Crisi e stato sociale

Sotto i durissimi colpi convergenti della crisi economica e della sistematica azione demolitrice dei governi sta ormai agonizzando in Italia e in Europa lo stato sociale, fondamentale conquista di civiltà della seconda metà del Novecento legata alle lotte del movimento dei lavoratori e all’azione politica di diverse forze d’ispirazione socialista, comunista e cattolica. Ormai siamo vicini al punto di rottura, da cui non si esce con qualche aggiustamento del sistema che ne attenui le distorsioni e gli effetti negativi, bensì attraverso un cambiamento radicale di modello: in senso progressista o, all’opposto, regressivo.

Ma non sembra di avvertire, nelle forze politiche d’opposizione come pure nell’opinione democratica e di sinistra, la drammaticità della stretta di fronte alla quale si trova il Paese. Eppure dovrebbe essere chiaro che un avanzamento in senso progressista che muova dai diritti sociali conquistati nel Novecento, peraltro tipici della natura stessa dello Stato democratico, comporta oggi, nelle mutate condizioni del mondo, l’affermazione di una visione globale di un welfare universalistico, il cui punto d’appoggio imprescindibile sta per noi italiani nei principi fondamentali della Costituzione.

Del degrado e del disfacimento dello stato sociale nella sua configurazione attuale ci parlano le innumerevoli vertenze in difesa dell’occupazione, gli operai e i ricercatori che salgono sui tetti, i picchetti e i cortei al centro di Roma, le processioni senza fine al ministero dello sviluppo economico, dove si affastella un numero incredibile di microtrattattive spesso senza sbocco. Fiat, Alcoa, Ispra, Eutelia… Adesso anche Italtel, il cui drastico ridimensionamento, dopo aver sepolto l’informatica italiana, ci porterebbe fuori anche dai servizi alle telecomunicazioni. Nomi illustri e meno illustri di un elenco che a scriverlo tutto ci vorrebbero alcune pagine.

La piena  occupazione, che era il perno sui cui si reggeva il modello di stato sociale ideato da sir William Beveridge, oggi è solo un pallido ricordo. Tra il 2008 e il 2009 abbiamo perso in Italia 600 mila posti di lavoro. La disoccupazione raggiunge livelli inediti nel corso di una crisi che molti astrologi non avevano previsto e oggi dichiarano superata (la funzione delle previsioni economiche di economisti e uomini di governo – ha osservato J. K. Galbraith – «è quella di rendere rispettabile l’astrologia»), mentre i salari scendono inesorabilmente rispetto a profitti e rendite, e noi ormai occupiamo il 23° posto in Europa. In compenso, le ore di cassa integrazione toccano la cifra record di un miliardo, e in pari tempo aumentano i lavori precari, deregolati e al nero, che penalizzano soprattutto le donne e i giovani.

Le disuguaglianze crescono, e noi siamo uno dei paesi più disuguali al mondo. Ma c’è di più, giacché il sistema fiscale opera una redistribuzione della ricchezza a contrario, privilegiando i grandi ricchi. In tal modo i salariati e i lavoratori dipendenti vengono penalizzati due volte: perché contribuiscono in misura di gran lunga prevalente al finanziamento dello Stato nelle sue articolazioni centrali e periferiche, e perché ricevono in cambio prestazioni inadeguate, comunque oggi del tutto insufficienti a fronteggiare le conseguenze della crisi. E sullo sfondo occhieggia il mostro dell’evasione, ormai da tempo responsabile della crisi fiscale dello Stato.

Meno male che, come sostiene senza pudore Tremonti, nell’azione di governo «la priorità è andata alla conservazione  (il corsivo è mio) dello stato sociale». Ma conservazione è una parola che sta bene in bocca ai conservatori, categoria cui il ministro non appartiene, essendo egli in realtà un modernizzatore regressivo. Infatti, insieme ai suoi colleghi ex socialisti Sacconi e Brunetta, Giulio Tremonti è artefice della trasformazione dello stato sociale universalistico, fondato sull’uguaglianza dei cittadini e sulla centralità del lavoro, in stato assistenziale compassionevole, fondato sulla disuguaglianza e sulla centralità del capitale, nel quale i ricchi comprano i servizi di qualità e i bisognosi vengono assistiti al minimo.

Così stiamo transitando dai diritti uguali per tutti ai diritti ad assetto variabile (il diritto di proprietà come propulsore dello sviluppo, il diritto sociale come freno allo sviluppo) e poi alla semplice negazione dei diritti e alla privatizzazione universale, che ha investito la sanità, le pensioni e i servizi sociali, l’istruzione e l’università, e andando oltre anche l’acqua, la protezione civile e la difesa, perfino i cimiteri. Fino ai rapporti di lavoro. Fino alla negazione, per i lavoratori dipendenti, di poter decidere sul loro contratto, vale a dire sul loro destino. Nel momento in cui sale da più parti la critica al “libero mercato”, indicato come responsabile della crisi economica e finanziaria che stiamo attraversando, proprio al “libero mercato” ci si affida per cambiare i connotati dello stato sociale.

Emblematico degli orientamenti del governo, e dell’azione sistematica volta a trasformare in senso regressivo conquiste di portata storica, è il disegno di legge 1441 quater B approvato a fine gennaio dalla Camera e ora davanti al Senato, che letteralmente capovolge i fondamenti del diritto del lavoro. La novità è che, per legge, si da mano libera all’impresa, cioè al capitale, di configurare e gestire il rapporto di lavoro, “liberando” il lavoratore di fondamentali tutele formali e sostanziali, e ponendolo in una posizione di totale subalternità.

In sintesi (ma il disegno di legge merita un’analisi – e una denuncia – ben più ampie e circostanziate), le tutele vengono traslate sull’impresa a danno dei lavoratori, per i quali diventerà estremamente difficile impugnare licenziamenti ingiusti, ottenere adeguati risarcimenti, vincere cause di lavoro. Con un occhio di particolare riguardo, come si conviene, per le imprese che fanno ricorso allo sfruttamento dei lavoratori precari, viene azzerata l’efficacia erga omnes del contratto nazionale e reso ancor più deregolato il mercato del lavoro.

Mediante la «certificazione», affidata a una molteplicità di enti e consulenti, sarà possibile trasformare in «regolari» contratti con retribuzioni e norme peggiori di quelle della contrattazione nazionale, e rendere legali motivi aggiuntivi – ossia non previsti dalla legge e dai contratti collettivi – per licenziare liberamente i dipendenti. Allo stesso modo, è prevista la rinuncia preventiva del lavoratore a rivolgersi al magistrato in caso di controversie. Inoltre, nei casi di conversione dei contratti a tempo indeterminato, l’imprenditore inadempiente se la cava con una sanzione monetaria, e il risarcimento per i lavoratori a termine irregolari viene limitato a un’indennità variabile da 2,5 a 12 mesi. E per finire, la riforma degli ammortizzatori sociali è posticipata di 2 anni, ma l’obbligo scolastico viene anticipato a 15 anni se si lavora come apprendista.

Rispetto alla modernizzazione regressiva della destra, il maggior partito di opposizione, nel suo percorso lungo la linea Pds-Ds-Pd, non è stato in grado di delineare e praticare una reale alternativa. E ciò per la ragione evidente, ma da molti disinvoltamente ignorata, che esso stesso si è convertito all’idea della centralità dell’impresa, e alla banalizzazione della teoria di Rifkin sulla fine del lavoro, approdando su un’isola di nessuno dove è vero tutto e il contrario di tutto. Non per caso un’indagatrice attenta come Laura Pennacchi si domandava già sul finire degli anni Novanta se il sistema del welfare non fosse considerato «un impaccio o un ingombro da superare magari evolvendo verso uno ‘stato sociale minimo’ o rieditando un ‘welfare solo per poveri’».

Resta il fatto che, assumendo l’idea della centralità dell’impresa, il centrosinistra, a cominciare dalla legge Treu del ’97, si è collocato esso stesso su una linea di modernizzazione regressiva sostanzialmente subalterna, dando il là alla deregolazione dei rapporti di lavoro e alimentando così precarietà e disgregazione sociale, da cui oggi prendono corpo, sotto la pressione della crisi, fenomeni sempre più frequenti e minacciosi di una guerra tra poveri. Nativi contro stranieri, outsider contro insider, disoccupati contro occupati, autonomi contro dipendenti, giovani contro anziani, figli contro padri. E’ la guerra di tutti contro tutti, in cui fermentano anche tensioni geopolitiche e i germi di una nuova possibile guerra tra gli Stati. Verso questi deprecabili esiti spingono non solo gli effetti distruttivi della crisi e le scelte della destra. Pesa anche, e in modo sempre più evidente, l’assenza di un’alternativa praticabile da parte dell’opposizione, nella dimensione nazionale ed europea.

Per cambiare lo stato sociale lungo una linea di modernizzazione progressista e di riforma avanzata, ben visibile nei principi fondamentali e negli indirizzi della Costituzione, non si tratta di cancellare il lavoro come fondamento della Repubblica, e dunque come fattore coesivo della società e formativo della persona, ma al contrario di superare lo schema fordista, centrato sull’operaio massa di sesso maschile, su cui lo stato sociale del Novecento è stato impiantato, come pure di cancellarne le distorsioni burocratiche e clientelari. In altri termini, è necessario muovere dalle straordinarie trasformazioni che il lavoro e l’intera società hanno subito in conseguenza della rivoluzione informatica e scientifica, della femminilizzazione dei lavori e della crescita dei servizi, della diffusione del lavoro instabile e precario soprattutto tra i giovani e gli stranieri per ridisegnare l’intero sistema della sicurezza sociale.

Il fatto che fondamentali diritti sociali siano stati conquistati in una diversa fase storica non è una buona ragione per cancellarli. Al contrario, è necessario muovere da quelle conquiste, che hanno visto protagonisti il movimento operaio e i partiti della sinistra che lo hanno rappresentato, per realizzare un nuovo avanzamento di civiltà. Ma come? Questo è il problema. Se vogliamo stare con i piedi per terra e fare i conti con la realtà non possiamo ignorare che la globalizzazione capitalistica, intesa come gigantesco processo di subordinazione del lavoro al capitale, ha distrutto o fortemente indebolito i tre pilastri sui cui lo stato sociale novecentesco è stato costruito in Europa: lo Stato nazionale, il potere dei sindacati operai, la rappresentanza politica del lavoro.

Oggi è chiaro che al di fuori della dimensione europea, su cui anche i sindacati dovrebbero trovare una base comune di rilancio per poi cercare il filo di un’azione comune nel mondo, non è pensabile di poter costruire la trama di un nuovo efficace sistema di sicurezza sociale. Ma è altrettanto chiaro che senza il protagonismo politico degli operai e dei lavoratori dipendenti manuali e intellettuali, che maggiormente patiscono gli effetti distruttivi della crisi e del meccanismo economico fondato sulla dittatura del capitale, non vi sarà un avanzamento di civiltà nelle relazioni sociali e dunque una nuova più avanzata riscrittura dello stato sociale.

Noi italiani abbiamo però una bussola per muoverci nella direzione giusta, ed è la Costituzione di questa Repubblica fondata sul lavoro. E’ d’importanza decisiva, per costruire un nuovo protagonismo politico di massa, che le forze di sinistra e d’opposizione, a cominciare dai Ds, dicano in modo chiaro e senza sottintesi, qui ed ora, nello svolgersi drammatico della crisi globale, se considerano la Costituzione non un pezzo di carta cui rendere omaggio nelle celebrazioni ufficiali ma un concreto progetto per cambiare l’Italia, su cui investire nel presente e nel futuro. In caso contrario c’è da essere molto pessimisti sulle sorti dello stato sociale e della democrazia in questo Paese.

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