Fazio si merita il suo stipendio? Alcune riflessioni su super-ricchi, mercati e meriti

Maurizio Franzini e Elena Granaglia svolgono alcune riflessioni sul compenso che Fabio Fazio riceverà dalla Rai, di cui si è molto discusso, soffermandosi non sui comportamenti di Fazio o della Rai ma sulla tesi – ricorrente e fatta propria dallo stesso Fazio – secondo cui discutere quel compenso equivale a mettere in discussione il mercato. Franzini e Granaglia esaminano il “mercato” in cui opera Fazio e sostengono che le sue caratteristiche sono tali da escludere che i compensi a cui conduce siano accettabili e basati sul merito.

“Le regole le fa il mercato, nessuno regala nulla. Il programma costa 450 mila euro, 15 secondi di pubblicità costano 40mila euro…. Si fa presto a capire costi e ricavi”. Così Fabio Fazio risponde a chi gli chiede del contratto appena firmato con la Rai (cfr. https://video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/rai-fazio-sul-suo-contratto-se-15–di-pubblicita-costano-40mila-euro-si-fa-presto-a-capire-i-ricavi/279834/280428).

Sebbene la Rai tenda a non rendere pubblici i costi dei suoi programmi, svelandoli solo nei momenti più opportuni, non ci sono ragioni per dubitare dei costi e dei ricavi delle puntate del programma di Fazio. Considerando i minuti di pubblicità per ogni puntata, il ricavo netto per puntata si aggirerebbe, salvo errori, attorno ai 2 milioni (2.500.000 essendo le entrate pubblicitarie totali).

Perché allora stupirsi (e, meno che mai, preoccuparsi) che Fazio guadagni nell’anno un po’ di più del fatturato di una puntata, ossia, circa 2.800.000 euro? D’altro canto, i compensi annuali di alcune delle anchorperson di maggior successo negli Usa sono ben maggiori: Matt Lauer guadagna 21 milioni di dollari, Katie Couric e Meredith Vieiria 15 milioni. E, come noto, non di meno percepiscono altre star dello spettacolo e dello sport.

Sembrerebbe allora avere ragione chi pensa che le critiche a Fazio (meglio, ai suoi compensi che sono pari a 12 volte quelli del presidente della Repubblica, 100 volte quelli di un lavoratore medio e sono 1000 volte più elevati del reddito minimo che finalmente sarà assicurato con il reddito d’inclusione) nascano da un mero sentimento d’invidia, da uno stato d’animo rancoroso e forse anche populista. Forse è così per alcuni o anche per molti ma non è questo che ci interessa. Né qui ci interessano argomenti sulle virtù personali e per questo non scomoderemo un importante filosofo da poco scomparso, G. Cohen, che nel suo If you are egalitarian why are you so rich (Harvard University Press, 2001) ha richiamato l’attenzione sull’importanza dei nostri comprtamenti e sul valore della coerenza tra il modo in cui si vive e ciò in cui si crede. Siamo ben consci che praticare la virtù non è facile – sebbene non impossibile – e per questo non parleremo di virtù, di coerenza e della loro mancanza.

Parleremo invece proprio di mercato, del mercato in cui diventano possibili stipendi come quelli di Fazio per capire che razza di mercato esso sia e quali regole lo governino. Da questo, a noi pare, dipende il giudizio che si può dare non del comportamento di Fazio ma dell’accettabilità di un sistema e dell’idea di merito che esso trasmette. Più precisamente ci lascia molto perplessi, l’idea che o si accetta questo mercato o si è fuori da ogni meccanismo concorrenziale, come Fazio sembra ritenere visto che nella stessa intervista richiamata in apertura ha affermato che la Rai deve scegliere – appunto – se vuole stare nel mercato o, invece, chiudersi nel recinto del pubblico, sottraendosi alla sfide del “mercato”. E, a questo riguardo, la posizione sul suo stipendio sarebbe decisiva: stare nel mercato significa offrire almeno quanto offre un potenziale concorrente. Il punto è che il mercato può funzionare in modi molto diversi e contrapporre il mercato (senza altre qualificazioni) all’offerta pubblica (come sembrano fare anche coloro che sono critici nei confronti del modo in cui questo mercato funziona, si veda ad esempio Bersani) non aiuta a comprendere perché questo mercato non è né l’unico né il miglior mercato possibile.

La prima, banale, osservazione è, appunto, che non esiste il mercato; esistono i mercati con i loro meccanismi di funzionamento e le loro regole che non hanno il dono della naturalità. Esse sono il frutto delle decisioni (o delle mancate decisioni) degli uomini, soprattutto di quelli che hanno il potere di regolare le umane interazioni economiche. Una decisione cruciale riguarda l’assegnazione dei diritti di proprietà intesi in senso lato; da essi dipende – assieme alle forme specifiche che assume la concorrenza – “cosa è mio” e “cosa è tuo”, “cosa devo fare io” e “ cosa devi fare tu”.

Se: i) il mercato prevede che chi offre un servizio o un bene sia direttamente compensato da chi compra (in piena consapevolezza) quel servizio o quel bene; ii) non esistono barriere all’accesso; iii) i compensi determinati dal mercato riflettono il contributo che ciascuno offre alla produzione allora si può concludere che sono soddisfatte le principali condizioni (non necessariamente tutte) per considerare il mercato un sistema che stabilisce compensi accettabili e difendibili.

Insomma occorrono tre elementi: i) i consumatori devono essere consapevoli e disposti a pagare per quel bene o servizio; ii) deve esserci concorrenza fra i produttori; iii) i compensi devono il più possibile riflettere i contributi individuali alla produzione. Quando il mercato non soddisfa anche una soltanto di queste condizioni, le retribuzioni a cui esso conduce sono sconnesse dal merito. Quest’ultimo richiederebbe che il “mercato” assicuri che fai una cosa utile per me, che effettivamente la fai tu e che, se guadagni più di altri, la fai meglio di altri con cui sei in concorrenza.

A noi pare che quello che con qualche libertà chiamiamo “mercato dei media” e, più in particolare il “mercato” dei talk show, non abbia alcuna di queste caratteristiche.

In primo luogo, le entrate dei talk show non derivano dal pagamento per la prestazione televisiva del conduttore e di chi con lui collabora, ma, come è ben noto, dalla pubblicità. Cosa acquista chi paga per fare pubblicità? Audience. Dunque, Fazio e i suoi colleghi, di fatto vendono audience e i loro programmi vengono pagati da chi vuole audience e tiene conto della sua composizione per età, genere, titolo di studio ecc. Le preferenze dei telespettatori per il talk show non determinano le entrate, se non in modo molto indiretto e limitato. E, si badi bene, il fatto che si seguano le trasmissioni di Fazio gratuitamente (quale che ne sia il motivo) non vuol dire che si sarebbe disposti a seguirle se fossero a pagamento, magari per una cifra corrispondente agli introiti della pubblicità.

L’audience è, dunque, un bene economico, sebbene sia un bene economico particolare e singolarmente molto poco studiato dagli economisti (con qualche rara eccezione, ad esempio P. Napoli, Audience Economics, 2003). Eppure da essa dipendono fenomeni di grande rilevanza come quello di cui si occupano queste note.

In secondo luogo, a determinare l’audience non è soltanto Fazio ma anche tutti gli ospiti invitati. Nel talk show l’audience dipende anche da chi fa il talk. Dunque, il contributo di Fazio alla raccolta delle entrate da pubblicità (cioè da audience) è di difficilissima determinazione e vi è molta approssimazione nell’affermazione secondo cui “Fazio porta entrate alla Rai”. Sarebbe meglio dire, “Fazio e i suoi ospiti” con la conseguenza di far nascere la domanda: qual è l’abilità specifica di Fazio? E quanto vale? Forse tutto il surplus di cui si è detto all’inizio di questo articolo?

In terzo luogo, Fazio non ha concorrenti nel senso che non è possibile verificare cosa accadrebbe alla Rai se quella stessa trasmissione fosse condotta da altri. Dunque, non è possibile determinare la sua “capacità marginale nell’attrarre audience” da cui, in questo particolare mercato, dovrebbe dipendere la sua extra-retribuzione. Per farlo occorrerebbe ipotizzare lo stesso tipo di trasmissione, con l’unica differenza che a condurla sia non Fazio, ma qualcun altro. Il confronto fra le due prestazioni potrebbe offrire qualche informazione sulle specifiche abilità di Fazio (più o meno, la sua produttività marginale), pur con riferimento al metro distorto della capacità di produzione di audience. Il problema è che questa contro-prova è preclusa. L’impossibilità di accesso è, esattamente, la base della rendita di Fazio.

In breve, nel mercato in cui opera Fazio vi sono elementi che lo avvicinano al mercato più vituperato in ambito economico, quello monopolistico. Trovandosi nel mercato, Fazio ha avuto possibilità che sono precluse a chi in quel mercato non può neanche entrare. Qui rileva anche la notorietà che, con i suoi effetti reali o presunti, funge da vera e propria barriera all’accesso rendendo impossibile alla concorrenza di attivarsi e di svolgere il proprio compito che è essenzialmente quello di sfidare il vantaggio di cui gode chi si trova già sul mercato. Viene, così, a mancare quella che è stata una delle giustificazioni più potenti a favore dei mercati: la capacità della concorrenza di erodere, nel tempo, le rendite, avvicinando le remunerazioni di mercato a quanto necessario per retribuire lo sforzo. Le rendite, come noto, sono un sovrappiù rispetto a quanto basterebbe per compensare un’attività che è in grado di accrescere il benessere.

Ultimo punto. Tornando alla nostra contro-prova s’ipotizzi che Fazio sia davvero il più bravo e effettivamente riesca a attrarre, come nessun altro è in grado di fare, una grande audience. Possiamo considerare questo un merito che deve essere remunerato con compensi straordinari? La risposta è negativa. La sua abilità non potrebbe che derivare, in un modo o nell’altro, da un dono della natura per il quale non si può rivendicare alcun merito personale. Si darebbe, cioè, una situazione simile a quella che si verifica allorché un monopolio si stabilisce per effetto di un fattore naturale scarso; ad esempio, perché si dispone di miniere di diamante che, però, non possono essere ascritte al merito di alcuno.

In conclusione, la retribuzione di Fazio non può essere difesa con l’idea che alla sua base vi sia una corretta competizione di mercato. Certamente, è difficile indicare un altro modo in grado di determinare la sua corretta retribuzione. Ma è altrettanto certo che sono solidi i motivi per dirsi quanto meno perplessi rispetto alle argomentazioni di Fazio – peraltro da molti condivise – secondo cui se c’è qualcuno che, nel mercato, è disposto a pagare cifre elevatissime, allora quelle cifre sono meritate e null’altro deve essere considerato.

Non è così. Il contesto di mercato in cui quelle disponibilità a pagare si formano è dirimente. Se dietro di esse vi sono meccanismi che rimandano alle rendite, o che non permettono di determinare il contributo di ciascuno al risultato economico o, ancora, che non premiano la capacità di incidere in modo diretto sul benessere e la soddisfazione delle persone, allora si può essere critici non tanto di chi accetta quelle retribuzioni ma di chi non si rende conto di quanto poco giustificabili esse siano sotto il profilo dell’efficienza e dell’equità. E di chi non interviene a correggere le regole da cui dipende il funzionamento di quel mercato.

Una discussione pubblica e informata su questo tema è urgente. Forse Fazio – e lo diciamo con convinzione – potrebbe organizzare un bel talk show sul tema: che c’entra il mercato con la mia retribuzione?

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