industriale, spiazzando, in parte, le produzioni del Sud Europa.

Gli effetti drammatici (e distribuitisi in modo diseguale) della crisi esplosa nel 2008 hanno messo in luce come la combinazione di asimmetrie strutturali e regole basate su di un automatismo “depoliticizzato” minino la sostenibilità del progetto europeo. Se non altro, del progetto europeo per come esso era concepito ai suoi albori: un piano ideato per favorire convergenza ed armonizzazione tra le economie parte dell’Unione. La convergenza tra aree eterogenee si è dimostrata incompatibile con l’abbattimento di barriere – i.e. la liberalizzazione dei flussi merci e capitali – in assenza di meccanismi capaci di proteggere e supportare le aree e gli agenti economici più deboli. Si pensi ai paesi del Sud Europa oggi ingabbiati in quella che è stata definita una middle-income trap: una situazione che li vede non più capaci di sostenere una competitività di prezzo, di fronte alla concorrenza dei paesi emergenti, ma nemmeno in grado di accettare le sfide di una competizione globale basata sulla qualità. Per questi paesi, la strada dovrebbe essere quella dell’allargamento e della diversificazione della base produttiva dei paesi periferici. Tuttavia, il raggiungimento di un simile obiettivo richiede un ripensamento radicale dell’impianto di politica economica europeo. In questo percorso di upgrading produttivo, lo stato dovrebbe avere un ruolo attivo nel promuovere politiche macroeconomiche e industriali funzionali ad una strategia di sviluppo e innovazione legata ad obiettivi precisi e selettivi: non uno stato “regolatore”, quindi, ma uno stato “imprenditore” e “innovatore” (M. Mazzuccato, “Ripensare la concezione di Stato”, Il Mulino, 2014, 63, 484–491).

Tuttavia, le politiche industriali dell’Unione Europea, recentemente rilanciate con il piano Juncker, non sembrano ammettere altro ruolo dello stato che non sia quello di regolare e garantire la concorrenza. Questo approccio rischia di produrre nuove forme di dumping sociale rischiando di ridurre ulteriormente la capacità produttiva nelle economie periferiche più deboli. Sebbene la crescente instabilità strutturale e politica richieda un cambio di passo e di strategia, l’attuale assetto delle politiche economiche dell’Unione Europea continua a fondarsi sul pernicioso combinato disposto ben delineato da Sen: ostinato rispetto della rettitudine fiscale e automatismo delle regole.

* Questo articolo rappresenta una breve sintesi dei contenuti del libro degli stessi autori, in corso di stampa presso Routledge, dal titolo Crisis in the European Monetary Union: A Core-Periphery Perspective.

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