Adam Smith capovolto. Potere economico e benevolenza

Roberto Tamborini riflette sul rapporto tra libero mercato, potere e diritti, partendo dalla nota affermazione di Adam Smith secondo cui il libero mercato assicura il benessere sociale senza che sia necessaria la benevolenza di chi opera in esso. Tamborini sostiene che le condizioni per la validità di questa affermazione mancano, soprattutto a causa della concentrazione del potere economico e finanziario, che diviene anche politico, e che esiste una tensione tra libero mercato e diritti da affrontare sul piano politico-istituzionale.

“Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse.” E’ la celeberrima frase, scolpita nella Ricchezza delle Nazioni, con cui Adam Smith svelò l’arcana armonia sociale del mercato, tracciando la strada del pensiero economico sino ai giorni nostri. Ma i presupposti del mercato smithiano, la cosiddetta “libera concorrenza”, sono costantemente minacciati dalle medesime forze di mercato, come aveva ben visto lo stesso grande filosofo scozzese. Le virtù sociali dell’esclusiva cura dei propri interessi, per realizzarsi richiedono, quale condizione necessaria (anche se non sufficiente), una costante e severa limitazione del potere di controllare prezzi, salari, informazioni e condizioni contrattuali in genere da parte di soggetti economici dominanti.

La lunga stagione cosiddetta “neo-liberista” iniziata negli anni Ottanta del secolo scorso ha prodotto    una crescente concentrazione di potere economico e finanziario, e quindi politico; un rigged capitalism (rigged significa sia truccato che corrotto) che sta minacciando la democrazia liberale (Martin Wolf, FT online, 18 settembre 2019). Secondo Anthony Atkinson, la dissoluzione del potere contrattuale del “lavoro” rispetto al “capitale” è una delle cause del riemergere di disuguaglianze e condizioni di vita economiche e sociali non più compatibili con la democrazia moderna (Inequality. What can be done?, Harvard University Press, 2015). Emblematico di una ampia schiera di studi, l’ultimo libro di Thomas Philippon denuncia la cattura dei poteri pubblici di regolazione e controllo negli Stati Uniti (The Great Reversal. How America gave up on free markets, Harvard University Press, 2019). Ma, come hanno spiegato Colin Crouch (How can neoliberalism be saved from itself?, Social Europe, 2018) e Michele Grillo (“Neoliberalismo e antitrust”, in Esiste uno stile giuridico neo-liberale?, a cura di R. Sacchi, A. Toffoletto, Giuffré, 2019),  il fenomeno è più generale e investe i fondamenti stessi della regolazione dei mercati. La conseguenza è che il mondo in cui viviamo è il capovolgimento di quello smithiano: è dalla benevolenza di chi detiene ed esercita potere di mercato che il resto della società si aspetta di ricevere i mezzi per vivere.

Gli esempi sono numerosi. I cosiddetti Giganti del Web non pagano le loro materie prime vitali (le nostre informazioni che disseminiamo in rete), pagano salari parametrati sui luoghi più convenienti, pagano tasse societarie, e spesso anche personali, irrisorie, ma i loro proprietari sono prodighi di donazioni e investimenti a scopo benefico. In taluni casi, l’entità di tali somme supera quel che potrebbe essere stanziato dalla pubblica amministrazione locale. I vertici delle grandi corporation transnazionali decidono se, quando e come sia il momento della responsabilità sociale dell’impresa, della sostenibilità ambientale o dell’equità di genere, come se si trattasse di materie di esclusiva competenza, e condiscendenza, aziendale, non si capisce se per ragioni di sostanza o d’immagine.

In una sorta di Sindrome di Stoccolma globale, molti governi, anche di paesi avanzati, competono per creare condizioni attraenti per i soggetti dominanti del mercato. In ciò assecondati, o sollecitati, da pensatori economici al passo coi tempi, nonché da agenzie internazionali dedicate alla consulenza economica. La contesa si gioca principalmente offrendo trattamenti fiscali di favore. Su questo fronte l’Europa del rigore fiscale non riesce a trovare uno standard comune, mentre diversi governi mal sopportano la severa tutela della concorrenza esercitata dalla Commissione europea.

In un intervento pubblicato su Project Syndicate e Social Europe (“Isn’t a wealth tax commonsense?“), di cui il Menabò  si è già occupato, J. Bradford DeLong rileva i sintomi della Sindrome di Stoccolma nel dibattito sulle proposte di tassazione della ricchezza che sta animando le primarie del Partito democratico negli Stati Uniti. Dopo aver spiegato come un’imposta patrimoniale abbia un fondamento nei princìpi basilari della finanza pubblica, DeLong si dice stupito delle forti preoccupazioni, o obiezioni, sollevate nello stesso campo democratico.  L’imposta patrimoniale è facilmente eludibile, è troppo difficile e costosa da verificare ed esigere, andrebbe contro lo spirito del capitalismo, ridurrebbe gli incentivi a fare investimenti rischiosi, verrebbe bocciata dal Corte suprema (a maggioranza repubblicana). Una serie di critiche di simile natura viene rivolta da Jean Pisani-Ferry, eminente economista francese del centro di studi europei Bruegel, alle proposte per una tassazione elevata dei patrimoni contenute nell’ultimo libro di Thomas Piketty (Capital and Ideology, Harvard University Press). “Una ricerca impressionante, con soluzioni problematiche” secondo Pisani-Ferry. Anche ammettendo l’esistenza di difficoltà tecniche e controindicazioni delle imposte patrimoniali (ma non esistono politiche economiche senza controindi­cazioni), non si sfugge al senso di una sostanziale resa all’idea che la contribuzione dei più ricchi ai beni comuni dipenda infine solo dalla loro benevolenza.

La competizione per ottenere i favori dei soggetti dominanti si manifesta anche sul piano normativo più generale, i contratti di lavoro, la sicurezza, la sostenibilità ambientale e così via. La loro ambita benevolenza si manifesterà prima di tutto nella scelta della localiz­zazione dell’insediamento, che significa posti di lavoro (e voti?), e poi nel grado di rispetto, o elusione, o violazione, delle condizioni sottoscritte, pur se agevolate. La benevolenza può venir meno se le condizioni non sono più ritenute attraenti (rispetto ad altri offerenti), per esempio se il presidio dell’interesse pubblico viene attuato in maniera ritenuta troppo incisiva, contraria allo spirito dei tempi. La battaglia legale in corso in Italia con la multinazionale dell’acciaio Arcelor Mittal, con torti e ragioni ancora da stabilire, è emblematica (ma si possono ricordare anche i casi Whirlpool, Pernigotti e altri) e dimostra che i fenomeni di cui si parla non sono limitati al mondo intangibile dell’intelligenza artificiale.

Il capovolgimento del mondo ideale smithiano non desterebbe tanta preoccupazione se non fosse evidente che affidarsi alla benevolenza del potere economico non è sufficiente per garantire uno sviluppo equo, armonico e sostenibile. Anzi, si producono effetti opposti, che stanno corrodendo i sistemi democratici del mondo Occidentale. E’ ora di cercare dove sia, e tracciare chiaramente, la linea di demarcazione tra eque ed efficaci condizioni per l’esercizio dell’impresa e la subordinazione alla sua benevolenza.

Il comandamento dell’efficienza economica, da solo, non ci fa fare molta strada. Primo, perché esso è muto rispetto a giudizi di valore (quale è il giusto profitto, quale è il giusto salario, cosa non è giusto produrre, come non è giusto produrre, ecc.). Secondo, perché non è un concetto assoluto, ma una misura relativa rispetto a una serie di dati (dotazioni di fattori produttivi, tecnologia, preferenze di lavoratori e consumatori) e vincoli, tra i quali le regole del gioco fissate dalla società in cui l’impresa opera. E’ possibile che l’utilizzo di manodopera infantile a basso costo aumenti l’efficienza della produzione, ovvero i profitti, ma questo non è un buon argomento per abolire il divieto del lavoro minorile in una società che lo ritiene immorale.

La linea di demarcazione va cercata sul piano politico-istituzionale. La dipendenza dalla benevolenza altrui nelle relazioni sociali è inversamente proporzionale all’estensione dei diritti e dei doveri normati e attuati, sottratti alla discrezionalità soggettiva. La seconda metà del Novecento è stata l’epoca dell’espansione dei diritti, personali, civili, politici, sociali, economici. Tuttavia l’espansione dei diritti, per realizzarsi con la “forza della legge”, deve prevedere una pari espansione dei doveri. Si risale alla nota distinzione tra “diritti positivi” e “diritti negativi”. Se ad un soggetto avente un diritto non corrisponde un soggetto avente il corrispettivo dovere, tale diritto rischia di rimanere una pura petizione di principio.

Esiste quindi un punto di tensione tra libero mercato ed espansione dei diritti nella sfera economica. Lo slogan “non si crea occupazione per legge” non è così profondo come sembra, ma coglie un punto. In un’economia di mercato nessun soggetto privato ha il dovere di dare lavoro, salute, istruzione, casa, a nessun altro. La realizzazione di questi diritti (se proprio si desidera sancirli come tali) viene a dipendere dal calcolo economico della convenienza e dalla disponibilità personale di risorse. Dunque sancire diritti nella sfera del mercato è stato, ed è, un mero esercizio retorico (o peggio, una cortina fumogena ai danni di chi sta sul “lato corto” del mercato)? No: perché ha consentito 1) di definire i criteri di valutazione dei risultati del mercato, e dunque i requisiti della sua legittimazione sociale, 2) di realizzare un ampiamento dello spazio delle prescrizioni di legge rispetto a quello dei meri rapporti mercantili, 3) di individuare nello stato, nel perimetro che chiamiamo Stato sociale, il “titolare di ultima istanza” dei doveri economici (lasciatemeli chiamare così) non realizzati o non realizzabili dal mercato.

Questa sutura tra mercato e diritti, che senza dubbio è stata efficace per vari decenni, ha cominciato a strapparsi di nuovo man mano che la loro espansione ha dovuto fronteggiare il vincolo delle risorse, che ha un dimensione di livello (quanto costa realizzare i diritti) e una distributiva (chi paga e chi riceve). Per evocare un concetto famoso, matura la “crisi fiscale” dello Stato sociale (soprattutto quello del continente europeo). Ma questo è solo un lato del problema. Non so dire se come causa o come effetto (probabilmente entrambi), coloro che dispongono delle risorse produttive e le controllano hanno puntato a riprendersi su scala mondiale lo spazio ingombro di diritti e doveri.  Così ora abbiamo diritti senza risorse, da un lato, e risorse senza diritti, dall’altro.

Le forze di mercato sono in grado di mobilitare enormi risorse, ma chiedono e più spesso impongono una compressione dei diritti economici che si erano espansi nel secolo scorso. Si tratta, naturalmente, di una domanda di riduzione dei propri simmetrici doveri, cioè regole, vincoli, “lacci e lacciuoli”. Chi mette le risorse sul piatto detta le regole del gioco, ed eventualmente esercita la propria benevolenza.  Questa tendenza storica alla separazione tra risorse e diritti ha molte spinte e molte gambe su cui avanzare. La lista dei diritti e dei doveri economici non si scrive più nelle arene politiche delle “economie sociali di mercato”, ma in quelle, assai più primordiali, delle “nuove frontiere” del mondo economico emergente. Se questo è lo scenario, la soluzione del problema delle risorse senza diritti si presenta ancor più ardua di quella dei diritti senza risorse.

Il nostro paese non è stato immune da questi fenomeni, anzi, sappiamo bene che è stato un precursore del rigged capitalism. La crisi fiscale dello Stato sociale non è stata affrontata a viso aperto (né da destra, né da sinistra), ma solo tamponata malamente, perché i ceti emergenti e dominanti della Seconda repubblica si sono affidati a forze politiche che (con successo, dal loro punto di vista) hanno cercato di tenere insieme le attrazioni e la retorica del “meno stato e più mercato”  con la continuazione di una forte e pervasiva presenza di offerta politica di privilegi e protezioni. Il fallimento della Seconda repubblica su questo fronte è una delle cause del declino italiano, e ci lascia interamente in eredità il problema del divorzio tra diritti e risorse.

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