Dal lavoro agile alla new way of working: una roadmap per gli “architetti del nuovo lavoro”

Federico Butera ricorda che durante la pandemia 6 milioni di persone hanno lavorato da casa, non più sotto il controllo diretto della gerarchia, accelerando cambiamenti in atto già dagli anni Settanta. Butera sostiene che si è aperta la sperimentazione di una new way of working diversissima dalla tradizione taylor-fordista, sostenuta da “progettisti o architetti del nuovo lavoro“ che opereranno su obiettivi di rigenerazione organizzativa, professionalizzazione diffusa e promozione della qualità della vita di lavoro.

Il lavoro a distanza o smart work o lavoro agile o lavoro ibrido o lavoro ubiquo (comunque lo vogliamo chiamare) è la punta di un iceberg di un modello di lavoro che cambia. Nel seguito lo chiameremo, come fa la legge, lavoro agile: ma parleremo di molto altro.

Nel 2019, in Italia, solo il 50% delle grandi imprese, il 12% delle PMI, il 16% delle Pubbliche Amministrazioni avevano adottato forme di lavoro a distanza per 1 o 2 giorni alla settimana, secondo la ricerca 2021 dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. La pandemia ha generato dal 2020 un esperimento senza precedenti: oltre 6 milioni di persone hanno lavorato da casa. Questo processo è stato un booster, un acceleratore di un cambiamento già in atto. Si sono soprattutto accelerati due grandi fenomeni in atto fin dagli anni Settanta: la remotizzazione del lavoro resa possibile dalla digitalizzazione e la professionalizzazione del lavoro con lo sviluppo dei lavoratori della conoscenza.

Si è aperto così un vasto esperimento organizzativo che non cesserà dopo l’emergenza pandemica, ossia un gran numero di cantieri nelle imprese e nelle pubbliche amministrazioni che stanno generando un patrimonio prezioso di metodi e soluzioni.

Quattro dimensioni strutturali della sperimentazione di nuove modalità di lavoro. La prima dimensione strutturale di tale sperimentazione riguarda il cosa, ossia il cambiamento dei contenuti del lavoro e delle organizzazioni, peraltro già in atto da decenni: lavorando a distanza e non più nel flusso delle attività scandite dal tempo della presenza sul posto di lavoro e sotto il controllo dirette della gerarchia, una quota importante dei 6 milioni di persone si sono avviate in qualche modo a sperimentare forme di lavoro costituite da ruoli responsabili di risultati e da teams autoregolati in grado di governare i processi di lavoro con il supporto di tecnologie digitali, un modo di lavorare prima limitato solo ai professionisti nelle organizzazioni e ai lavoratori della conoscenza Un gran numero dei 6 milioni ha cambiato il dove e il come lavorare riequilibrando autonomia su lavoro e potere regolatorio del management. Questo modo di lavorare ha favorito spesso una elevata produttività e insieme ha consentito per lo più libertà nel lavoro e miglioramento della qualità del lavoro e della vita delle persone.

La seconda dimensione riguarda il come, ossia come sono stati gestiti i percorsi per gestire il cambiamento, modalità di cambiamento processuale, personalizzato e partecipato. Dalle tradizionali modalità in cui il manager con i suoi diretti collaboratori definiscono a tavolino strategie e organizzazione e ne fanno “ordini di servizio”, è stato necessario modellare processi e responsabilità di lavoro in base alle specificità delle singole parti di impresa e amministrazione, adattandole alle diverse tipologie di popolazione e in moltissimi casi addirittura degli individui. Spesso questi percorsi hanno visto anche una partecipazione delle organizzazioni sindacali e un ascolto dei bisogni e istanze delle singole persone.

La terza dimensione riguarda il perché avvengono questi cambiamenti nel lavoro. La pandemia non è stata l‘unico fattore che ha imposto di cambiare il lavoro. La globalizzazione, le trasformazioni del mercato del lavoro, la rivoluzione tecnologica, i mutamenti demografici, il crescente mismatch fra domanda e offerta di lavoro hanno indotto molte aziende, ancor prima delle pandemia, a creare organizzazioni capaci di prontezza intrinseca, proattive, resilienti, antifragili (come si dice con brutti neologismi diffusi nel nuovo gergo manageriale) e a sviluppare forme di organizzazione del lavoro flessibili: aziende che hanno inserito efficacemente il lavoro per risultati in quei modelli. Altre aziende che hanno conservato rigide organizzazioni e mansioni del passato, sono anche quelle che non hanno avuto successo nel chiedere alle persone di lavorare per risultati.

La quarta dimensione riguarda il chi ossia le persone che sono cambiate e che hanno sempre più un diverso rapporto con il lavoro. La great resignation o big quit è un fenomeno che si sta manifestando in tutti i paesi occidentali dopo la pandemia. Crescono le dimissioni per la ricerca, di qualcosa di più appagante, spesso senza proposte in tasca. Si discutono le cause fra gli esperti ma è certa una crescente insoddisfazione per il lavoro svolto, una tensione verso una migliore qualità della vita di lavoro e l’emergere prorompente di un nuovo “potere dei lavoratori”. Marco Bentivogli sostiene che servono non gli esperti della fuga dal lavoro ma gli architetti del nuovo lavoro.

 Queste quattro dimensioni che caratterizzano l’esperimento del lavoro agile si innestano in trasformazioni in atto da decenni e configurano potenzialmente una new way of working, un nuovo paradigma di lavoro, se esso sarà sviluppato da progetti, realizzazioni concrete e processi di diffusione.

Oltre la polarizzazione fra sostenitori e detrattori del lavoro agile. Si è aperta una aspra polarizzazione fra sostenitori e detrattori del lavoro da remoto/agile/smart work dopo l’emergenza sanitaria che rischia di diventare ideologia. Credo che sia una polemica fuorviante in primo luogo perché essa riguarda solo il dove e non il come lavorare; in secondo luogo perché non tiene conto che le sperimentazioni durante la pandemia sono state diversissime fra loro, per contenuti, metodi, persone coinvolte, relazioni e soprattutto per esiti in termini di produttività e qualità della vita di lavoro. In terzo luogo perché non considera le enormi potenzialità di questa nuova fase di progettazione del lavoro.

Il lavoro agile che riguarda il dove lavorare era stato regolamentato dalla legge n. 81/2017 art. 18 che aveva definito il lavoro agile «quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici». Due recenti fonti regolamentari hanno innovato quella normativa: il decreto del Ministro per la Pubblica Amministrazione del 22 ottobre 2021 art. 1 e Il Protocollo d’intesa firmato il 7 dicembre 2021 fra Ministero del Lavoro e parti sociali. Ma il come lavorare rimane sullo sfondo di queste norme.

Programmi di sviluppo di new way of working. Cambiare insieme il come e dove lavorare non sarà ottenuto in virtù di norme e regole magari giuste e neanche da progetti manageriali top down magari ingegnosi preparati a tavolino. Ciò potrà avvenire solo con progetti di cambiamento entro le singole organizzazioni sostenuti da programmi di promozione e regolazione pubblica e di contrattazione collettiva, che vedano la partecipazione delle persone. Il tutto come parte di quei processi strutturali in atto da decenni a cui abbiamo accennato

Questi progetti di cambiamento dovranno essere guidati da strategie di valorizzazione quelle delle imprese e amministrazioni che hanno innovato le loro strategie e organizzazioni e che hanno arricchito il lavoro.

Questi progetti dovranno essere orientati alla progettazione di lavoro di qualità, ossia lavoro decente per tutti e lavoro professionalizzato sempre più diffuso a tutti i livelli. Il lavoro di qualità è condizione necessaria sia per l’aumento di produttività e innovazione che le organizzazioni italiane sia per assicurare equità, opportunità, qualità della vita .

Questi programmi di cambiamento – chiamati di volta in volta digital innovation, enterprise 4.0, POLA, PIAO e altro –non adotteranno formule standardizzate ma svilupperanno in maniera appropriata e integrata le multiple componenti del lavoro ubiquo –nelle diverse composizioni di remoto e in presenza: aspetti legali, infrastrutture digitali, tecnologie di supporto, mindsete formazione di lavoratori e capi, proporzione tra lavoro in sede e lavoro remoto e soprattutto, il lavoro in sé stesso e l’organizzazione. Al centro di questi cambiamenti vanno messe le persone vere a cui dare voce e da abilitare.

A2A, Bayer, BIP, BNL, Bonfiglioli, Coesia, Comuni di Milano, Bologna, Enel, Eni, Exprivia, Inail, Intesa Sanpaolo, Danone, Leonardo, Luxottica, MEF, Mediolanum, Poste Italiane, Regione Emilia Romagna, Regione Lazio, Stellantis, TIM, Unicredit sono alcune fra le grandi imprese e amministrazioni italiane che in questi due anni hanno riprogettato il dove e il come lavorare. E lo hanno fatto integrando strategie di valorizzazione, progettazione del lavoro e dell’organizzazione, programmi di cambiamento.

Le mie proposte di azione. Per i dirigenti, tecnici, sindacalisti di singole organizzazioni la mia proposta è imparare dalle esperienze migliori e di sviluppare progetti e programmi partecipati di cambiamento integrato di tecnologia, organizzazione e lavoro.

La mia proposta per i poteri pubblici, le rappresentanze delle imprese, i sindacati, le università, ai media, oltre a approfondire il sistema normativo in linea con la natura del nuova lavoro, è quella di promuovere un piano di ricerche e soprattutto di attivare “Patti per il lavoro” per supportare e diffondere i cantieri di cambiamento nelle organizzazioni private e pubbliche. Un esempio è quello realizzato dall’Emilia Romagna e descritto nel volume Coesione e ìnnovazione, Il Mulino 2020 di cui sono autori P.Bianchi, F.Butera, G.De Michelis, P. Perulli, F. Seghezzi e G. Scarano.

La mia proposta per gli studiosi è quella di intensificare i progetti di ricerca e di ricerca-intervento per individuare e diffondere le best practices, per contribuire a sviluppare nuovi modelli di organizzazione e di lavoro; per individuare gli effetti positivi e negativi delle soluzioni adottate sulle performance delle organizzazione e sulla qualità della vita dei lavorator; per contribuire allo sviluppo di politiche trasversali.

La missione degli architetti del nuovo lavoro. Cruciale allora è lo sviluppo quel ceto di progettisti o architetti del nuovo lavoro, evocati da Marco Bentivogli e proposti fin dagli anni 70 dall’International Council for Quality of Working Life. Essi non saranno specialisti isolati come lo furono gli industrial engineers, i tecnici dei tempi e metodi della tradizione tayloristica ma invece manager, sindacalisti, pubblici amministratori, studiosi che nel fare il loro lavoro di gestione e innovazione collaboreranno insieme a progettare e mettere a terra nuove forme di lavoro, con la partecipazione delle persone.

Da quanto precede tre sono i principali obiettivi progettuali che dovrebbero essere perseguiti da tali “architetti del nuovo lavoro”; a) la rigenerazione organizzativa, ossia lo sviluppo di organizzazioni di nuova generazione flessibili, autoregolate, reticolari, supportate da tecnologie digitali; b) la professionalizzazione diffusa, ossia il passaggio da mansioni prescritte e parcellari a ruoli e professioni a larga banda basati su responsabilità dei risultati, collaborazione con le altre persone e con le tecnologie, controllo dei processi simbolici e materiali, senso della comunità. E naturalmente una formazione continua di qualità: new skills and new jobs; c) la promozione della qualità della vita di lavoro, ossia assicurare a tutti un lavoro decente e dignitoso e promuovere il miglioramento delle diverse dimensioni dell’integrità della persona: l’integrità fisica, l’integrità cognitiva, l’integrità psicologica, l’integrità professionale, l’integrità economica, l’integrità sociale e soprattutto l’ “integrità del sé”, ossia l’identità di ciascuno come persona integrale e la sua abilitazione.

La riprogettazione del lavoro come sfida politica e ideale. La riprogettazione del lavoro non è un solo compito tecnico ma una sfida politica e ideale. Questo mezzo secolo stata ha visto storie di retorica o inefficienza di molti che nel pubblico e nel privato, avendo poteri in materia di politiche sul lavoro, si sono comportati da felloni (ossia “chi rompe un legame di fedeltà”) violando gli articoli 1 e 4 della Costituzione e non assumendo responsabilità rispetto agli evidenti bisogni dell’economia e della società. Dalla metà degli anni 70 in Italia è cessato lo sforzo di architettare un lavoro e organizzazioni di nuova concezione.

Lo avevano fatto Roosevelt con il New Deal; lo avevano fatto De Gasperi, Olivetti, Mattei, Saraceno, Trentin, Carniti durante la ricostruzione post bellica; lo aveva fatto Schimdt con la Mittbestimmung; lo aveva fatto Palme con l’Industrial Democracy; lo avevano fatto Clinton e Gore con il “Reinventing Governement”.

Ora il PNRR offre, a chi fa politiche industriali e del lavoro, ai manager, ai sindacalisti, agli scienziati, una nuova finestra di opportunità per mettere in campo “architetti del nuovo lavoro”.

 

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