Il part-time, una scelta dell’offerta o della domanda di lavoro?

Tiziana Canal e Valentina Gualtieri fanno il punto su alcuni aspetti che caratterizzano le donne occupate nel mercato del lavoro italiano rispetto agli uomini. In particolare, le autrici approfondiscono lo studio della diffusione del part-time, proposto in passato, principalmente, come uno strumento per favorire la conciliazione fra tempi di lavoro e di cura da parte delle donne e utilizzato, soprattutto negli ultimi anni, come strumento per accrescere la flessibilità da parte della domanda di lavoro.

Il 2017 verrà ricordato in Italia, fra gli addetti ai lavori – o forse sarebbe più corretto dire fra le addette, non solo per equità semantica, ma perché complessivamente di donne si occupano quasi sempre altre donne – come l’anno in cui si è registrato il record storico del tasso d’occupazione femminile: nel terzo trimestre 2017 il 49,1% delle donne 15-64enni era occupato. In un recente Policy Brief dell’INAPP tale risultato è stato approfondito – analizzando i dati degli ultimi anni – con l’obiettivo di capire se è possibile esprimere, al riguardo, soddisfazione per il presente e ottimismo per il futuro.

È necessario sottolineare che non si è volutamente tenuto conto del 51% di donne che non lavorano, della forza lavoro potenziale inutilizzata, del capitale umano sprecato, della parte di PIL non prodotto. Si è invece offerto un quadro su alcuni aspetti che tendono a caratterizzare le donne occupate nel periodo 2008-2016, comparandole con gli uomini. In estrema sintesi, dall’analisi condotta sulla situazione del lavoro femminile non emergono questioni non note, ma nuovi aspetti su cui riflettere.

Il mercato del lavoro si avvale meno delle donne rispetto agli uomini. Se da un lato è vero che la marcata differenza di genere nella quota di persone occupate si è progressivamente ridotta dal 2008 a causa, sostanzialmente, della diminuzione dell’occupazione maschile in seguito alla crisi, dall’altro, la ripresa occupazionale, registrata dal 2014, ha di fatto innescato una nuova crescita del divario di genere nei tassi di occupazione. Rimane inoltre alto il divario di genere nell’utilizzo del part-time e nel numero di ore lavorate complessivamente.

Inoltre, il ridotto utilizzo della componente femminile nell’occupazione appare, nell’insieme, come un fenomeno legato più a dinamiche strutturali che a congiunture economiche, positive o negative. La componente maschile ha subito di più gli effetti della crisi, principalmente in ragione della preponderanza della stessa componente nei settori che hanno sperimentato la contrazione maggiore nella fase post-2008 (si pensi, ad esempio, a settori come le costruzioni e l’industria in senso stretto). Nella fase di ripresa, tuttavia, la componente occupazionale maschile è quella che ha mostrato i tassi di crescita maggiori determinando una nuova divaricazione del differenziale di genere.

Nel complesso, quello che colpisce di più quando si osserva il lavoro maschile e femminile è che le peculiarità paiono sempre le stesse, da 20 anni a questa parte: la componente femminile è meno utilizzata, in termini di quote di popolazione e di ore di lavoro; le donne occupate (dipendenti e full time) hanno mediamente retribuzioni più basse dei colleghi maschi; le occupate, complessivamente, dichiarano di “stare meglio a lavoro” rispetto agli uomini, esprimendo maggiori capacità di conciliare vita professionale e vita privata, nonché maggiore soddisfazione per gli orari di lavoro; infine, sono ancora le donne, in Italia, a dedicarsi prevalentemente alle attività domestiche e di cura familiare, spendendo mediamente, circa 3 ore in più al giorno rispetto agli uomini in queste attività.

Alla ricerca di interpretazioni che consentano di comprendere sia il ridotto utilizzo delle risorse femminili all’interno del sistema produttivo italiano, sia il ridotto impiego del tempo maschile per il lavoro non retribuito, e che non guardino a tale fenomeno come al risultato di una scelta meditata o all’adattamento ad una domanda di lavoro selettiva, si è fatta propria la tesi delle “preferenze adattive” (Goldman e Altman Why do people overwork? Oversupply of hours of labour, labour market forces and adaptive preferences, in The long work hours culture: Causes, consequences and choices, a cura di Burke e Cooper, 2008).

Come chiarito da Martha Nussbaum (Le nuove frontiere della giustizia, Il Mulino, 2007), tale concetto, in relazione con quello delle capabilities, consente di cogliere le differenze, soprattutto in ottica di genere, fondate sulle preferenze – espresse in termini di adattamento e non di libera valutazione – che scaturiscono da modelli economici e culturali talmente radicati da non essere, spesso, percepite o riconosciute da chi esprime una propensione o una scelta. In altri termini la ridotta capacità di scelta conduce ad adattamenti normativi talmente interiorizzati da non essere, forse, nemmeno più riconoscibili: per avere sia un’occupazione che governare la sfera privata l’unica strada è conformarsi a modelli culturali spesso anacronistici, gravati da una domanda di lavoro selettiva e poco generosa e cercare supporto in un sistema di servizi alla persona insufficiente e con risorse economiche pubbliche sempre più ridotte.

Con questa chiave di lettura, il sottoutilizzo delle donne nel mercato del lavoro insieme all’elevato impegno mostrato nella cura familiare dalle italiane svelerebbe anche l’apparente dissonanza fra il ritenere la conciliazione come un problema tipicamente femminile per osservare poi maggiore soddisfazione da parte delle donne in tale ambito, dovuta essenzialmente al parziale impegno nel lavoro retribuito. Ciò spiegherebbe anche la coerenza fra il prevalente utilizzo nel lavoro retribuito della componente maschile e la minore capacità, da parte di quest’ultima, nel conciliare vita privata e lavorativa. In tal modo si chiarirebbe anche l’elevato ricorso al part-time da parte delle donne rispetto agli uomini (nel 2016 il 32,8% delle donne occupate lavorava a tempo parziale, per gli uomini la quota era dell’8,7%).

Riguardo al part-time è necessario evidenziare, tuttavia, che se storicamente interessava in maniera preponderante la componente femminile dell’occupazione ed era in prevalenza dettato da una scelta volontaria da parte delle donne e meno frequentemente risultava imposto dal datore di lavoro, a valle della crisi economica, qualcosa è cambiato.

Dal 2008 al 2016 l’aumento del part-time ha interessato entrambi i generi. Inoltre, la quota di part-time volontario è diminuita per le donne – mentre è rimasta pressoché invariata per gli uomini. La percentuale di “part-time involontario” è cresciuta invece di circa 9 punti percentuali fra le donne e di circa 4 punti percentuali fra gli uomini (Fig. 1).

D’altro canto, l’istituto del part-time è stato oggetto di numerose e continue modifiche negli ultimi 15 anni, cambiamenti che hanno ampliato o ridotto, a fasi alterne, la libertà del datore di lavoro nel suo utilizzo, assecondando le richieste di maggiore flessibilità gestionale della domanda di lavoro. Se la legge del 2000 (d.lgs. n. 61/2000) poneva specifiche tutele a garanzia della volontarietà della scelta del lavoratore ‑ ad esempio il datore di lavoro poteva richiedere prestazioni aggiuntive solo se previste dal contratto collettivo; se non contemplate era necessario il consenso del lavoratore ‑ ad oggi (d.lgs. n. 81/2015), la richiesta di svolgere lavoro supplementare da parte del datore di lavoro, in assenza di specifiche indicazioni nel contratto collettivo, è del tutto svincolata dal consenso del lavoratore (Marocco, La flessibilità gestionale e numerica durante la crisi, in Gualtieri (a cura di), La qualità del lavoro durante la crisi economica: alcuni approfondimenti, 2016).

Figura 1 – Incidenza del part-time volontario e del part-time involontario sul totale dell’occupazione part-time per genere, Anni 2008-2016

Approfondendo l’analisi sulla sola componente occupazionale laureata, che si ipotizza dotata di maggiori capabilies, si registrano comportamenti differenti tra uomini e donne.

E’ infatti possibile evidenziare: i) una quota più elevata di persone che hanno conseguito una laurea tra le occupate donne rispetto agli uomini, quota tra l’altro in crescita nel periodo 2008-2016 in comparazione con la componente maschile; ii) una presenza nettamente inferiore di donne laureate tra le lavoratrici part-time e una quasi assenza dell’effetto del possesso di una laurea tra i lavoratori part-time (Fig. 2); iii) un ricorso al part-time per le donne laureate nettamente inferiore rispetto alle donne non laureate, contrapposto a un utilizzo del part-time per gli uomini non associato al livello d’istruzione (fra gli occupati, laureati o meno, i livelli di part time sono molto simili, a differenza di quanto accade fra le occupate) (Fig. 3).

Ricordando che le occupate in Italia sono più istruite rispetto al resto della popolazione femminile, i dati appena mostrati sottolineano anche livelli più elevati di capitale umano tra le donne occupate rispetto agli uomini. Un’ampia letteratura si è interrogata al riguardo, fornendo risposte contrastanti sulla selezione generata da parte della domanda di lavoro nei confronti della componente femminile, piuttosto che su una sorta di autoselezione da parte dell’offerta, che fa sì che siano soprattutto le laureate, in seguito all’elevato investimento in istruzione, a non rinunciare alla partecipazione nel mercato del lavoro. Nella consapevolezza che sia riduttivo cercare un’unica risposta a tale quesito, in questa sede interessa evidenziare l’elevato livello di capitale umano fra le donne occupate.

Figura 2 – Incidenza degli occupati laureati secondo il genere e incidenza degli occupati laureati part-time secondo il genere, Anni 2008-2016

Figura 3 – Incidenza del part-time sul totale dell’occupazione secondo il genere e il livello di istruzione, Anni 2008-2016

Lo studio dell’andamento della quota di part-time involontario in relazione al genere e al livello d’istruzione fa emergere, inoltre, per donne e uomini laureati, un’incidenza di part-time involontario inferiore rispetto agli occupati non laureati (nonostante l’aumento del part-time involontario abbia caratterizzato tutta l’occupazione durante il periodo di crisi economica). Tale risultato è più marcato per gli uomini: nel 2016 quasi l’80% degli uomini non laureati con contratto part-time si adatta alle richieste della domanda di lavoro contro il 60% delle donne non laureate part-time e il 51% delle donne laureate part-time (Fig. 4).

Figura 4 – Incidenza del part-time involontario sul totale dei lavoratori part-time per genere e livello di istruzione, Anni 2008-2016

In conclusione, il part-time sembra piacere molto alle imprese oltre che ad alcune occupate, ma non agli uomini.

Le imprese ne hanno usufruito durante il periodo di crisi come strumento di labour hording, ma ad oggi non paiono rinunciarci, spesso anche contro la volontà delle lavoratrici e dei lavoratori.

Le donne, se in possesso di titoli di studio universitari, oltre ad avere un tasso di occupazione nettamente maggiore delle non laureate (73,5% nel 2016), scelgono e “subiscono” meno il part-time rispetto alle altre donne, confermando una maggiore avversione alle preferenze adattive.

La quota di uomini che scelgono il part-time è molto limitata e non è variata negli ultimi anni, mentre è aumentata, non di poco, l’incidenza del part-time involontario, soprattutto per i non laureati.

Se fino a prima delle crisi le donne per conciliare lavoro e vita privata preferivano lavorare part time, confrontandosi con una domanda di lavoro prevalentemente orientata a posizioni a tempo pieno, oggi, a valle della crisi economica, la domanda di lavoro part-time da parte delle imprese è aumentata, a discapito della componente femminile dell’occupazione, che “preferisce adattarsi” a tale domanda, rinunciando a parte di stipendio oggi e di pensione domani e limitando il proprio sviluppo professionale e le prospettive di carriera.

* Le opinioni espresse dalle autrici non riflettono necessariamente quelle dell’organizzazione di appartenenza.

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