Il Governo e le nostre inquietudini

Ora che la Finanziaria per il 2007 è saldamente alle nostre spalle e che anche la enigmatica visita del governo alla Reggia di Caserta (come altro chiamarla?) si è conclusa, possiamo provarci a chiedere se abbiamo qualche motivo in più o in meno per dormire sonni tranquilli.

Cominciamo con i conti pubblici. La Finanziaria, nella sua parte più chiara, che è quella usualmente chiamata del risanamento, promette di ridurre il deficit di 15 miliardi. Inoltre, l’imprevisto andamento positivo delle entrate fiscali contribuisce a allontanare l’incubo del Patto di Stabilità e Crescita che ha dominato il dibattito politico-economico nell’ultimo anno. Ma è bene non eccedere con la tranquillità. La situazione della complessiva Pubblica Amministrazione, includendo quindi anche gli enti territoriali a cominciare dalle Regioni, non è ancora ben delineata e potrebbe modificare considerevolmente la valutazione della situazione della finanza pubblica. Per questo e, ancora di più per tutte le altre buone ragioni che è facile immaginare, sarebbe un gravissimo errore se, per le migliorate prospettive della finanza pubblica, il governo deviasse anche marginalmente dai propositi di combattere a fondo lo scempio dell’evasione fiscale, le cui dimensioni, come dimostrano le stime rese note di recente dall’Istat, appaiono sempre più inquietanti. Né la democrazia né il mercato possono tollerare oltre questa situazione.

Veniamo ora all’occupazione. Anche qui sembrerebbe che i nostri sonni possano essere più tranquilli. Il numero degli occupati, ha continuato a crescere anche nel terzo trimestre del 2006 (con un incremento su base annua di oltre 500.000 unità) e il tasso di disoccupazione è sceso a un 6,1%, impensabile solo pochi anni fa. Parallelamente, è cresciuto il tasso di occupazione, superando il 58%. In alcune aree del Nord sembra che si possa senz’altro parlare di piena occupazione. Sarebbe interessante esaminare in dettaglio la situazione, distinguendo per aree geografiche, genere e tipo di contratti. Ma, non disponendo del necessario spazio, sarà sufficiente una considerazione che getta qualche ombra di preoccupazione su questo quadro apparentemente rassicurante. Nel Mezzogiorno, ove pure si registra da qualche anno un deciso abbassamento del tasso di disoccupazione, il fenomeno dell’uscita dal mercato del lavoro sembra avere assunto una preoccupante consistenza. Nell’ultimo anno le donne in cerca di occupazione sono diminuite di oltre il 25% e gli uomini di circa il 14%. Dunque, una buona parte del miglioramento nel tasso di disoccupazione è dovuto alla riduzione delle persone in cerca di lavoro, cioè, molto probabilmente, a una crescente perdita di fiducia nella possibilità di trovare un’occupazione accettabile nel mercato regolare. Più in generale, per esprimere un giudizio ponderato sulle tendenze dell’occupazione, occorrerebbe, da un lato, considerare il ruolo della regolarizzazione degli immigrati, un fenomeno consistente e diluito nel tempo e, dall’altro, valutare l’impatto che le nuove forme di lavoro hanno sulla stessa determinazione statistica del numero di occupati. In breve, la tranquillità che una lettura superficiale dei dati sull’occupazione induce, potrebbe rivelarsi almeno parzialmente ingiustificata; così come potrebbero risultare non pienamente meritate le lodi rivolte ai provvedimenti che hanno accresciuto la flessibilità nel mercato del lavoro.

Sul versante delle esportazioni, i dati più recenti sembrano segnalare quanto meno una interruzione delle tendenze in atto da qualche anno, le quali avevano determinato una drastica riduzione della nostra quota di export sul commercio mondiale. Da un valore dell’ordine del 4,5% nella seconda metà degli anni ’90, questa quota era scesa all’inizio del 2005 sotto il 3% e ora sembra in leggera ripresa. Questi flebili segnali di miglioramento attendono un’interpretazione compiuta. Tuttavia, non sembrano in atto processi di modificazione della specializzazione produttiva del nostro paese, le cui caratteristiche sono stata ripetutamente indicate come una delle cause delle nostre difficoltà o, per chi trova appropriato l’uso del termine, del nostro “declino economico”. Non si può dubitare, come affermano alcuni osservatori vicini al mondo delle imprese, che il nostro sistema produttivo abbia di recente compiuto sforzi di ristrutturazione e abbia imboccato nuovi e più impegnativi sentieri di crescita, affinando la propria vocazione – connessa alle prevalenti dimensioni aziendali – a coprire nicchie qualificate di mercato. Ma il dubbio è se questa strada sia davvero l’unica percorribile e la più efficace. Anche qui, dunque, domina il chiaroscuro.

Le cose prendono una piega decisamente peggiore se guardiamo a aspetti quali la crescita economica, l’andamento della produttività e il meno preciso, ma senz’altro cruciale, benessere sociale.

E’ noto che, malgrado i recenti miglioramenti, il tasso di crescita della nostra economia resta (e resterà anche per il prossimo anno) il più basso nel mondo avanzato (e non solo), mentre le distanze con altri paesi europei, fino a ieri in odore di declino assieme a noi, tendono a crescere. E’ forse inutile ricordare che negli ultimi anni, mentre le nostre performances di crescita risultavano così deludenti, l’economia mondiale nel suo complesso ha mostrato un dinamismo, misurato in termini di Pil, davvero straordinario. Ed è anche opportuno ricordare che le distanze della complessiva Unione Europea nei confronti degli Stati Uniti, che dalla metà degli anni ’90 si erano notevolmente ampliate, hanno preso a ridursi. Le difficoltà americane connesse anche alla crisi immobiliare sono in parte responsabili di questi andamenti. Di ciò sarebbe bene tenere conto anche nel proporre acriticamente modelli da seguire, la cui capacità di assicurare successi duraturi è, quanto meno, da provare.

A proposito della nostra deludente performance di crescita si deve osservare che essa è la principale responsabile di un dato ben poco incoraggiante, reso noto di recente dall’ufficio statistico europeo e passato largamente in silenzio. Il reddito pro-capite dell’Italia, nel 2005, è risultato esattamente uguale a quello medio dell’Unione Europea a 25 membri (entrambi pari a 100) ove figurano, quindi, anche paesi a reddito molto basso come quelli dell’accesso del 2004. Solo nel 2003, eravamo 6 punti sopra questa media. Vale la pena ricordare che, a parte il ricchissimo Lussemburgo, l’Irlanda ha un reddito pro-capite superiore del 39% al nostro, la Gran Bretagna del 17%, la Svezia del 15%, la Germania del 10% e la Francia dell’8%. Si può anche osservare, en passant, che dopo l’ingresso di Romania e Bulgaria avvenuto all’inizio dell’anno, l’Unione Europea registra disuguaglianze impressionanti nei redditi pro-capite dei vari paesi: un medio lussemburghese guadagna quasi 8 volte di più di un medio bulgaro.

Tornando ai problemi di casa nostra, si può senz’altro discutere la significatività e l’importanza del Pil pro-capite come indicatore di successo economico e di benessere sociale. Ma non si può davvero considerare con favore il fenomeno di fondo che concorre maggiormente alla debole crescita e alla perdita di posizioni nella classifica del reddito pro-capite: la sostanziale stasi della produttività, sia quella del lavoro sia quella totale dei fattori, che tenta di misurare l’impatto complessivo del progresso tecnologico e organizzativo.

In effetti la crescita del nostro Pil può essere interamente ricondotta alla espansione dell’occupazione, senza alcun contributo significativo di quei miglioramenti che si riflettono nella produttività del lavoro. Basterebbe che quest’ultima crescesse al ritmo, tutt’altro che stratosferico, dell’1.5-2% annuo per avere, nell’ipotesi che l’occupazione non ne risenta, tassi di crescita del Pil del tutto soddisfacenti. In un contesto economico internazionale fortemente integrato, come è quello oggi dominante, l’aumento di produttività può significare anche ampliamento della domanda e, dunque, della produzione. D’altro canto, la crescita della produttività è condizione essenziale – anche se non unica – per ottenere retribuzioni più elevate.

Un processo di crescita dominato dall’espansione dell’occupazione costituisce, per il nostro paese, una grande novità. Nel corso degli anni ’90 ha trovato consensi la tesi secondo la quale le nostre imprese erano “costrette” a utilizzare anche troppo capitale per crescere a causa della rigidità del lavoro e della conseguente necessità di ridurre l’utilizzo di questo fattore. Sembra che ora ci si trovi sul versante opposto: le massicce dosi di flessibilità iniettate nel sistema sembrano averci portato ben al di là di quello che potrebbe essere considerato un punto di accettabile equilibrio, ove la flessibilità favorisce l’introduzione di innovazioni piuttosto che sostituirsi ad esse. L’impulso che la flessibilità sembra avere dato in questa direzione non dovrebbe essere dimenticato quando si affronta il problema delle cause e dei rimedi possibili alla “maledizione” della produttività stagnante.

In realtà, il dibattito sulla produttività che si svolge sui quotidiani e tra esponenti politici si caratterizza per la tendenza a includere tra le cause del problema pressochè ogni cosa – eccetto forse la flessibilità. Carenza di capitale umano, insoddisfacenti dimensioni di impresa, inadeguata specializzazione produttiva, limitata spesa in ricerca, malfunzionamento del mercato del credito, inappropriata cultura imprenditoriale, pastoie e inefficienze burocratiche e, soprattutto, rendite e difetti di liberalizzazione sono invocate con enfasi e secondo graduatorie diverse tre la cause del nostro più serio problema. Non che ciascuno di questi elementi non abbia la propria importanza, ci mancherebbe! Ma in alcuni casi le connessioni con la produttività sono piuttosto deboli (ad esempio, è questo il caso delle liberalizzazioni che possono essere, eventualmente, utili per altri scopi) e, soprattutto, non tutti questi problemi sono alla portata di facili interventi di policy. Qui entra in gioco il governo e le sue strategie. Qual è l’analisi dalla quale il governo parte per affrontare il problema della produttività? Quali indicazioni di policy desume da questa analisi? Quali sono le conseguenti misure che intende mettere in campo?

La sostanziale assenza di risposte a queste domande (o, il che è lo stesso, l’eccessivo numero di possibili risposte confuse) è ciò che, dopo la Finanziaria e il viaggio a Caserta, turba profondamente la tranquillità dei nostri sonni. Perché, vale la pena di ribadirlo, se non si risolve il problema della produttività lo spettro del “declino”, forse agitato finora a sproposito, acquisterà una sinistra consistenza.

Tra le molte che sono circolate nelle scorse settimane, la proposta del “patto per la produttività” – sostenuta con passione dal presidente di Confindustria e appoggiata da alcuni settori del sindacato oltre che da qualche esponente di spicco della maggioranza – si segnala per originalità e, per quello che ci riguarda, per confusa pericolosità. Cosa dovrebbe realizzare questo “patto per la produttività” non è facile comprendere, sulla base delle indicazioni fin qui fornite. Non occorre un grande eculubrare per rendersi conto che un conto è l’inflazione e tutt’altro conto è la produttività. Cosa controllano, dei processi di innovazione da cui dipende la produttività, i lavoratori? Cosa devono dare all’interno di questo patto: ulteriore moderazione salariale e ulteriore flessibilità? Se si dubita, e con qualche buon motivo, che la flessibilità non è automaticamente e sistematicamente favorevole all’innovazione – anzi! – non si può non dirsi preoccupati. La speranza è che il governo non voglia assecondare queste tendenze e elabori la propria strategia a partire da una semplice considerazione: per accrescere la produttività occorre innovare, se le imprese non lo fanno è perché non lo trovano conveniente in rapporto ad altre strategie di crescita e di ottenimento dei profitti. Per risolvere il problema è facile dire cosa occorre: modificare queste convenienze – scoraggiando le strategie da scoraggiare e incoraggiando quelle da incoraggiare in tutti i modi possibili in un’economia di mercato. E’ facile a dirsi ma niente affatto facile a farsi. Per questo preoccupa il ritardo che il governo ha accumulato su questa cruciale questione.

Se si legge la Finanziaria alla luce del problema della produttività si trova ben poco che incoraggi. Le misure per la ricerca (che comunque dà effetti a termine lungo) o per favorire la fusione di imprese (dalla quale ci si può forse attendere qualche effetto positivo per la produttività) appaiono troppo deboli e, soprattutto, estranee a una strategia coerente di intervento, che presupporrebbe risposte articolate alle domande formulate in precedenza. Inoltre, misure-monstre come la riduzione del cuneo fiscale, per il modo nel quale sono state realizzate, rischiano di accrescere la convenienza di una strategia di crescita imprenditoriale alternativa a quella basata sull’innovazione e, dunque, di aggravare il problema. Come abbiamo avuto occasione di dire in precedenti interventi, assai meglio sarebbe stato se la riduzione del cuneo fiscale fosse stata selettiva e condizionata all’adozione di strategie di crescita basate sull’innovazione e l’accrescimento della produttività. Sembra di poter dire che si è persa una importante occasione per iniziare ad affrontare il problema più grave della nostra economia.

Toglie tranquillità anche il fatto che il dibattito politico si svolga quasi esclusivamente a colpi di slogan, oramai privi di ogni ragguardevole contenuto. Lasciamo da parte la deprimente diatriba su ciò che è riformista e ciò che è radicale, assumendo che una grande quota di responsabilità vada assegnata ai giornalisti impegnati a peggiorare il livello del dibattito e la consapevolezza politica dei cittadini. Ma sentiamo dalla viva voce di esponenti del governo affermazioni della più inutile genericità oltre che una perniciosa tendenza a cavalcare gli stereotipi che quotidianamente i media ci propinano in dosi tossiche. Si prenda il discorso sulle liberalizzazioni e sulle rendite. Che senso ha affrontarlo in blocco, per dirsi a favore o contro, senza distinguere e approfondire? Una cultura alta di governo non può esimersi dal farlo, non può mancare di interrogarsi sulle conseguenze che le liberalizzazioni, ed il modo di attuarle, potrebbero avere in varie circostanze e sotto vari profili. Non basta, non dovrebbe bastare, né esaltare gli effetti positivi per i consumatori né quelli negativi per i lavoratori. Occorre “sporcarsi le mani” con analisi più dettagliate nei vari casi, non dimenticando che uno dei criteri in base ai quali valutare l’opportunità delle liberalizzazioni è anche il prevedibile, complessivo, effetto di ciascuna di esse sulle disuguaglianze di benessere. In un paese altamente “disegualitario” come il nostro non sarebbe, questo, un criterio di poco rilievo.

In conclusione, il tempo dei sonni tranquilli, almeno senza aiuti farmacologici, non è ancora venuto. La speranza che arrivi, e presto, continua a sostenerci. Ma la delusione di non avere finora colto alcun convincente segnale di una nuova cultura del governare non è lieve.

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