Ci vuole un villaggio per far crescere un bambino… e farlo uscire dalla povertà

Cristina Duranti racconta la drammatica realtà di Kanina, una comunità mineraria della Repubblica Democratica del Congo da cui proviene una grande quota della produzione mondiale di cobalto, di coltan e di rame. A Kanina è assente ogni forma di vita comunitaria e i bambini lavorano in miniera già a 3 o 4 anni. Duranti illustra un progetto che dal 2013 ha cominciato a ricostruire in questo villaggio il tessuto comunitario partendo dai bambini e, a distanza di un anno, ha qualche buona notizia da raccontare.

Vari proverbi africani legano strettamente il destino dei bambini non alla famiglia o allo stato ma alla comunità in cui vivono. It takes a village to raise a child nella cultura diffusa dell’Africa sub-sahariana significa che il benessere dei bambini non è una faccenda privata e non si esaurisce nella sfera della famiglia nucleare. Una forma di welfare comunitario, essenziale per i cosiddetti OVC (Orphans or Vulnerable Children) fondata su fiducia e condivisione.

Con la nostra ONLUS abbiamo avuto un’esperienza diretta degli effetti devastanti, che si riverberano soprattutto sui bambini, quando questo sistema si disgrega. Dal 2012 collaboriamo con le Good Shepherd sisters di Kolwezi e con l’ONG Youth for Economic Justice in un progetto nella comunità di Kanina.

Kanina è una remota comunità mineraria alla periferia di Kolwezi, nella ricchissima Provincia del Katanga (Repubblica Democratica del Congo). Qui  sopravvive un modello di sfruttamento economico e sociale che produce condizioni di disuguaglianza e sottosviluppo non dissimili da quelli del peggior colonialismo ottocentesco. Favorito da una legislazione internazionale sui tax heavens che consente di non redistribuire la ricchezza localmente, da un’economia asfittica e da istituzioni deboli e corrotte, questo sistema ha intaccato profondamente quella rete di supporto sociale che, anche nelle comunità più povere dell’Africa sub-sahariana, garantisce livelli minimi di cura e protezione dell’infanzia.  In questo angolo del pianeta, da cui proviene il 34% del cobalto, il 30% del coltan e il 10% del rame mondiale, la speranza di vita è di 46 anni e i bambini sono costretti a lavorare in miniera già a tre o quattro anni.

Nascere in questa comunità, come mostra anche una ricerca da noi condotta nel 2012, significa essere esposti fin dalla più tenera età a forme devastanti di violenza e sfruttamento. Già a tre o quattro anni si è costretti a entrare in gallerie sotterranee ad alto rischio di frane o a restare immersi tutto il giorno nell’inquinatissimo fiumiciattolo che scorre dalla miniera per raccogliere frammenti di minerali. Significa non andare a scuola perché non ci si può permettere la retta richiesta anche negli istituti pubblici, nonostante l’istruzione primaria sia ufficialmente gratuita. Vuol dire mangiare terriccio per calmare i morsi della fame. Se nasci femmina, corri anche il rischio di essere violentata già a tre-quattro anni da uomini convinti che violare una bambina piccolissima porti fortuna in miniera. Quando poi qualche familiare prossimo muore improvvisamente corri anche il rischio di essere accusato di stregoneria e perseguitato con violenze di ogni tipo.

Perché, ci siamo chiesti, in questa realtà, il villaggio del proverbio, invece di curarsi dei bambini, ne rende la vita così miserabile? La risposta che ci siamo dati è che, in questo caso, il “villaggio”, nato come comunità mineraria artigianale, cresciuto ai margini della legalità, senza un’identità etnica propria, è una non-comunità, che subisce gli effetti perversi di una non-economia all’interno di un non-Stato.

Una non-comunità. L’attività mineraria artigianale (Artisanal and Small Mining-ASM) occupa l’80% della forza lavoro nel settore minerario mondiale. Si stima che a Kanina, a ridosso di una delle aree minerarie più vaste e ricche del pianeta, 32.000 persone vivano di ASM, la forma più pericolosa e precaria di impiego nel settore estrattivo. Sorta in maniera del tutto anarchica negli Anni ‘50, senza alcun tipo di infrastrutture, Kanina in 20 anni è cresciuta a un tasso superiore a quello di Kinshasa. La composizione multietnica rende la coesistenza difficile e le divisioni sono state sfruttate in passato per alimentare conflitti. Per gli stessi abitanti di Kolwezi, il centro abitato maggiore, gli abitanti di Kanina sono considerati estranei, irregolari e pericolosi. Questo atteggiamento è dovuto in buona parte al fallimento delle istituzioni nel regolare il sistema estrattivo.

L’ASM è proliferata a seguito di un compromesso sancito dal Codice Minerario del 2002. Per garantire accesso universale alle risorse, il Codice garantisce che tutti i Congolesi possano ottenere una licenza di estrazione ed esercitarla nelle aree designate ASM. Tuttavia, quando gli ASM si trovano a esercitare in una concessione privata devono stipulare un accordo con il concessionario; se non lo fanno sono fuori legge. A Kolwezi migliaia di ASM hanno occupato negli anni le concessioni di Gécamines, la compagnia statale che li ha lasciati proliferare senza pianificazione e senza offrire alternative di sviluppo.

Il clima di anarchia dominante nell’ASM ha contribuito nel tempo ad alimentare gelosie, sospetti e divisioni. A questo si aggiungono le pessime condizioni di lavoro, senza nessuna forma di tutela e protezione, alla mercé di gruppi organizzati, sul modello del caporalato, che decidono a chi assegnare le zone più ricche, praticano estorsione e usura, ribassano i prezzi, si fanno la guerra tra loro. Nelle cave a cielo aperto, frequenti sono le morti per frane. Nelle acque inquinate dove si setacciano i minerali, lavorano fianco a fianco adulti, donne incinte, bambini e anziani.

Il recente ingresso di privati nella società che ora detiene tutti i diritti estrattivi della zona, la Kamoto Copper Company (KCC), ha prodotto espulsioni di massa violente degli artigiani dalle concessioni e ha ulteriormente esacerbato le condizioni di vita della comunità.

Inoltre, grazie ad un articolato sistema di governance societaria internazionale, i pur deboli e corrotti meccanismi di redistribuzione della ricchezza, sono sistematicamente elusi da queste società. L’esempio più eclatante di questo fallimento è ben documentato da un rapporto pubblicato nel 2014 da RAID e altre ONG svizzere (http://www.raid-uk.org/content/glencore-katanga-drc.)  secondo il quale KCC avrebbe evitato di pagare allo Stato congolese negli ultimi 5 anni, tra tasse e dividendi , 153,7 milioni di dollari.

A questo si somma che gli investimenti a scopo sociale di KCC, imposti dal Codice, sono solo parzialmente attuati, determinando carenza gravissime di infrastrutture e servizi. A Kanina e nelle zone limitrofe mancano strade, acquedotti, illuminazione, scuole, pozzi. La popolazione vive in casupole di fango umide e buie, senza alcun tipo di arredo. Solo il capo villaggio possiede una sedia.

Gli effetti sui membri più vulnerabili. La combinazione di questi fattori genera condizioni di vita molto difficili soprattutto per i bambini. Dall’indagine che abbiamo condotto nel 2012, è risultato che nessuno dei bambini di Kanina tra i 5 e i 12 anni aveva mai frequentato regolarmente la scuola e, come conseguenza, solo il 44% degli adolescenti sapeva leggere o scrivere. Per integrare il magro reddito familiare, il 70% lavorava non occasionalmente nelle miniere. Il 70% riferiva di aver subito almeno una volta gravi violenze fisiche o psicologiche in casa e in miniera. Il 50% è stato classificato come OVC.

I bambini, nonostante riferissero di “guadagnare bene” – da 0,54  a 15,89 dollari a settimana – non erano autorizzati a trattenere più del 30% e comunque non riuscivano a soddisfare neanche i bisogni nutrizionali fondamentali. Infatti, il 100% non ricordava quando avesse fatto l’ultimo pasto e il 30% dichiarava di non aver mangiato da più di due giorni.

It takes a village: ricucire il tessuto sociale per sollevare i bambini. Per evitare di creare altre fratture nella comunità, il nostro intervento, articolato in 5 progetti, è stato costruito in modo partecipativo e “olistico”, per affrontare contemporaneamente le diverse cause di frammentazione sociale.

Informal School: per evitare duplicazioni rispetto al sistema scolastico esistente, si è deciso di non costruire una nuova scuola, ma di istituire un programma di recupero scolastico e aiutare i bambini a rientrare nel percorso educativo, sostenendo contemporaneamente il reddito delle famiglie. Complemento essenziale è il supporto nutrizionale che fornisce un pasto nutriente al giorno a tutti gli alunni, affinché non siano costretti a lavorare per non patire la fame;

Economic Empowerment: per offrire opportunità di formazione e lavoro ai membri della comunità considerati “irrecuperabili”, come le adolescenti semianalfabete, troppo grandi per essere reinserite nel percorso scolastico, già vittime di abusi e stigma sociale, considerate dalle famiglie un peso e il cui valore è misurato solo in virtù della dote per un matrimonio in età molto precoce;

Child Protection: per garantire protezione dalle violenze e incolumità per bambini, ragazze e donne. Il centro di recupero scolastico è diventato a questo scopo un punto di riferimento per tutta la comunità e grazie alla fiducia conquistata dagli operatori viene ora utilizzato per denunciare le violenze e gli abusi, cercare supporto psicologico e legale;

Civic Streghtening: per ridurre le tensioni comunitarie attraverso attività ricreative e sociali, educando ai diritti e doveri civici tutta la comunità e attuando iniziative collettive di lobbying per obbligare le compagnie estrattive e il governo ad investire in infrastrutture e servizi;

Alternative Livelihoods: per promuovere agricoltura, allevamento e piscicoltura in forma cooperativa, generando proventi che, nel breve periodo integrino il reddito delle famiglie e coprano, almeno in parte, il fabbisogno alimentare.

Quando il tessuto comunitario si ricompone, primi risultati incoraggianti. Il progetto è iniziato poco più di un anno fa con uno staff di tre persone, le walking sisters, così chiamate, perché prime operatrici umanitarie che si siano mai presentate a Kanina a piedi, affrontando senza protezioni le tensioni e la profonda sfiducia della comunità nei confronti di agenti esterni. Grazie al lavoro di ricerca e alla progettazione partecipata, il programma ha ottenuto finanziamenti da varie agenzie internazionali e ha formato un gruppo di circa 40 operatori, tutti locali, che è riuscito a conquistare la fiducia della comunità e a mobilitare oltre 1000 tra uomini, donne, bambini e ragazze.

E i risultati più importanti li stanno sperimentando soprattutto i bambini.

A dicembre 2014, tra i 730 che frequentano il Centro di recupero scolastico si è registrato un calo del 12% di coloro che dichiarano di recarsi regolarmente in miniera. Seguendo questo trend, alla fine del programma nel 2017, dovrebbe essere raggiunto l’obiettivo di ridurre del 50% il numero di bambini minatori.

Nel suo complesso, la comunità mostra di aver trovato una sua “voce”, soprattutto per chiedere un enforcement più severo della legge sulla protezione dell’infanzia, per perseguire chi ne abusa senza dover pagare funzionari corrotti e accedere gratuitamente all’istruzione pubblica.

La comunità mostra di essere sulla buona strada anche per raggiungere in tre anni l’obiettivo di migliorare il livello di sicurezza alimentare. La cooperativa agricola costituta da 54 persone, in rappresentanza di 432 membri della comunità, ha cominciato a coltivare la terra, allevare animali e formare oltre 700 persone. Nonostante tensioni e scontri tra membri di etnie e lingue diverse, la cooperativa è riuscita a far collaborare persone che fino a un anno prima vivevano in condizioni di ostilità.

Alla fine del primo anno la produzione agricola ha garantito la copertura, in media, del 10% (1 mese) del fabbisogno alimentare annuale per 432 persone, e mostra ampi margini di miglioramento visto che già il 5% dei membri è riuscito a coprire più di 2 mesi.

Qualche – piccolo- segnale incoraggiante è arrivato anche dalla KCC a supporto delle attività della cooperativa, attraverso donazione di sementi, attrezzature, e formazione.

Molto incoraggiante è invece la risposta delle donne e delle ragazze che, in oltre 400, affermano di essere più consapevoli dei propri diritti e di aver cominciato ad esercitare la propria capacità decisionale nell’ambito della famiglia e della comunità. A questo fa riscontro il dato che indica un aumento del numero di bambine e ragazze iscritte a scuola, segno di un cambiamento concreto nell’attitudine discriminatoria delle famiglie.

Infine, il villaggio “ricostruito” non è più un fantasma, politici e imprenditori si sono dovuti esporre e hanno dovuto prendere pubblicamente impegni per arginare i fenomeni di sfruttamento contro bambini e donne, assicurando maggiore vigilanza e investimenti per migliorare le condizioni di vita complessive della comunità.

E forse comincia ad assomigliare un po’ al villaggio che può… raise a child.

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