Wall Street come Las Vegas?

Marcello Basili e Maurizio Franzini ricordano che in 10 anni la quotazione di Amazon è passata da 74 a 1414 dollari (13 febbraio) una performance da capogiro anche nell’epoca del Quantitative Easing. Basili e Franzini ricordano che Amazon non ha distribuito dividendi in 21 anni, che il rapporto Prezzo/utili (P/E) è stratosferico (oltre 230) e che gli utili sono bassissimi. Dopo aver illustrato il significato di questi dati si chiedono cosa spinga le quotazioni di Amazon e cosa sia diventato ai nostri giorni il mercato azionario.

Il 9 agosto 2007 la banca francese Paribas, una delle cosiddette Too Big To Fail, cioè quelle banche considerate strategiche per il sistema finanziario internazionale (per l’Italia lo è UniCredit), sospese la negoziazione di tre suoi fondi come conseguenza dei problemi che si stavano manifestando oltre Atlantico nel settore dei mutui subprime. Questo evento può considerarsi l’antefatto della crisi dei mutui subprime che portò al fallimento della Lehman & Brothers e all’inizio della Grande Recessione nel 2008.

Nel novembre 2008 la regina Elisabetta II durante un convegno alla London School of Economics formulò agli accademici riuniti l‘ormai celebre domanda: “Perché nessuno si è accorto di quello che stava accadendo?”

Nel giugno del 2009, un convegno presso la British Academy cercò di rispondere alla domanda della regina e Tim Besley e Peter Hennessy, entrambi Fellow della British Academy, riassunsero le conclusioni in una lettera di tre pagine che fu spedita a Buckingham Palace il 22 luglio 2009. Nella lettera si parlava di fattori che avevano portato a sottovalutare la situazione: bassa inflazione, bassa disoccupazione, basso livello dei prezzi dei beni, bassi tassi d’interesse e un lungo periodo di crescita economica, in una condizione di eccesso di risparmio (global saving glut). La generale sensazione che tutto stesse andando bene, affermarono i due economisti, aveva portato a negare l’esistenza dei gravi rischi (psychology of denial) che il sistema finanziario mondiale stava fronteggiando.

Quello che accadde allora e che ha condotto il mondo sulla soglia della distruzione dell’intero sistema finanziario, potrebbe accadere di nuovo? O meglio potrebbe accadere domani?

Per rispondere a queste semplici domande dobbiamo interrogarci su cosa sia oggi la borsa e come si determinino le aspettative di lungo periodo, cioè le aspettative da cui dipendono le scelte nei mercati finanziari e nell’economia.

J.M. Keynes nel capitolo 12 della Teoria Generale affermava che, a differenza degli anni eroici in cui le imprese erano possedute da coloro che le avevano fondate, la borsa era ormai popolata da agenti il cui scopo non era stabilire il valore atteso scontato dei profitti futuri di un investimento, ma piuttosto quello di anticipare il cambiamento della convenzione, cioè dell’aspettativa media degli operatori che scambiavano sul mercato. Questa aspettativa non era l’aspettativa matematica dei rendimenti di un progetto, ma l’opinione media su quella che ci si aspettava fosse l’opinione media del mercato (Beauty Contest) su quei rendimenti. In quelle condizioni, concludeva Keynes, lo sviluppo economico di un paese finiva per essere il sottoprodotto dell’attività di un casinò (su questi temi si veda  M. Basili  e C. Zappia , “Ellsberg’s decision rules and Keynes’s long-terme expectations”,  WP University of Siena 2018)

Nel mercato finanziario dei nostri giorni, i processi che osservava J.M. Keynes negli anni ‘30 del secolo scorso sono giunti al loro estremo sviluppo. Come ha ricordato recentemente Paul Krugman, il mercato finanziario non è l’economia, ovvero non c’è più nessun legame tra la borsa e l’economia reale. Alle stesse conclusioni del resto era già giunto Robert Shiller dopo il crash del 1987 che, secondo una ricerca da lui condotta presso gli operatori, era da imputare semplicemente a ondate di panico e pessimismo che si auto-avverarono. Prima ancora, Paul Samuelson, a proposito delle capacità anticipatrici delle crisi nell’economia reale della caduta dei corsi azionari, aveva ricordato come “il mercato finanziario avesse predetto nove delle successive cinque recessioni”. Ovvero non esiste nessun rapporto di causa ed effetto tra caduta del valore delle azioni e crisi nell’economia reale anche se, come ricordava Edmund Phelps nelle sue lezioni alla Columbia University, tutte le crisi economiche si originano nei mercati finanziari.

Quindi nella borsa il prezzo di un titolo non esprime più il valore atteso (aspettativa matematica) dei profitti futuri, né ha ormai più nessun legame con i cosiddetti fondamentali; piuttosto esso ha a che fare, nelle fasi positive, con l’aspettativa che il prezzo di quel titolo continuerà a salire, cioè con la convenzione del momento.

Prendiamo come esempio la quotazione di Amazon sul Nasdaq di New York. Il 9 febbraio il prezzo di un’azione Amazon era di 1339,60 dollari, ed il suo rapporto con i guadagni per azione (Price-to-Earnings ratio, P/E) era di 218,11. Il che per intenderci è come dire che il 9 febbraio gli investitori stavano pagando 218 dollari per riceverne 1 di guadagni.

Nello stesso giorno l’indice Standard&Poor 500 faceva segnare un P/E ratio di 24,46. Durante la bolla dei titoli tecnologici negli anni 90 del secolo scorso l’indice Standard & Poor aveva un P/E ratio vicino a 40. Il suo valore mediano, per decennio, a partire dal 1900, è riportato nella tabella che segue:

Si nota, dunque, una tendenza alla crescita degli ultimi due decenni e si comprende anche meglio l’enormità del P/E di Amazon.

Si può anche guardare a un altro indice, il PEG ratio (P/E:Growth Rate), cioè il P/E ponderato per la crescita dell’impresa, che consente di comparare imprese con diversi tassi di crescita. Quello di Amazon è pari a 5,20 – con un EBITDA medio nei cinque anni di 41,80 (9 Febbraio 2018) – ed è, di nuovo, molto alto: Apple ha un PEG di 1,21, Microsoft di 1,92, Google 1,04 e quello di Facebook vale 0,90. Tuttavia se, come alcuni analisti suggeriscono, volessimo utilizzare un indice che consenta di capire se in un periodo di crescita continua delle quotazioni un’azione sia sopravvalutata, potremmo considerare il rapporto tra il PEG e i dividendi distribuiti, perché alla fine sono questi che dovrebbero determinare l’appetibilità di un investimento. Scopriremmo, allora, che Amazon non ha mai distribuito dividendi.

Se è normale che una start-up non paghi dividendi, non è affatto normale che non li paghi una società come Amazon, fondata da Jeffrey Bezos nel 1994. Analizzando meglio i dati di Amazon si osserva che il Cash Flow operativo è passato da 6,84 mld di dollari nel 2014 a 18,43 mld di dollari nel 2017, con un reddito netto di 3,03 mld (2017), in flessione rispetto ai 3,37 mld del 2016 (era 231 mln nel 2014). E va messo in evidenza che, curiosamente per una company che si accredita come il negozio del mondo, la maggior parte degli utili di Amazon non proviene dall’attività di retail, ma dai servizi di cloud.

La risposta di Amazon è che la società non distribuisce dividendi perché è impegnata in acquisizioni strategiche. Forse la risposta più semplice è che per una società quotata 1.339 dollari (ad azione) distribuire un dividendo anche soltanto dell’1% significherebbe sborsare circa 14$ ad azione, complessivamente più o meno 7 mld di dollari, cioè più del doppio dell’utile netto. Ora non dovrebbe essere difficile rendersi conto che investire in un’attività rischiosa per avere l’1% lordo di profitto dopo un anno, anche in tempi come questi di tassi d’interesse negativi o prossimi a zero, non è una grande idea, soprattutto quando un titolo di stato (T Bill) a un anno ha un rendimento dell’1,89%. In breve, Amazon, dopo 24 anni, non è in grado di pagare un dividendo significativo e quindi…meglio non pagare nulla.

Come fare a rendere appetibile una società che non paga dividendi? Qui entra in gioco la “genialità” di Jeffrey Bezos, nato il 12 gennaio 1964, laureato in ingegneria elettronica a Princeton. Bezos, dopo la laurea lavora come analista a Wall Street, diventando a 26 anni il più giovane vice-presidente del D.E. Shaw Group, una società che si occupa di investimenti e tecnologia, con oltre 46 mld di dollari investiti.

Jeffery Bezos sa benissimo che agli azionisti non interessano soltanto i dividendi, ma anche i guadagni in conto capitale ed ecco allora la sua strategia: continuare a far crescere il valore nominale delle azioni di Amazon, con annunci continui di acquisizioni e grandi proiezioni verso il futuro. A questa strategia ha piegato la gestione della sua compagnia. Come abbiamo già ricordato sul Menabò suo stipendio è di circa 80mila dollari l’anno (tanto guadagna con i capital gain), il salario medio pagato ai lavoratori è attorno ai 12$ l’ora, e tutti i guadagni sono impiegati in nuove acquisizioni, come ad esempio quella di Whole Foods della scorsa primavera costata 13 mld di dollari. Quindi contenere i costi, accreditarsi come un Highlander, cioè come l’unica compagnia che sopravviverà nel settore delle vendite on-line (oggi Amazon cattura il 50% del totale di acquisti fatti on-line, pari al 10%, del totale della spesa retail) e integrare il business virtuale con altre attività, come catene di negozi “brick and mortar”, a cominciare dalla librerie Amazon aperte a Seattle, Portland e San Diego.

La strategia di Bezos è quindi chiara, continuare a investire per accreditare Amazon come una società globale e multidivisionale che non potrà che realizzare un giorno profitti strabilianti, giacchè ne resterà solo una! In breve continuare a determinare, influenzare e governare le aspettative di crescita di lungo periodo del valore nominale delle sue azioni. Oggi tutto questo non solo è possibile, ma è relativamente facile per un gigante come Amazon attraverso la gestione delle cascate informative e dei social network, favorendo comportamenti di gregge (herd behaviour), in un mercato in cui in media si scambiano volumi di azioni che rappresentano percentuali a una cifra dei circa 650 mld di dollari della sua capitalizzazione.

Ma cosa accadrà quando i tassi d’interesse cominceranno a crescere, quando l’enorme quantità di denaro circolante immessa nel sistema finanziario internazionale dal Quantitative easing di Stati Uniti, Giappone, UE UK – valutata da Merrill Lynch in 12.300 mld di dollari di moneta stampata e circa 10.000 mld di global bonds con rendimenti negativi a cui aggiungere 654 riduzioni dei tassi d’interesse dal fallimento di Lehman Brothers – che si è riversata su ogni forma di asset a prescindere dalla rischiosità, determinando quotazioni storiche, produrrà inevitabilmente un aggiustamento verso il basso dei prezzi? Quando, cioè, gli investitori torneranno a guardare ai profitti distribuiti (i dividendi) e al tasso di rendimento delle attività?

Quel giorno, un qualsiasi giorno non lontano, quando il mercato non sarà più in grado di autosostenere questo generalizzato ottimismo, neanche il potente Jeffrey Bezos potrà più contenere le vendite massicce delle azioni della sua compagnia, che non distribuisce profitti, vendendo la promessa di un futuro radioso. Le aspettative di lungo periodo si capovolgeranno e si materializzerà una distruttiva crisi nel mercato finanziario che potrebbe trasmettersi all’economia reale. A quell’economia reale statunitense, i cui fondamentali non sono poi così diversi da quelli che, secondo Tim Besley e Peter Hennessy, condussero alla psicologia della negazione dei primi anni 2000.

Concludendo Wall Street oggi non è più neanche il casinò di cui parlava J.M. Keynes. In un casinò possiamo calcolare la speranza matematica di una lotteria o di un qualsiasi gioco equo. Oggi Wall Street vende, troppo spesso, scommesse su eventi incerti e potenzialmente catastrofici, cioè eventi su cui le probabilità sono ambigue e molto piccole. Per essere più espliciti, è come se stessimo scommettendo contro la probabilità di un terremoto in un certo luogo a una certa ora. Purtroppo, come sappiamo, non solo non siamo in grado di valutare correttamente le piccole probabilità, ma sembriamo aver dimenticato, in questa ubriacatura collettiva, che nessuno è in grado di predire i terremoti!

Schede e storico autori