Come riformare l’Irpef (prima parte)

Ruggero Paladini prendendo spunto dalle audizioni parlamentari in corso sulla riforma dell’Irpef, in un articolo diviso in due parti, illustra le principali questioni. La prima è che l’Irpef, che non è mai stata un’imposta su tutti i redditi, di recente ha perso altri redditi, passati a tassazione cedolare. Ora l’alternativa è tra il ritorno ad una imposta “comprehensive” e il passaggio al c. d. sistema duale, che lascia in Irpef solo il reddito da lavoro, dipendente o autonomo. In questo caso il problema è se trattare i redditi patrimoniali con imposte reali o con un’imposta personale.

Da alcuni giorni sono in corso le audizioni presso le commissioni finanze di Camera e Senato in materia di riforma dell’imposta personale sul reddito. Ad esse vorrei dedicare due articoli. Il primo, questo, riprende i principali problemi con cui si confronta l’Irpef, che sono emersi dalle audizioni, aggiungendo un approfondimento su alcuni problemi relativi alla tassazione del lavoro dipendente, compreso il c.d. bonus 100 euro. Il secondo, che sarà pubblicato sul prossimo numero del Menabò, concerne il che fare.

Provando a sintetizzare i punti principali che sono emersi, si può dire che essi riguardano principalmente base imponibile e struttura dell’imposta.

Base imponibile. Per quanto riguarda la base imponibile, è stato rilevato in molte audizioni come l’Irpef, che fino dalla nascita era piuttosto distante dal modello della comprehensive income tax (Cit), se ne sia allontanata ulteriormente. Infatti alla sua nascita tutte i redditi da attività finanziarie erano esclusi dalla progressività e tassati con imposte cedolari. La preoccupazione principale era la fuga dei capitali. Tuttavia quattro anni dopo l’introduzione dell’Irpef (1974) la legge Pandolfi introdusse nell’imposta personale i dividendi delle azioni ordinarie. Può essere utile ricordare il motivo di questa modifica, approvata dallo stesso parlamento che aveva varato la nascita dell’Irpef. Quando uscirono gli elenchi delle dichiarazioni presso gli uffici comunali, i giornalisti riferirono, con stupore, che a Torino Gianni Agnelli non era al primo posto, superato da vari notai, proprietari di farmacie e altri professionisti di fama; lo stesso valeva per Leopoldo Pirelli a Milano, e la cosa si ripeteva per altri noti ricchi imprenditori in altre città.

L’avvocato scrisse una lettera al Corriere, dove puntualizzava che egli dichiarava in Irpef ciò che andava dichiarato, cioè lo stipendio come dipendente della FIAT, nonché la rendita catastale dell’abitazione, ma non i dividendi percepiti come azionista, tassati separatamente. La cosa colpì l’opinione pubblica ed i parlamentari, apparendo sconcertante che i percettori di dividendi sfuggissero alla progressività. Pertanto il parlamento, dopo aver temporaneamente aumentato la cedolare secca sui dividenti, approvò l’inserimento in Irpef dei medesimi, accompagnato dal credito d’imposta, per evitare la doppia tassazione (diffusa invece in altri paesi, come gli USA). In fondo essendo le azioni ordinarie, o le quote delle Srl, nominative, non si profilavano possibili fughe di capitale.

Con gli anni duemila, anche in seguito a decisioni della Corte Europea, è avvenuto una progressiva fuoriuscita di questi redditi dall’Irpef, e si è tornati ad una tassazione cedolare. Per quanto riguarda i redditi da immobili, la rendita della casa d’abitazione è stata tolta nel 2000, mentre più recente (2011) è la possibilità di optare per la cedolare secca sugli affitti da abitazioni, con aliquote al 21% o, in casi di canone concordato, al 10%. Questa misura risulta aver ridotto in parte la forte evasione del settore, ma con un costo per le entrate pubbliche, in quanto coloro che dichiaravano gli affitti in Irpef, con aliquota marginale più alta, ne hanno legittimamente approfittato per ridurre l’imposta. Oltre due milioni di contribuenti hanno utilizzato questa opportunità. Il governo Renzi nel 2014 ha inoltre esentato dalle imposte immobiliari locali le case di residenza, reintroducendo una misura stabilita da Berlusconi nel 2008, eliminata da Monti nel 2012.

Anche tra i redditi da lavoro si è assistito alla fuoriuscita dall’Irpef di alcuni redditi da lavoro dipendente; i premi di produttività, con alcuni limiti, vengono tassati al 10%, o anche nulla, nel caso di trasformazione in servizi di welfare. Per quanto riguarda invece le partite Iva, nel corso del tempo il c.d. regime dei minimi varato nel 2007 (nato per semplificare gli adempimenti amministrativi delle nuove partite Iva) si è trasformato in un regime a tassazione forfettaria per un’ampia platea di contribuenti, con incassi fino a 65.000 euro; misura quest’ultima del governo Conte1, con l’obiettivo, questa volta, di ridurre il prelievo fiscale. Mentre in precedenza le soglie erano differenziate a seconda del tipo di attività svolta, l’aver fissato una soglia unica risulta più favorevole ad artigiani e professionisti, per i quali il reddito è una percentuale più alta del volume d’affari. Per settori del commercio o della ristorazione con poco più di 200 euro giornalieri si supera la soglia, a meno ovviamente di non evadere.

Quello dell’evasione è ovviamente uno dei temi caldi che ha caratterizzato l’Irpef fino dall’origine. L’evasione dell’Iva è propedeutica a quella dell’Irpef; se si fa eccezione per gli affitti degli immobili, per evadere la seconda imposta bisogna evadere la prima, altrimenti i rischi sono alti. Sull’entità dell’evasione si sa ormai molto; stimata in circa 110 miliardi, concentrata sui lavoratori autonomi, ma presente in una certa misura anche nel lavoro dipendente (lavoro nero e straordinari). Ancora al momento le misure varate non hanno prodotto risultati significativi. E’ uscito da poco, sul sito di NENS, un ampio studio sull’Iva, con una serie di proposte per ridurre il livello di evasione, stimato in oltre trenta miliardi. L’attuazione delle misure suggerite avrebbe effetti positivi anche sull’evasione dell’Irpef.

Una categoria vicina all’evasione è l’erosione, cioè la sottostima a fini fiscali di redditi che in contabilità economica nazionale presentano valori più alti; la ritroviamo in particolare nei redditi da terreni e fabbricati, con conseguenze negative, anche in termini di equità, sulle imposte immobiliari.

L’alternativa che si presenta è la seguente: o il ritorno alla Cit, riportando in Irpef non solo tutti i redditi fuoriusciti, ma anche quelli che non ci sono mai stati, come i redditi obbligazionari, o l’applicazione del c.d. sistema duale, promosso una trentina di anni fa dai paesi scandinavi, in cui nell’imposta personale rimangono solo i redditi da lavoro (quindi anche da pensione), mentre il resto viene tassato separatamente; nelle audizioni questa prima ipotesi viene ritenuta poco realistica. La seconda ipotesi viene indicata come quella verso cui si sono mosse le riforme avvenute da una ventina di anni; rimane poi aperto il tema di cosa fare con la tassazione di redditi patrimoniali, ora frammentata in tante imposte reali, con aliquote sensibilmente differenti. Alcuni indicano la necessità di mantenere il carattere reale, con una unificazione delle aliquote, mentre altri ritengono maturo il tempo di introduzione di un’imposta patrimoniale (ordinaria) personale, di cui l’Italia aveva fatto esperienza tra il 1940 ed il 1947. Evidentemente questa soluzione viene indicata per introdurre un certo grado di progressività, altrimenti la personalizzazione in capo al contribuente sarebbe superflua. Ovviamente sarebbe necessario creare sistemi di controllo di coerenza nelle dichiarazioni dei redditi finanziari facenti capo a ciascun contribuente; al netto di tutte le complicazioni che il Garante della privacy potrebbe voler introdurre, le comunicazioni tra i paesi (in particolare europei) sui dati personali hanno fatto passi in avanti, malgrado la sussistenza dei paradisi fiscali.

In tutti i casi gli esperti hanno indicato come misura necessaria quella della revisione delle rendite catastali. I valori infatti risalgono a circa settanta anni fa; per calcolare i valori da indicare nelle imposte immobiliari le rendite vengono moltiplicate attualmente per 160 (le abitazioni), ma questo fatto non altera le profonde differenze rispetto ai valori di mercato, per cui immobili che a valori di mercato hanno valori stimati simili possono avere valori catastali rivalutati molto diversi, con evidenti iniquità. Inoltre vari esperti hanno indicato la necessità di superare l’esenzione della casa di residenza dall’Imu-Tasi. Pertanto nel corso delle audizioni i parlamentari di destra, come era da aspettarsi, hanno sollevato obiezioni, in difesa dello status quo.

Un altro tema discusso nelle audizioni è quello della struttura dell’Irpef, tradizionalmente caratterizzata, come nella maggior parte dei paesi, da scaglioni e aliquote (crescenti). La struttura dell’imposta è in sostanza ancora quella delineata nella finanziaria 2007, anche se alcune significative modifiche sono intervenute. Sono state modificate le detrazioni per i lavoratori dipendenti e quelle per i pensionati ma, a parte le modifiche alla base imponibile sopra ricordate, l’elemento più significativo, che ha alterato maggiormente il profilo dell’imposta, è il bonus “80 euro”, diventato poi da luglio 2020 “100 euro”, con la modifica introdotta all’inizio dell’anno scorso e adesso confermata in via definitiva. Il bonus infatti, anche se formalmente fino a 28.000 mantiene la caratteristica di un trasferimento monetario, è strettamente integrato nell’Irpef; da 28.000 fino a 40.000 è anche formalmente una detrazione.

Il fatto che si abbia diritto al bonus appena l’imposta (riferita al solo reddito da lavoro) diventa positiva fa sì che dopo gli 8.147 euro di imponibile, il lavoratore (se ha lavorato per tutto l’anno) abbia diritto agli integrali 1.200. Il risultato ovviamente sta determinando un vuoto delle remunerazioni (comprensive dei contributi a carico dei lavoratori) vicine ma sotto i 9.000.

L’estensione fino a 28.000 del bonus ha eliminato l’aliquota marginale implicita tra 24.600 e 26.600 (inizialmente da 24.000 a 26.000), complessivamente un’aliquota sull’80%, ma l’ulteriore detrazione da 28.000 a 40.000 ne ha create due dopo i 28.000. Infatti la nuova detrazione scende da 100 a 80 da 28.000 a 35.000 di reddito, per poi estinguersi a 40.000. Mentre la prima aliquota implicita è del 3,43%, la seconda è del 19,2%. Entrambe si aggiungono all’aliquota marginale complessiva di 38% (aliquota formale)+3,62% (dovuta alla diminuzione della detrazione).

In sostanza la forte attenuazione della spezzata (a 15.000) della detrazione per lavoratori dipendenti ha creato due aliquote implicite; la prima da 8.147 a 28.000 (4,51%) e la seconda da 28.000 a 55.000 (3,62%). Non considerando quelle di natura familiare e le addizionali territoriali, la struttura delle aliquote marginali per un lavoratore dipendente, che lavori tutto l’anno, è la seguente:

da 0 a 8.147 0
da 8.148 a 15.000 27,51
da 15.001 a 28.000 31,51
da 28.001 a 35.000 45,05
da 35.001 a 40.000 60,82
da 40. 001 a 55.000 41,62
da 55.001 a 75.000 41
da 75.001 in poi 43

 

Si noti che a 8.148 euro c’è una forte aliquota negativa dovuta all’improvviso reddito del bonus dipendenti da 1.200 euro annui. Da 8.148 a poco oltre (in base ad eventuali altre detrazioni spettanti) c’è però anche un’aliquota elevata dovuta all’improvviso pagamento delle addizionali, non dovute se non è dovuta l’Irpef.

Ovviamente l’argomento in difesa di detrazioni decrescenti e bonus consiste nella diminuzione del prelievo netto per i lavoratori a reddito basso e medio (da 8.147 a 40.000). Vediamo però la conseguenza sull’elasticità del reddito netto (variazione percentuale del reddito netto rapportata a quella del reddito lordo), la quale, secondo buoni criteri impositivi, dovrebbe avere un andamento il più possibile “liscio” (smooth). Con riferimento al lavoratore di cui sopra, l’elasticità del reddito netta è la seguente:

Grafico 1    Elasticità del reddito netto Irpef + bonus

Da notare che l’elasticità è calcolata da 9.000 a 100.000, per evitare la complicazione del salto dovuto al bonus, nullo a 8.000 e pieno a 9.000, che introduce una tale discontinuità dell’elasticità da appannare gli andamenti successivi, che invece danno una chiara idea di quanto (non) sia liscia la “curva” dell’elasticità del reddito netto.

Va ricordato che queste aliquote riguardano il lavoratore senza carichi familiari, quindi senza detrazioni (anch’esse leggermente decrescenti) e senza assegni al nucleo familiare, sensibilmente più decrescenti (quindi con ulteriori aliquote marginali implicite).

In confronto a questa struttura a campana quella dei pensionati è sintetizzabile in (quasi) quattro scaglioni:

da 0 a 8.000 0
da 8.008 a 15.000 31,33
da 15.001 a 28.000 30,24
da 28.001 a 55.000 41,24
da 55.001 a 75.000 41
da 75.001 in poi 43

La ragione dipende dalla equiparazione della detrazione a quella dei lavoratori dipendenti, ma lasciando la spezzata a 15.000. L’equiparazione è stata quindi solo formale.

Per gli autonomi a contabilità semplificata (che siano rimasti nell’Irpef) la struttura è più simile a quella formale con le cinque aliquote (23, 27, 38, 41, 43), in cui le prime tre aliquote sono aumentate di 2,2 punti percento per via della detrazione di 1.104 linearmente decrescente da 4.800 a 55.000.

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