Visioni e misure della disuguaglianza. La lunga storia dell’1% da Marx a Piketty

Giacomo Gabbuti riflette sul nesso tra visione e misura della disuguaglianza, prendendo spunto da un articolo recente di Daniel Zamora, pubblicato sulla edizione italiana della rivista Jacobin. Adottando una prospettiva storica, Gabbuti sostiene che è importante coniugare l’attenzione per gli aspetti quantitativi della disuguaglianza con una visione critica del nesso tra questo fenomeno e il capitalismo, evitando di concepire la disuguaglianza come un semplice fenomeno di carattere monetario.

Come ben sanno i lettori di Eticaeconomia, di disuguaglianza si parla sempre più spesso. Questo avviene non solo nel dibattito e nell’azione politica, dove l’eco di Occupy Wall Street, e l’uso di formule come “We are the 99%”, in riferimento al “top 1% share” studiato da Piketty e Atkinson fra gli altri, hanno avuto un effetto “moltiplicatore” immenso (in Italia, una iniziativa recente è quella del Forum Disuguaglianze Diversità), ma anche sul piano della ricostruzione storica.

Proprio da Occupy e da Piketty prende spunto una recente riflessione di Daniel Zamora, pubblicata dal magazine americano Jacobin, e subito tradotta dalla rivista sorella italiana, lanciata in questi giorni. Sociologo, post-doc all’università Libera di Bruxelles e in quella di Cambridge, Zamora – che al momento lavora a una storia intellettuale del reddito minimo – ripercorre criticamente l’evoluzione del pensiero progressista sul tema della disuguaglianza, partendo dal modo in cui ne discuteva il Capitale “originale”, quello di Marx, per soffermarsi poi sulle differenze tra il modo di considerare la disuguaglianza da parte dei “classici” pensatori progressisti europei e americani, da Marx a Polanyi, e la visione meramente monetaria cui si riduce talvolta l’odierna discussione in merito. Se infatti la “moda” della disuguaglianza è indubbiamente un fenomeno positivo, rispetto all’oblio in cui, come denunciava in un celebre articolo Tony Atkinson, essa era caduta, secondo Zamora:

A uno sguardo più attento (…) non è del tutto chiaro quanto questa attenzione per la disuguaglianza (e specialmente per la disuguaglianza di reddito) assomigli realmente alla teoria dello stesso Marx, o alle idee che hanno dominato i dibattiti socio-politici nei decenni che hanno seguito la Seconda Guerra Mondiale. In effetti, si potrebbe persino sostenere che la nostra attenzione attuale per le disuguaglianze di reddito e ricchezza, pur essendo centrale per qualsiasi programma progressista, finisca tuttavia per restar priva di alcuni degli aspetti più importanti della critica ottocentesca del capitalismo. In quell’epoca, “disuguaglianza economica” era un termine vago, al più secondario. Difatti, la “monetizzazione” della disuguaglianza è un modo in realtà relativamente recente di vedere il mondo – e, al di là dei suoi indubbi punti di forza, è anche un punto di vista che, come ha notato lo storico dell’Università di Cambridge Pedro Ramos Pinto, ha considerevolmente “ristretto” il modo in cui pensiamo alla giustizia sociale.

In sostanza, argomenta Zamora, la discussione odierna sulla disuguaglianza economica riflette non soltanto l’appiattimento sugli aspetti monetari (e quindi una mono-dimensionalità, rispetto alle molte disuguaglianze presenti nella società); ma la rinuncia a una critica radicale al mercato, ai rapporti di produzione da cui le disuguaglianze sono generate, accettando che l’unico terreno di contrasto ad esse sia la redistribuzione “a valle”. Riflessioni come quella di Zamora sono necessarie, e seguono e crescono all’interno di un vero e proprio campo di studi interdisciplinare che abbraccia la storia della statistica, la sociologia della scienza o il pensiero economico, e che sta emergendo soprattutto in ambito anglosassone. Studiosi di formazione diversa si domandano sempre più spesso in che modo accademici e politici abbiano preso a interessarsi della disuguaglianza, come questa sia stata concettualizzata, in che misura le idee di società di questi attori siano state incorporate dentro la misurazione dei fenomeni e da ultimo, come la misurazione e la sua diffusione abbiano a loro volta influito sul modo di vedere la società. Visioni spesso diverse ma sempre più intrecciate in incontri accademici – ultimo in ordine di tempo il workshop organizzato dall’Istituto Storico Germanico di Londra, mentre da noi l’Associazione Italiana per la Storia del Pensiero Economico ha scelto di dedicare a questi temi la sua prossima conferenza.

Nell’ambito di queste ricerche, per esempio, sociologi come Daniel Hirschman (Brown University) si sono interessati a ricostruire come sia avvenuta la “riscoperta” dei ricchi da parte degli economisti negli ultimi decenni. Come suggerisce (forse involontariamente) il titolo di Hirschman, quella avvenuta negli ultimi decenni è una riscoperta; non solo perché i ricchi erano già lì da prima che li notassimo, ma la scoperta della distribuzione disuguale della ricchezza è già avvenuta più volte in passato. Parlando dell’epoca moderna, per esempio, gli storici economici Guido Alfani e Roberta Frigeni, hanno analizzato la lenta ma costante emersione, e al contempo uno slittamento semantico nella direzione di un contenuto economico, dei concetti di uguaglianza/disuguaglianza. Secondo Alfani e Frigeni, è possibile immaginare una relazione causale tra l’emergere di una attenzione alla disuguaglianza, e la crescita della disuguaglianza stessa nell’Europa che usciva dal Medioevo e si avviava verso la modernità, rilevata dagli studi dello stesso Alfani e di altri. Similarmente, per Hirschman, l’aumento dei redditi più elevati, inizialmente non percepito dagli esperti, che lavoravano su fonti, come le indagini campionarie, pensate per guardare più ai poveri e al “99%” che ai piani alti della distribuzione, ha alla fine portato al riemergere del discorso sulla disuguaglianza tra gli economisti.

Non sempre il rapporto di causalità tra crescita della disuguaglianza economica e la sua centralità nel discorso economico sembra essere stato così lineare, come suggerisce la storia del nostro paese. È infatti noto come proprio nell’Italia di fine Ottocento – non tra le nazioni più diseguali a quel tempo e con un livello della disuguaglianza in diminuzione, secondo le stime di un gruppo di ricerca coordinato da Giovanni Vecchi – emerge lo studio moderno della disuguaglianza grazie all’opera di numerosi scienziati sociali italiani a cominciare da Vilfredo Pareto. Ma se il contributo di Pareto (fondamentale peraltro nella stima del top 1%), che un’autorità come Branko Milanovic definisce “il primo economista ad essersi seriamente interessato all’analisi empirica della disuguaglianza personale”, è forse noto solo agli specialisti, il più noto indice di disuguaglianza porta il nome pesante di Corrado Gini.

Il ruolo giocato da scienziati sociali italiani, nel porre le basi dell’analisi quantitativa della disuguaglianza, rende problematica la visione lineare del rapporto tra l’emergere delle disuguaglianze e la loro percezione. Come cerco di ricostruire in un primo lavoro di sintesi sulla ricerca empirica portata avanti in Italia tra l’ultimo decennio dell’800 e i due decenni di dittatura fascista, il filone di ricerca che coinvolse Pareto, Gini, ma anche altri “pezzi da novanta” come Rodolfo Benini e Costantino Bresciani-Turroni, assieme a dimenticati autori minori (Silvio Orlandi, Emanuele Porru), porta ad un fondamentale cambio di prospettiva, e in sostanza ad una depoliticizzazione, rispetto alla riflessione degli economisti classici, legati alla distribuzione funzionale del reddito tra i fattori della produzione o tra le classi sociali, forse non del tutto involontario, vista la fede nazionalista di molti di questi autori, accomunati da una visione tutto sommato positiva della disuguaglianza, pericolosa per le sue conseguenze socio-politiche, ma necessaria all’accumulazione del risparmio e dunque all’industrializzazione. Come scrive Zamora,

Marx pensava ancora alla disuguaglianza in termini di classi prodotte dal capitalismo, anziché in termini individuali. Per Marx, sembrerebbe, il problema non era esattamente come il reddito venisse distribuito tra le persone, ma come il capitalismo stesso tendesse intrinsecamente all’impoverimento dei lavoratori ed alla creazione di una «popolazione relativamente in eccesso di manodopera» (esercito industriale di riserva). In questo senso, come ha osservato Samuel Moyn, è piuttosto chiaro che Marx non abbracciò mai alcun ideale di «uguaglianza distributiva», perché all’interno del capitalismo, questa sarebbe stata sempre «ostaggio del dominio di classe». Piuttosto, Marx cercò di immaginare una società liberata dal mercato.

Come ebbe a scrivere già nel 1926 lo statistico russo Procopovitch, inoltre, diversi connazionali di Marx avevano da tempo iniziato a riprodurre le tabulazioni prodotte dall’ufficio statistico prussiano, mostrando il numero crescente di ricchi che, in quel Paese, figuravano negli scaglioni più alti delle imposte su redditi e ricchezza. Per Procopovitch, Pareto fornisce sì il primo contributo ‘strettamente scientifico’ al dibattito, ma allo stesso tempo, riduceva “il complesso problema della distribuzione del reddito nazionale […] alla questione assai più semplice e meno importante della accentuazione o attenuamento della disuguaglianza dei redditi”. Come ha suggerito Terenzio Maccabelli, scomparso di recente, gli studi di Pareto e il tentativo di affermare la sostanziale immutabilità della distribuzione intendevano stroncare un dibattito – quello sulla crescente disuguaglianza – che allora gli sembrava fornire argomenti alla critica socialista sulle inevitabili tendenze monopolistiche ed accentratrici del capitalismo. Ma se queste tendenze erano, nonostante gli sforzi di Pareto, difficilmente equivocabili in Germania e nel Regno Unito, gli stessi statistici italiani, che nei decenni successivi alimentarono quasi in solitaria una ricchissima letteratura metodologica sugli indicatori di disuguaglianza, riconoscevano come l’Italia fosse un paese poco diseguale, e denunciavano anzi come l’inflazione avesse ulteriormente ridotto la concentrazione dei redditi, con effetti nefasti sulle classi medie. In ogni caso, con l’apertura del dibattito sul corporativismo, alcuni di questi autori (su tutti Rodolfo Benini, di cui è occupato ancora Maccabelli) ebbero l’occasione di porre, seppur con poche conseguenze, la disuguaglianza al centro della riflessione economica. Come scrive Zamora, nelle democrazie più avanzate questa critica raggiunse un livello più radicale:

Il discredito nei confronti del liberalismo economico ottocentesco divenne così profondo che l’idea dell’uguaglianza venne inclusa all’interno del più ampio contesto di un mondo successivo alla fine del laissez-faire. E dunque, quelle istituzioni che costituirono le basi del nostro moderno stato sociale nei fatti si impegnarono, fin dal loro stesso avvio, a limitare la sfera del mercato, al fine di produrre una società più egalitaria. All’interno di questo contesto, per citare Steven Fraser, quello che all’epoca era concepito come «il problema del lavoro» significava «non solo modificare permanentemente le relazioni tra lavoro e capitale, ma nel contempo eliminare l’immoralità dello sfruttamento, la disuguaglianza e l’antagonismo sociale aizzati dalla grande concentrazione di ricchezza, la minaccia alla politica democratica rappresentata dal potere arrogante e dagli sporchi soldi delle aziende, e persino le cause delle guerre imperialiste nel mondo».

Concludendo queste riflessioni, verrebbe da dire che la disuguaglianza – un po’ come la disoccupazione, oggetto degli studi pioneristici di Christian Topalov, – è sempre stata lì; ma per vederla nel modo in cui la vediamo oggi, sono dovuti cambiare i rapporti sociali. Con l’estendersi del mercato e delle sue logiche in sfere sempre più ampie della società e della vita, gli indici sintetici proposti da Pareto e poi da Gini finiscono sempre più per darci un’idea sul benessere di una società. Come ci ricorda Rita Cantalino sempre su Jacobin, però, questo è solo uno dei modi di farlo: un altro, molto rawlsiano, sarebbe quello di “misurare lo stato di salute di una catena a partire dal suo anello più debole”, e così quello di una società da quello che facciamo sopportare, o imponiamo, ogni giorno, ai più deboli tra noi. Se è bene che economisti e scienziati sociali progressisti pongano l’accento sull’insopportabile dimensione delle disuguaglianze economiche che affliggono le nostre società, è bene ricordarci che dovremmo fare anche molto di più. L’articolo di Zamora, in questo senso, è un ottimo inizio.

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