Keynes: riformare il capitalismo attraverso un nuovo sistema di valori

Di Keynes si parla sempre molto. Anche in questa crisi le ricette keynesiane sono spesso evocate come rimedio alla situazione intricata in cui viene a trovarsi l’economia mondiale. Ma le proposte di Keynes per uscire dalla grande crisi degli anni Trenta affondano le radici in una visione del capitalismo ben precisa – quella di un sistema di per sè incapace, se lasciato libero a se stesso, di assicurare la piena occupazione e lo sviluppo – che a volte si tende a dimenticare. Questa instabilità di fondo dipende essenzialmente dal fatto che l’economia è fatta di uomini e donne in carne e ossa, le cui decisioni vengono prese in condizioni di incertezza e possono essere dettate da un’ampia gamma di moventi, non sempre riconducibili alla razionalità pura e al mero interesse personale. E’ chiaro che qui entra in gioco anche la concezione etica degli esseri umani, un aspetto su cui erroneamente si sorvola troppo spesso e che è invece importantissimo considerare non per motivi moralistici, ma perché è da lì che partono le decisioni, le scelte, i comportamenti.

Keynes non ha sviluppato molto il rapporto fra etica ed economia, anche perché preso dall’affrontare altri problemi più urgenti. Tuttavia nelle sue opere “minori” emergono squarci di luce sull’etica e sulla sua concezione del capitalismo, che è estremamente interessante considerare. Le idee e gli spunti che offre il grande economista di Cambridge sono quasi sempre originali e sorprendenti, eterodossi e provocatori.

In questi suoi scritti Keynes dimostra di avere sempre ben presente il legame tra capitalismo e società, un rapporto che può essere più o meno forte a seconda del periodo storico. Il successo del capitalismo è legato alla coesione e al consenso sociali, come dimostra ampiamente l’esperienza storica. In questo senso è interessante osservare la distinzione che Keynes fa tra il capitalismo dell’Ottocento e il capitalismo dei “tempi moderni”. Lo spiega chiaramente nel suo bellissimo pamphlet Le conseguenze economiche della pace del 1919. Il capitalismo ottocentesco era dotato di una sua intrinseca coesione interna, perché si fondava su una tacita intesa tra le classi agiate e le classi povere. Da un lato, la classe emergente dei nuovi imprenditori e capitani d’industria, cui andava la quota di gran lunga maggiore del reddito prodotto, preferiva reinvestire e non spendere l’enorme ricchezza in suo possesso, alimentando così l’accumulazione del capitale e la crescita. Dall’altro lato, il proletariato industriale, che non aveva ancora sviluppato una vera coscienza critica e forse inconsapevolmente condivideva l’idea di progresso portata avanti dai capitani d’industria e dalla classe politica dominante, era disposto ad accettare un’iniqua distribuzione dei redditi in cambio, appunto, del tacito impegno degli industriali a reinvestire. Questo tacito accordo, come Keynes già nel 1919 intuisce, è però molto fragile. Infatti, dopo la prima guerra mondiale l’equilibrio va in frantumi. I capitalisti non sono più disposti a sacrificare sull’altare dell’accumulazione le ricchezze guadagnate, mentre, tra le classi povere, sulla spinta sia del socialismo sia del cattolicesimo sociale, comincia a farsi strada l’idea di una società più giusta.

Nel 1917 in Russia scoppia la rivoluzione d’ottobre. Nel 1925 Keynes dedica alla nascente Unione Sovietica un saggio intitolato Un breve sguardo alla Russia. Egli non ha alcuna stima del comunismo dal punto di vista economico, perché ne vede i profondi limiti, ma sottolinea la sua immensa forza come religione che attrae le masse.

“Il capitalismo moderno – egli scrive nel saggio del ’25 – è assolutamente irreligioso, privo di unità interna, senza molto senso civico, spesso – ma non sempre – mera congerie di possessori e arrivisti. Per sopravvivere, un sistema del genere deve avere non solo un moderato successo, ma un immenso  successo. Nel XIX secolo era in certo qual senso idealistico; in ogni caso era un sistema coeso e sicuro di sé. Non solo aveva un successo enorme, ma nutriva speranze in un continuo crescendo di successi in futuro. Oggi il suo successo è moderato e niente di più. Se il capitalismo irreligioso vuol sconfiggere una volta per tutte il religioso comunismo non basta che economicamente sia più efficiente: deve essere molte volte più efficiente. Credevamo che il capitalismo moderno fosse capace non solo di garantire gli standard di vita esistenti, ma di portarci gradualmente verso un paradiso dove saremmo stati relativamente liberi da preoccupazioni economiche. Ora dubitiamo che l’uomo d’affari ci stia conducendo verso chissà quale destinazione migliore. Come mezzo, egli è tollerabile, come fine non è soddisfacente. Ci si comincia a chiedere se i vantaggi materiali di tenere l’economia e la religione in compartimenti stagni siano sufficienti a controbilanciare gli svantaggi di natura morale.”

Ora, a distanza di quasi novantanni, sappiamo tutti che il comunismo ha ampiamente perso la sfida con il capitalismo, ma vediamo altrettanto chiaramente i profondi limiti di una concezione etica del capitalismo assolutamente inadeguata a soddisfare le esigenze dell’uomo di oggi. Ma qui è ancora una volta Keynes a sorprenderci, quando critica l’utilitarismo, la filosofia morale alla base del marginalismo, la teoria economica allora e ancor oggi dominante. In una nota a pie’ pagina del saggio dedicato ad Alfred Marshall nel 1924 egli scrive: “Come sono deludenti, ora che li conosciamo, i frutti della brillante idea di ridurre la scienza economica a un’applicazione matematica del calcolo edonistico di Bentham!”. E in un’altra nota contenuta in La fine del laissez-faire (1926), riporta, condividendolo, un giudizio di Coleridge, scrittore inglese dell’Ottocento: “Gli utilitaristi distrussero ogni elemento di coesione, trasformarono la società in un campo di battaglia per interessi egoistici e colpirono alla radice qualsiasi forma di ordine, patriottismo, poesia e religione.”

Keynes non sviluppa una filosofia etica alternativa all’utilitarismo. Spesso però emerge nei suoi scritti una critica esplicita all’avidità, alla brama di accumulare ricchezza fine a se stessa, alla “sacra fame dell’oro”. In Possibilità economiche per i nostri nipoti (1931) egli scrive: “Nel momento in cui l’accumulazione di ricchezza cesserà di avere l’importanza sociale che le attribuiamo oggi, i nostri codici morali non saranno più gli stessi. Saremo finalmente in grado di buttare alle ortiche molti pseudoprincipi che ci affliggono da duecento anni, e che ci hanno spinto a far passare alcune fra le più ripugnanti qualità umane per virtù eccelse. Potremo finalmente permetterci di assegnare al desiderio di denaro il suo giusto valore. L’amore per il denaro, per il possesso del denaro – da non confondersi con il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita -, sarà, agli occhi di tutti, un’attitudine morbosa e repellente, una di quelle inclinazioni a metà criminali e a metà patologiche da affidare con un brivido agli specialisti di malattie mentali. E finalmente saremo liberi di accantonare tutte le abitudini sociali e le pratiche economiche che riguardano la distribuzione della ricchezza e gli incentivi e i disincentivi economici che oggi manteniamo in vita a ogni costo, per quanto siano, di per sé, disgustosi e ingiusti, ritenendoli essenziali all’accumulazione di capitale.”

In altre parole, Keynes, come evidenziano le conclusioni di Un breve sguardo alla Russia, invoca “un nuovo sistema di valori che scaturisca in modo naturale da un esame sereno del nostro intimo sentire in relazione alla realtà esterna.” E così dicendo il grande economista di Cambridge ci indica la strada da percorrere, che è quella di ricostruire le basi su cui si fonda l’economia, partendo appunto da un sistema di valori consono alle esigenze dell’uomo in sintonia con i tempi in cui viviamo. Nonostante i suoi limiti e i suoi problemi, Keynes continua a credere nel capitalismo come sistema economico e sociale, ma in un capitalismo con una buona dose di riformismo, capace cioè di autocorreggersi e rigenerarsi ad ogni svolta della storia.

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