Il corso delle riforme del lavoro pubblico e il rilancio del Paese

Marco Esposito analizza alcune possibili interrelazioni tra l’avvio dei rinnovi contrattuali dei comparti pubblici e il Piano governativo di ripresa e resilienza. In particolare, Esposito mette a fuoco sia il cambio di metodo regolativo prospettato, che fa leva sul dialogo sociale e sulla partecipazione sindacale, sia gli istituti su cui puntare per un’incisiva riforma del lavoro pubblico: formazione, digitalizzazione e valorizzazione dell’effettivo rendimento dei lavoratori pubblici.

1. I “fatti pandemici” hanno sollecitato analisi, verifiche e dibattiti con al centro un tema molto netto: il recupero dell’efficienza della pubblica amministrazione. Del tutto naturalmente, quindi, nel programma del Governo Draghi, e conseguentemente nel “Piano di ripresa e di resilienza nazionale”, la riforma di quest’ultima risulta oggetto di sostanziali direttrici di riforma.

Non c’è da stupirsi; i temi del cambiamento e della trasformazione degli apparati pubblici, in effetti, più che ciclici sono proprio una costante nel dibattito italiano – a ogni livello: politico, civile e giuridico – sin dal Rapporto Giannini della fine degli anni Settanta, passando per il tortuoso percorso della contrattualizzazione del lavoro pubblico, che si staglia come un progetto ambizioso ancora lontano da un vero e proprio assestamento. Sicché potremmo – al limite – avere il timore di assistere all’ennesima puntata di una seriale esigenza di annuncio di riforme epocali. Ma così non è o, almeno, così non può essere. Non è, e non può essere, perché, e quasi certamente per la prima volta, la spinta riformatrice non si diluisce oggi in – ovvero non copre – progetti principalmente e prevalentemente legati a logiche di razionalizzazione di spesa, costi e finanze. Non solo l’afflusso – questo, sì, davvero epocale – di finanziamenti e risorse legato al Recovery Plan rende improponibile qualsiasi condizionamento spending review oriented, ma in più viviamo un tempo che ha, nel bene e nel male, rivelato senza ombre limiti e valori del servizio pubblico; ci ha ricordato e fatto vividamente sentire – al di là di tutto – il suo carattere essenziale e insostituibile.

Il terribile corso storico che stiamo attraversando ha svelato inganni e ipocrisie di quelle visioni riformiste che, dietro proclami e ideologie di vario tipo, pensano a un recupero di flessibilità e funzionalità degli apparati pubblici veicolato dall’alleggerimento e dalla marginalizzazione di alcuni gangli vitali del funzionamento di una moderna amministrazione. Non casualmente recenti analisi di studiosi delle dinamiche del lavoro pubblico – esperti e sensibili, come Antonio Viscomi e Lorenzo Zoppoli – hanno ripreso e ricontestualizzato un’espressione (“ossificazione”) utilizzata da Sabino Cassese in suoi diversi scritti per rappresentare lo stato delle nostre amministrazioni pubbliche. Una condizione essenzialmente di stallo, di una burocrazia dove domina l’inerzia, seppur nel paradosso di un continuo susseguirsi di riforme.

Ebbene, l’inedito piano di rilancio del nostro Paese, che in questi giorni sta prendendo forma, sicuramente non può consentirsi l’inerzia. La necessità di avere nella funzione pubblica: il centro focale della tenuta democratica delle nostre istituzioni, la cura delle nostre esigenze di salute, il sostegno al soddisfacimento dei nostri bisogni, la garanzia della coesione sociale e dei doveri costituzionali di solidarietà non permette di varare la solita riforma velleitaria o strumentalmente distorta da visioni di comodo politico. C’è bisogno di un cambiamento dell’organizzazione del lavoro pubblico all’altezza del carico di aspettative e delusioni scaturito dall’inattesa sospensione civile prodotta dalla Pandemia globale.

2. Un siffatto cambiamento poggia su una leva nota e riconosciuta; sebbene proprio questa leva sia stata nel tempo messa da parte e fatta arrugginire: mi riferisco alle persone che lavorano nella pubblica amministrazione. Il ruolo dei lavoratori pubblici è disconosciuto, nel migliore dei casi misconosciuto. Tra “fannulloni” e “furbetti” vari, l’immagine sociale del civil servant risulta troppo spesso poco edificante; e pur rifuggendo da ogni retorica, non possiamo invece negare che se il nostro Paese non è collassato nelle fasi più acute dell’emergenza sanitaria, lo dobbiamo – effettivamente – a tanti lavoratori e lavoratrici e, tra questi, a tanti impiegati pubblici.

Ecco perché fa ben sperare l’avvio di questo ennesimo programma di riforme; alimenta speranza, là dove mette al centro il lavoro e i lavoratori e le lavoratrici. Nel metodo e nei contenuti; e prima ancora nella definizione della visione di contesto.

In tale prospettiva, merita la massima considerazione – pur al netto di tanta enfasi – la Premessa del documento del Ministro della Pubblica Amministrazione di presentazione al Parlamento delle linee programmatiche governative. E qui lo si dice chiaramente, con tanto di grassetti: «abbiamo il dovere di restituire dignità, orgoglio, autorevolezza e valore a chi lavora per la nostra amministrazione. Un’operazione di restituzione quanto mai preziosa, perché la riconciliazione con il mondo dello Stato favorisce un altro obiettivo ormai irrinunciabile: garantire a cittadini e imprese servizi adeguati a soddisfare le loro esigenze di vita e di attività. Valorizzare capitale umano e conoscenza significa, infatti, aumentare produttività ed efficienza, ma anche fiducia, legalità e reale trasformazione e assicurare l’innovazione sostenibile dei processi e dei servizi». Queste stesse affermazioni riecheggiano nella Premessa al Patto per l’innovazione, di cui parleremo tra poco. In questa intesa, la consapevolezza del carattere strategico della valorizzazione e del coinvolgimento dei lavoratori pubblici è ancora più esplicita: «l’innovazione dei settori pubblici sostenuta dagli opportuni investimenti in digitalizzazione, richiede una partecipazione attiva delle lavoratrici e dei lavoratori, in grado di sostenere e accompagnare l’adeguamento dei servizi ai nuovi e mutati bisogni dei cittadini».

3. Sul piano del metodo va registrata favorevolmente la ripresa di un fattivo e concreto dialogo sociale. Una concertazione della migliore qualità, segno concreto della volontà di scrivere, davvero, il primo capitolo di una reale alleanza unificatrice di tutte le componenti economiche, sociali e istituzionali del nostro Paese, in vista della sua necessaria ripresa vitale. La tempestiva sottoscrizione del “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”, lo scorso 10 marzo, segna un franco cambio di passo, se solo si pensa che il 2020 si è chiuso con la proclamazione di un “clamoroso” sciopero generale del comparto pubblico. E le organizzazioni sindacali avevano esattamente richiesto un maggior ascolto, preoccupate dalla deriva dirigistica del governo del lavoro pubblico. Sicché il Patto, firmato insieme da Presidente del Consiglio e Ministro della Pubblica Amministrazione con le tre principali Confederazioni sindacali, assume il significato – non solo politico ma anche giuridico – di un impegno al recupero della partecipazione delle rappresentanze sindacali alla definizione di nuove e più moderne regole di funzionamento degli enti e delle amministrazioni pubbliche.

Il peso del Patto è, d’altro canto, dimostrato nei fatti dalla celerità con cui, nei giorni successivi, è partito il rinnovo dei contratti collettivi dei comparti pubblici. Il 15 aprile si è sottoscritta l’ipotesi di Contratto collettivo nazionale quadro per la definizione dei comparti e delle aree di contrattazione collettiva nazionale (2019-2021); poche settimane fa, il 19 aprile, il Ministro della Pubblica Amministrazione ha inviato all’ARAN (l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle PP.AA.) l’Atto di indirizzo Quadro per i rinnovi dei contratti dei comparti nonché quello specifico per le Funzioni centrali, al contempo anticipando l’imminente uscita dello stesso per il Comparto Sanità.

4. Sui contenuti, il Patto del 10 marzo individua temi di assoluta rilevanza strategica. Non inediti, invero, ma calati in una cornice di evidenze e consapevolezze che lasciano sperare in un seguito attuativo effettivo, consapevole e coerente allo straordinario contesto. Un seguito, per la verità, solo in parte – al momento – riscontrabile nelle prospettate direzioni della contrattazione collettiva dei comparti in fase di avvio.

La coerenza è nel rilievo della scommessa sul “capitale umano” e sul suo coinvolgimento complessivo. Scommessa sostenuta dal valore trasversale della modernizzazione, strutturale e funzionale, della pubblica amministrazione. L’investimento nelle tecnologie digitali è la chiave di volta per accrescere le competenze del personale pubblico, in un’ottica attiva di penetrazione della relativa cultura organizzativa all’interno dei nostri Uffici pubblici. Ma i due processi devono camminare insieme; un’amministrazione sarà più efficiente se i suoi funzionari saranno capaci di interpretare con competenza e responsabilità le istanze della modernità. Di conseguenza, lo stesso tema del lavoro agile pare inscriversi in questa visione sistemica della diffusione di nuove modalità lavorative, al di là dei lasciti emergenziali.

In tale ottica gli assi sono ben tracciati: la revisione dell’ordinamento professionale; l’affermazione del diritto soggettivo alla formazione e alla riqualificazione professionale; la valorizzazione di specifiche competenze specialistiche in grado di condurre ad adeguate assunzioni di responsabilità, organizzative e professionali. Si assiste, finalmente, a un cambio di visione, da sostenere con un’ulteriore azione, fondamentale: un sistema di valutazione capace di dar luogo a consistenti differenziali retributivi legati al rendimento e al merito.

Su quest’ultimo versante dobbiamo vedere quanto la contrattazione collettiva riuscirà finalmente a impostare un discorso nuovo sugli incentivi economici. Qualche traccia di un tal genere di politica può rinvenirsi nell’Atto di indirizzo sul rinnovo contrattuale delle Funzioni centrali, dove si spingono le parti a definire criteri di progressione economica «che valorizzino i dipendenti con elevati livelli di performance». Nulla è predefinito – come discutibilmente si fece, nel 2009, con la predefinizione delle fasce percentuali di merito – e la responsabilità passa agli attori negoziali: i quali devono ora affrontare gli impegni epocali che questi tempi stanno loro affidando. È un’opportunità storica e irripetibile: non vada sprecata.

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