La Politica Fiscale ai Tempi della “Nuova Normale”

Francesco Saraceno dopo aver ricostruito gli argomenti alla base del consenso degli scorsi decenni sul ruolo della politica monetaria e fiscale, ricorda l’impatto che esso ha avuto sulle istituzioni europee e documenta le critiche che ad esso oggi sono mosse, anche da economisti mainstream, soprattutto per le limitazioni alla discrezionalità della politica fiscale. Saraceno spiega perché tali limitazioni andrebbero rimosse e sostiene che il dibattito teorico non potrà non avere effetti sulle istituzioni dell’Unione Europea.

Gli anni a cavallo del secolo hanno visto l’emergere di un consenso in macroeconomia che attribuiva alla sola politica monetaria il compito di stabilizzare il  ciclo economico. Le banche centrali, operando per garantire la stabilità dei prezzi, potevano assicurare agli agenti economici un contesto macroeconomico privo di incertezza, riducendo  le fluttuazioni cicliche e garantendo  una crescita sostenibile nel lungo periodo. Secondo lo stesso consenso, il ruolo della politica fiscale doveva essere limitato all’operare degli stabilizzatori automatici. La politica monetaria era, sempre secondo il consenso, una questione tecnocratica per eccellenza, e non doveva quindi passare per il processo democratico che, invece, non può essere evitato in materia di politica fiscale; tale  processo, ovviamente necessario, causa ritardi nella messa in atto delle politiche, esponendole inoltre al rischio di appropriazione da parte di lobbies e interessi costituiti. Questo, secondo il consenso, giustificava i vincoli imposti alla politica fiscale cosiddetta discrezionale.

Il consenso si è formato in concomitanza con la discussione sulla governance europea, e ne ha profondamente influenzato le istituzioni: da un lato il patto di stabilità regola le politiche fiscali dei paesi membri con il preciso scopo di impedire le politiche discrezionali, consentendo, come si è detto, che esse operino soltanto attraverso  gli  stabilizzatori economici quali ad esempio i sussidi di disoccupazione. Dall’altro i trattati attribuiscono alla Bce il solo mandato della stabilità dei prezzi, contrariamente ad altre banche centrali, tra cui la Federal Reserve americana, spesso posta di fronte all’arbitraggio tutto politico tra inflazione e occupazione.

La recessione del 2008 ha scosso il consenso. La crisi finanziaria ha fatto rapidamente piombare l’economia mondiale in una trappola della liquidità: tutto il settore privato (banche, imprese e famiglie), si trovava infatti oberato da debito eccessivo e nel tentativo di riequilibrare i propri  bilanci ha, innanzitutto, ridotto la spesa; quindi, si è rivolto verso le attività il cui valore era percepito come sicuro. In questi casi, l’appetito per la liquidità diventa virtualmente infinito, e per quanta moneta la banca centrale inietti nel sistema, questa moneta verrà tesoreggiata e non utilizzata per consumare o investire. Le banche trattengono liquidità e non creano credito, così fanno anche le imprese e le famiglie che  non domandano prestiti e non spendono.  Insomma, il solo strumento che il consenso considerava utilizzabile, la politica monetaria, si è rivelato nella crisi attuale completamente privo di efficacia, come già era successo negli anni Trenta.

E avendo appreso la lezione di quegli anni, i governi delle principali economie avanzate nel 2009 hanno fatto ricorso alla leva fiscale, sostenendo la domanda globale mentre la politica monetaria aveva perso la trazione necessaria.  Come è ben noto, la leva fiscale è stata disattivata troppo presto soprattutto in Europa, dove con la crisi greca si è affermata una narrazione incentrata sull’eccesso di debito pubblico nei paesi della cosiddetta periferia, e sul bisogno di mettere in atto politiche di austerità e riforme strutturali. Non è questa la sede per tornare sui danni che un’austerità generalizzata ha prodotto nella zona dell’euro, dove – caso unico  tra le aree economie mondiali – solo a fine 2015 sono stati raggiunti i livelli di reddito precedenti alla crisi. Vorrei invece, qui, fornire qualche spunto di riflessione sul ritorno in auge della politica fiscale, per cercare di comprendere se una volta messa definitivamente alle spalle la crisi si affermerà di nuovo il consenso degli anni novanta.

Per far questo è utile partire dalle riflessioni di due economisti che, in modo diverso, sono stati tra i maggiori esponenti del consenso pre-crisi, ma che oggi sono sembrano essere tra i più pronti, almeno nel campo dell’economia cosiddetta mainstream, a sfidare i vecchi dogmi. Il primo, Larry Summers, ha riesumato un termine coniato negli anni Trenta del secolo scorso, la “stagnazione secolare”, per sostenere che l’economia mondiale si avvia verso un periodo prolungato di crescita moderata,  caratterizzato da risparmi abbondanti (a causa tra l’altro di alta diseguaglianza e debito eccessivo), e da insufficiente investimento. L’economista americano conclude quindi che la situazione attuale di eccesso di risparmio è destinata a perdurare anche quando la fase attuale di debolezza ciclica sarà superata.  Le sue conclusioni non sono particolarmente rassicuranti. Summers vede davanti a noi un lungo periodo in cui si dovrà scegliere se rassegnarsi ad una crescita strutturalmente bassa (insufficiente tra l’altro a riportare la disoccupazione a livelli accettabili), o in alternativa a “dopare” il Pil favorendo la creazione di bolle che garantirebbero si tassi di crescita più elevati, ma al prezzo di un’instabilità i cui costi abbiamo sperimentato nel passato recente.

Intervenendo nel dibattito aperto da Summers, l’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard si chiede come questo cambi la prospettiva del policy maker rispetto agli strumenti da utilizzare per sostenere la crescita economica. Blanchard parte dalla considerazione che in una situazione di eccesso di risparmio cronico, i tassi di interesse sono destinati a rimanere vicini allo zero, o comunque a livelli molto bassi, anche quando l’economia sarà definitivamente uscita dalla crisi. Questa “nuova normale” rende il lavoro delle banche centrali molto più complicato che in precedenza, visto che dovranno in permanenza barcamenarsi tra le due alternative accennate prima, decidendo quanto spingere l’economia con il rischio di portare l’instabilità finanziaria oltre il punto di non ritorno, e di contribuire quindi all’apparizione di nuove crisi. Si pensi ad esempio alle critiche che sono piovute sulla Fed (solo a cose fatte peraltro) per il suo contributo alla formazione della bolla immobiliare tra il 2000 e il 2007, mentre la Bce era al contrario accusata di essere troppo inerte e di non sostenere abbastanza la crescita europea.

 Allontanandosi dal consenso che ha egli stesso contribuito a consolidare, Blanchard conclude che l’aumentata complessità della politica monetaria non consente di contare su di essa per stabilizzare l’economia, e che la politica fiscale diventa preferibile come strumento principale di regolazione macroeconomica. L’economista francese nota infatti come i tassi di interesse vicini allo zero rendano sostanzialmente caduco il dibattito sulla sostenibilità del debito, che può persistere a livelli anche discretamente elevati, fintanto che l’economia riesce a crescere a tassi accettabili. Mentre Blanchard si concentra principalmente sulla sostenibilità del debito, altre considerazioni possono rinforzare la sua tesi. In primo luogo, nel contesto di regolamentazione sempre meno stringente dei mercati le fluttuazioni potrebbero diventare più pronunciate, richiedendo quindi un più significativo ruolo di stabilizzazione della domanda da parte del settore pubblico. Inoltre, anche la contrazione generalizzata dei sistemi di welfare nelle economie avanzate, che ha fortemente ridotto il ruolo degli stabilizzatori automatici, richiede politiche macroeconomiche (monetaria ma soprattutto fiscale) più attive.

Insomma, sia pure timidamente, inizia a farsi strada un ripensamento del consenso di cui la crisi ha evidenziato le carenze, e la politica fiscale viene reintrodotta nella “cassetta degli attrezzi” del policy maker. Ma se le cose stanno così, questa evoluzione della teoria della politica economica non potrà non avere un impatto sul dibattito relativo alle istituzioni che regolano l’economia europea che, come abbiamo visto, di quel consenso sono impregnate.

Infatti, in un contesto di eccesso di risparmio in cerca di impiego, e di tassi di interesse vicini allo zero, l’ossessione per il debito che ha caratterizzato la politica economica europea fin dal 2010 diventa incomprensibile non solo in una prospettiva di breve periodo, legata alla crisi di domanda, ma anche in una prospettiva di più lungo periodo.

Occorrono due innovazioni sostanziali nell’impianto istituzionale dell’Unione Europea (e dell’eurozona in particolare): in primo luogo, la complessità del compito dei banchieri centrali deve essere infine riconosciuta, e il mandato della Bce deve essere adattato per dare, sul modello della Fed americana, pari dignità agli obiettivi dell’occupazione e dell’inflazione. Ma, soprattutto, il patto di stabilità deve essere modificato alla radice, per consentire ai paesi membri di riappropriarsi della politica fiscale discrezionale. Un primo passo potrebbe ad esempio essere la famosa “regola d’oro”, discussa da almeno un decennio, che consentirebbe di escludere dai limiti del patto la spesa per investimenti. Occorre inoltre consentire l’utilizzo della leva fiscale per bilanciare gli squilibri tra paesi e tra aree. Un’area monetaria ingabbiata da una moneta unica, priva dei meccanismi di bilanciamento propri di uno stato federale, e per di più con vincoli stringenti alle politiche nazionali, è impossibile che funzioni. I soli mercati non sono in grado di assorbire gli squilibri territoriali; anzi, spesso li amplificano, come dimostrano gli eventi recenti.

Si sente spesso dire che non serve aprire il vaso di Pandora della riforma istituzionale, e che la politica macroeconomica europea (soprattutto la politica monetaria) ha dato prova di pragmatismo spingendosi spesso al di là della lettera dei trattati. È un argomento debole. I trattati, le istituzioni, hanno fortemente influenzato la politica economica europea. È interessante infatti notare che non è solo in anni recenti che la politica economica europea ha dato prova di inerzia. Il confronto con gli Stati Uniti, riferito anche agli anni precedenti la crisi, mostra che oltre atlantico le due leve, fiscale e monetaria,  hanno avuto una reattività che da noi è sempre stata assente. È vero, il patto di stabilità assomiglia ad un colabrodo, con eccezioni e flessibilità varie che consentono soprattutto ai grandi paesi di non rispettarlo. Ma la sua sola esistenza, il bisogno di negoziati estenuanti per spuntare uno o due decimali di deficit in più, hanno fortemente limitato l’utilizzo della politica fiscale per sostenere la crescita.

Insomma, oggi siamo ad un crocevia. L’Unione Europea è invischiata in una crisi economica e politica senza precedenti. E la teoria della politica economica muove qualche timido passo, fornendo utili spunti di riflessione. Tutte le condizioni sono quindi presenti per un coraggioso ripensamento delle nostre regole di governo.

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