Caro spettatore, come stai? Le organizzazioni culturali e la resilienza delle comunità

Annalisa Cicerchia a proposito dell’impatto della pandemia sul mondo della cultura e delle arti commenta tre iniziative rivolte a mobilitare le organizzazioni culturali a sostegno del proprio pubblico nel periodo della chiusura di teatri, musei, cinema e sale da concerti: l’iniziativa del Consiglio Internazionale dei Musei per fornire indicazioni operative ai propri associati e al pubblico; l’indagine ‘Caro spettatore, come stai?’ promossa da alcuni professionisti della cultura e quella, a cura della Direzione Generale dei Musei, rivolta al pubblico di frequentatori abituali dei musei.

Il settore culturale è stato colpito molto duramente in tutto il mondo dalle disposizioni di chiusura adottate per contrastare la pandemia di COVID-19. In Italia, le organizzazioni e gli operatori del patrimonio, delle arti visive e dello spettacolo hanno manifestato vibratamente le proprie preoccupazioni per i danni subiti in termini di occupazione, di reddito e di fatturato.

Prima dell’emergenza, va tuttavia ricordato, la situazione non era particolarmente florida, dal momento che, come documenta l’Istat, appena il 27,9% delle persone dai 6 anni in poi, nel 2019, quando erano libere di farlo, avevano svolto tre o più attività culturali (si erano recate almeno quattro volte al cinema; almeno una volta rispettivamente a teatro, musei e/o mostre, siti archeologici, monumenti, concerti di musica classica, opera, concerti di altra musica; avevano letto il quotidiano almeno tre volte a settimana; avevano letto almeno quattro libri).

Se l’allarme e la preoccupazione del settore culturale per il proprio futuro sono del tutto comprensibili, anche alla luce delle debolissime misure di supporto messe in campo in Italia, colpiscono particolarmente alcuni segnali di attenzione, interesse e perfino cura nei confronti del proprio pubblico, espressi da parte di alcuni soggetti del mondo delle arti e del patrimonio.

Al livello internazionale, ad esempio, si è fatto sentire l’ICOM, il Consiglio Internazionale dei Musei. Alla fine di aprile, uno dei mesi più difficili di questo difficile 2020, quando il 90% dei circa 95.000 musei di tutto il mondo erano chiusi, l’ICOM ha diffuso con tempestività ai suoi associati e al pubblico che li segue suggerimenti e indicazioni operative. Le questioni sulle quali si sono proposte soluzioni specifiche nel quadro della pandemia vanno dalla conservazione delle collezioni del museo alla sicurezza del patrimonio culturale durante l’isolamento, dal come raggiungere il pubblico a distanza alle azioni da intraprendere per sostenere la resilienza della comunità. “Stiamo monitorando da vicino l’impatto della crisi sul settore museale e plaudiamo alle soluzioni creative messe in atto dai musei di tutto il mondo per raggiungere il loro pubblico e continuare a coinvolgere le loro diverse comunità. Siamo consapevoli che non si tratta semplicemente di mantenere vive le nostre istituzioni, ma anche di mobilitare i loro sforzi e le loro capacità per sostenere la resilienza della comunità e una ripresa efficace”.

I manuali classici di gestione dei musei, alla voce “emergenze” raccomandavano, prima di tutto, di mettere al sicuro le collezioni; quindi, l’integrità degli edifici; poi la sicurezza del personale (e degli eventuali visitatori). Che l’ICOM inviti i musei associati a occuparsi attivamente del benessere delle proprie comunità colpite dalla pandemia e offra suggerimenti concreti su come contribuire alla loro ripresa è una novità importante, e degna di riflessione.

Se certamente le modalità di lavoro e di visita dovranno per molto tempo rinunciare alla ricca fetta di pubblico del turismo internazionale e sottostare a nuove misure di sicurezza igienica e sanitaria, molto onerose o addirittura impossibili per le realtà più piccole per spazi e risorse, per chi se ne sarà accorto e lo vorrà, la crisi avrà anche offerto opportunità di apprendere nuove lezioni sulla funzione culturale e sociale dei musei. L’attivazione della capacità dei musei e di altre organizzazioni culturali di contribuire alla resilienza delle proprie comunità passa attraverso una riscoperta della propria identità, della propria missione e delle ragioni più autentiche della propria esistenza, che non sono, né il mero perpetuare se stessi, né il moltiplicare all’infinito il numero di ingressi, ma generare e trasmettere valore culturale attorno alle proprie collezioni.

Il primo passo che l’ICOM ha suggerito ai musei durante il lockdown, è partire da quello che sanno fare meglio e concentrarsi su questo: fare il museo. Una volta rimessa al centro questa capacità, una volta messo a fuoco il proprio core business, immaginare come continuare a farlo, anche nel pieno della chiusura sarebbe stato più facile. Per inciso, questa non è stata una scelta generalizzata. Molti musei, nel mondo e in Italia, hanno chiuso e basta, e parte di essi non ha ancora riaperto e non riaprirà. La parte che, invece, si è messa velocemente al lavoro, ha sperimentato – come suggerito dall’ICOM – soluzioni nuove per mettere a disposizione del pubblico i propri contenuti, rivisitando le pratiche tradizionali e capitalizzando l’esperienza che si andava accumulando giorno dopo giorno. Le istituzioni che ne sono uscite meglio, secondo le prime informazioni rese disponibili dalle reti del settore, sono quelle che avevano già o che sono riuscite a stabilire una comunicazione attiva con il proprio pubblico: una condizione certamente più facile per i musei dotati di infrastrutture digitali (non dimentichiamo, che, secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istat, solo il 16% dei musei italiani ha personale dedicato all’ICT e alle attività digitali e che, dei 460 musei statali, il 43,7% ha un proprio sito web mentre quelli che hanno almeno un social media sono il 66%), ma che dipende soprattutto dal tipo di rapporto preesistente con il territorio di riferimento. I classici luoghi della cultura da grandi numeri, quelli che registravano milioni di ingressi one-shot ogni anno (pensiamo al Colosseo, agli Uffizi, a Pompei), hanno avuto molte più difficoltà, forse non tanto paradossalmente, a dialogare con il proprio pubblico dei piccoli e piccolissimi musei di provincia. Per mantenere la propria utilità sociale profonda, quella che, brutalmente, ne giustifica i costi, è necessario che i luoghi del patrimonio seguano da vicino come cambia il mondo circostante, ascoltino le proprie comunità e cerchino di comprendere in che modo soccorrerle e aiutarle attraverso la propria attività. Fare il museo in tempo di emergenza, quindi, vuol dire fare bene il museo: e infatti, un’altra funzione essenziale da non perdere è la capacità professionale di lavorare sulla memoria storica, anche sulla pandemia, raccogliendo ogni tipo di documenti che permettano di tenere traccia della crisi e del suo impatto.

Anche altre importanti attività culturali sono tradizionalmente costruite a partire dalla relazione fisica fra artisti e pubblico. Il teatro e lo spettacolo dal vivo sono fra queste, e la chiusura degli scorsi mesi e, oggi, i vincoli del distanziamento hanno assestato un duro colpo a imprese e organizzazioni anche un tempo robuste. Perfino il famosissimo e prestigiosissimo Cirque du Soleil ha avviato le procedure di fallimento e verrà svenduto ai creditori. L’effetto sulle realtà dello spettacolo più fragili è ancora più devastante. Anche in questo segmento, tuttavia, alcuni sono stati capaci di mettere il proprio pubblico al centro dell’attenzione.

Caro spettatore, come stai? è un’indagine che si è svolta tra maggio e giugno di quest’anno nel nostro Paese, per “misurare la temperatura dei pubblici” dello spettacolo dal vivo durante il periodo di lockdown. Il progetto, partito da nove professionisti della cultura esperti di audience development, e da nove enti partner, ha coinvolto 100 enti, con 6.000 risposte dalle 20 regioni italiane. Nel confronto sul futuro del settore dello spettacolo dal vivo, gran parte degli interrogativi degli operatori erano rivolti ai propri, diversi, pubblici: Come stavano vivendo questo momento, con i teatri chiusi? Ne sentivano la mancanza? Quali esperienze culturali hanno vissuto durante il lockdown? Ne sono soddisfatti? Torneranno a frequentare eventi dal vivo nel momento della riapertura degli spazi culturali? Come possiamo raccogliere informazioni utili alla rimodulazione dell’offerta?

Così come per l’iniziativa dell’ICOM, anche Caro spettatore, come stai? segna una novità interessante nel quadro delle imprese e degli operatori dello spettacolo, che, indubbiamente messi allo stremo dalle chiusure dovute alla pandemia, hanno fatto sentire la propria voce soprattutto per richiedere aiuto e sostegno per se stessi e per le proprie attività. La novità sta nel fatto che i promotori della indagine hanno agito, sia in base ad una consuetudine di frequentazione dei propri spettatori con una dimensione anche affettiva, sia in base alla convinzione che il proprio lavoro sia necessario ed effettivamente utile non solo per l’intrattenimento, ma anche per il benessere del pubblico. Quindi, hanno pensato che non fosse bene che la consuetudine si interrompesse con il lockdown e che ai propri spettatori mancasse di colpo e del tutto il contatto con il teatro.

Di segno simile è anche l’indagine online lanciata dalla Direzione Generale Musei del Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo e rivolta alle persone che al museo ci vanno spesso e volentieri, e che in questa pratica si sentono coinvolte anche emotivamente e affettivamente. Attraverso le 7.000 risposte al questionario, il pubblico ha raccontato di aver sentito molto o moltissimo la mancanza del museo, ha descritto il proprio legame con i luoghi e le opere, ha espresso il proposito di ritornare appena possibile a visitare le sale e a immergersi nelle mostre, ha parlato di un rapporto non conflittuale e non sostitutivo fra esperienze culturali virtuali ed esperienze in presenza, e ha dichiarato la disponibilità a contribuire con piccole donazioni a sostenere la ripresa delle istituzioni in difficoltà.

Perché la sopravvivenza è insufficiente. Nel romanzo di Emily St John Mandel, Station Eleven, del 2014, una troupe di attori e musicisti si aggira nel paesaggio post-apocalittico della regione dei Grandi Laghi degli ex Stati Uniti e interpreta Shakespeare per i sopravvissuti a una pandemia globale. Sul loro carrozzone, trainato da cavalli, c’è scritto “Perché la sopravvivenza è insufficiente”. Il motto, apparentemente shakespeariano nella sua elegante semplicità, è in realtà tratto da un episodio di Star Trek.

Nella grande incertezza che caratterizza anche la fase che stiamo vivendo, queste storie permettono di rilanciare il tema del ruolo della partecipazione culturale nei processi di resilienza e di sviluppo sostenibile, compreso il contrasto alle disuguaglianze. Se questo ruolo non ci fosse, parlare di teatri o di musei mentre la gente si ammala e muore sembrerebbe futile e offensivo. Ma non è così. A fine 2019, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un report che raccoglie evidenze scientifiche sul ruolo delle arti per il miglioramento della salute e del benessere e l’UNESCO ha diffuso un sistema di indicatori culturali per monitorare il contributo della cultura al raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Le iniziative che abbiamo ricordato qui segnalano quanto sia importante la consapevolezza degli operatori culturali circa il proprio ruolo per il benessere psicofisico del pubblico. È questa consapevolezza che ha spinto molti di loro a tenere aperti i canali di comunicazione, a mantenere i contatti, magari solo virtuali, a sostenere con i propri contenuti di arte e di conoscenza le persone provate dalla malattia, dall’isolamento, dall’incertezza, nel momento più difficile. Questa consapevolezza anima, in molte organizzazioni, la ricerca di nuove modalità di lavoro, compatibili con le nuove esigenze e accessibili a un pubblico sempre più ampio.

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