Verso uno strumento europeo sul salario minimo

Emanuele Menegatti analizza le principali azioni che la proposta di Direttiva si propone di mettere in campo, per garantire adeguatezza dei salari minimi legali e supporto della contrattazione collettiva. Secondo Menegatti questi interventi, per quanto desiderabili dal punto di vista sociale ed economico soprattutto nell’attuale crisi da pandemia, presentano due rilevanti criticità: la limitata competenza dell’Unione in tema di retribuzione e la netta opposizione di alcune parti sociali, specialmente nei paesi del nord Europa.

L’idea di uno strumento Europeo di coordinamento delle politiche salariali è già da tempo all’attenzione del dibattito scientifico e politico. Diversi sono gli aspetti socioeconomici coinvolti: in prima battuta, il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro dei cittadini europei, nell’ambito di un’economia sociale di mercato, dove il wage dumping dovrebbe essere idealmente destinato a lasciare spazio ad una competizione basata su innovazione e produttività; senza dimenticare le esigenze proprie dell’unione monetaria e, più in generale, di quella economica.

Proprio in questo ultimo contesto, le istituzioni europee si sono spesso ingerite delle politiche salariali nazionali. E lo hanno fatto soprattutto nell’ambito del semestre europeo, predicando moderazione salariale. Ora tornano a farlo, ma in modo radicalmente diverso dal passato, proponendo, attraverso uno strumento legislativo, una convergenza verso l’alto dei salari. Ecco allora una proposta di direttiva che si sviluppa intorno a quattro azioni principali: (a) l’introduzione di chiari e stabili criteri per fissare, aggiornare e valutare l’adeguatezza della misura del salario minimo legale; (b) supporto alla contrattazione collettiva, soprattutto quella di categoria e intercategoriale; (c) inclusività dei salari minimi, garantita da un ampio campo di applicazione e da una limitazione delle variazioni e deduzioni; (d) effettività di tutela e monitoraggio.

Dati alla mano e con sguardo rivolto alle vicende che hanno portato alla ribalta il fenomeno della competizione salariale nel mercato unico (vedi i casi Laval e Viking), si tratta di un intervento desiderabile sotto molti aspetti. La povertà lavorativa è fenomeno che si sta diffondendo sempre di più nell’Unione, specie dopo la grande recessione del 2007-2103, ed ora di nuovo nella crisi senza precedenti generata dalla pandemia. E’ vero che la trasformazione di un salario minimo inadeguato in povertà lavorativa dipende da numerosi fattori, come ad esempio un numero insufficiente di ore lavorate, il numero di familiari a carico, l’indisponibilità di altre fonti di reddito; è anche vero, però, che agendo sui salari minimi si possono comunque ottenere effetti positivi sulla povertà lavorativa, con il non trascurabile vantaggio di non gravare ulteriormente sulle casse pubbliche, come invece richiedono le misure di assistenza sociale.

Sul versante della contrattazione collettiva salariale si sconta un trend di lungo periodo che ha portato ad una consistente erosione della copertura contrattuale in molti paesi dell’Unione, accompagnata spesso da un decentramento disorganizzato promosso dal legislatore. Ed ecco allora che, partendo dal dato empiricamente verificato del rapporto di proporzionalità diretta tra copertura della contrattazione collettiva multi-employer e standard retributivi, la Commissione si ripropone di agire anche sulla prima variabile, allo scopo, appunto, di migliorare l’adeguatezza dei salari minimi.

Se l’opportunità della Direttiva proposta dalla Commissione pare dunque indiscutibile, lo stesso non può dirsi per la competenza dell’Unione ad intervenire in materia salariale. Come noto, in ambito di diritto del lavoro e previdenza sociale il legislatore europeo ha ampi margini di intervento, ma con alcune significative eccezioni. Una di queste eccezioni riguarda proprio l’ambito del quale stiamo discutendo, le retribuzioni (art. 153.5 TFUE).

Più precisamente, come ha chiarito la Corte di Giustizia (in particolare nei casi Del Cerro Alonso C-307/05, Impact C-268/06), l’esclusione di competenza non coinvolge ogni sorta di collegamento con le retribuzioni. E’ consentito all’unione occuparsi indirettamente della materia retributiva, imponendo ad esempio parità di trattamento a fronte dei vari fattori che possono generare disparità (sesso, nazionalità, tipologia di impiego, ecc…). Quello che non è consentito è, invece, un’ingerenza diretta del diritto UE nella determinazione delle retribuzioni nei paesi membri, ad esempio cercando di uniformarne il livello dei diversi elementi costitutivi o istituendo un salario minimo europeo.

Niente di tutto ciò rientra nelle intenzioni della proposta legislativa della Commissione, stando a quanto dalla stessa affermato ripetutamente nel corso delle consultazioni ed ora anche nel preambolo della Direttiva. Affermazioni, però, non meglio circostanziate, tanto da suonare apodittiche, e che non hanno convinto il fronte datoriale delle parti sociali europee, ma nemmeno i paesi del nord Europa. Questi ultimi, in particolare, continuano ad appellarsi allo scudo dell’art. 153.5 TFUE, preoccupati per i possibili effetti negativi che una qualche ingerenza europea sulle retribuzioni potrebbe avere sul loro peculiare sistema volontaristico di relazioni industriali, e qui sull’autonomia delle parti sociali e della contrattazione collettiva.

Certo è che la Commissione, pur cercando di sminuirlo, non ignora il problema della potenziale mancanza di una base legale per un intervento “binding” in tema di salari. Così, nella sua proposta si muove in punta di piedi, cercando sempre un delicato equilibrio tra: da un lato, l’obiettivo di garantire salari adeguati ai lavoratori europei, che inevitabilmente portar con sé una qualche interferenza nelle politiche salariali nazionali; dall’altro lato, la limitata competenza dell’UE e le preoccupazioni espresse dai paesi membri ed alcune parti sociali.

Il risultato è uno strumento complicato, che propone un assetto a geometria variabile, dove i ventuno paesi che possiedono un meccanismo legale di fissazione dei salari minimi sono destinatari di una nutrita schiera di obblighi, solo in parte destinati anche ai restanti sei paesi, dove i salari sono invece fissati soltanto tramite contrattazione collettiva. Uno strumento che segue, inoltre, il filo conduttore della flessibilità: a più riprese, esplicitamente ma anche implicitamente, viene ribadita la necessità di rispettare le prassi e le scelte di politica salariale nazionali; il tutto si traduce in disposizioni dal carattere vago, rispetto alle quali è difficile immaginare un qualche valore precettivo.

Più nel dettaglio, lasciando da parte le disposizioni “orizzontali” in tema di tutela dei diritti, appalti e monitoraggio (sulle quali si veda l’articolo di M. Faioli in questo stesso numero del Menabò), la proposta di Direttiva si sviluppa su due nuclei principali di obblighi per i paesi membri, che corrispondono alle azioni messe in campo dalla direttiva sopra identificate ai punti (a) e (b). Vale a dire: adeguatezza dei minimi legali di salario e supporto alla contrattazione collettiva.

Sul primo aspetto, i soli paesi membri in cui esiste un salario minimo legale sono chiamati a predeterminare, in collaborazione con le parti sociali e secondo le proprie prassi nazionali, criteri stabili e chiari sui quali ponderare l’aggiornamento dei minimi, che includano almeno i quattro indicati nella direttiva al paragrafo 2 dell’art. 5. Vale a dire: il potere d’acquisto dei salari minimi legali; il livello generale dei salari lordi e la loro distribuzione; il tasso di crescita dei salari lordi; l’andamento della produttività del lavoro. Si tratta di indicatori “classici”, in buona parte già considerati dai paesi membri secondo varie combinazioni, che se non accompagnati, però, da un benchmark preciso, di per sé dicono poco o nulla sui livelli salariali che i paesi membri devono garantire.

Ed infatti la proposta aggiunge, al successivo paragrafo 3, l’obbligo per i paesi membri di introdurre anche “valori di riferimento indicativi”, che devono guidare la loro autovalutazione – ma sicuramente anche quella delle istituzioni UE in sede di monitoraggio sull’applicazione della Direttiva – circa l’adeguatezza dei salari minimi stabiliti. Non però un valore di riferimento qualunque, ma quello ricavato sui criteri “comunemente utilizzati a livello internazionale” per valutare l’“adeguatezza dei salari minimi legali rispetto al livello generale dei salari lordi”. Il richiamo è evidentemente all’indice di Kaitz, con cui si mette in rapporto il salario minimo con quello nazionale mediano (o anche medio), e da qui, attraverso il considerando n. 21 della proposta di Direttiva, al parametro che rappresenta la soglia ormai universalmente accettata del rischio di povertà lavorativa: 60 % del salario lordo mediano e 50 % del salario lordo medio.

Il valore giuridico da attribuire a tale indicatore assume ovviamente grande rilevanza nell’ottica degli effetti che la Direttiva potrà presumibilmente spiegare. Sembrerebbe ovvio, ad un’interpretazione letterale delle disposizioni, che lo stesso rappresenti soltanto un consiglio per i paesi membri. Tuttavia, se alla stessa si vorrà conferire una qualche efficacia rispetto agli scopi che si prefigge, non pare inverosimile immaginare che gli obblighi per i paesi membri possano essere estesi al rispetto del menzionato indicatore, attraverso una modifica del testo della direttiva nel corso del percorso legislativo, o anche in via interpretativa.

Sotto l’altro versante, quello del supporto alla contrattazione collettiva, vengono all’art. 4 demandate ai paesi membri, in questo caso tutti, l’adozione di misure, sempre in consultazione con le parti sociali, che includano almeno: “la promozione, lo sviluppo ed il rafforzamento della capacità delle parti sociali di partecipare alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari” non di qualsiasi livello, ma circoscritta a quella di “livello settoriale o intersettoriale”; l’incoraggiamento di “negoziazioni costruttive, significative e informate sui salari tra le parti sociali”.

Queste generiche obbligazioni diventano un attimo più pregnanti al successivo paragrafo 2 per quei paesi – allo stato oltre la metà degli stati membri – dove la copertura della contrattazione collettiva è inferiore al 70%. A questi è richiesto di elaborare – per legge, previa consultazione delle parti sociali o tramite accordo triangolare – un non meglio precisato action plan, attraverso cui fornire un quadro di promozione per la contrattazione collettiva.

Si possono immaginare in questo contesto iniziative volte a creare le condizioni che agevolino lo sviluppo e la diffusione di un’autonoma contrattazione d multi-employer: dal training, al rafforzamento dei diritti sindacali nei posti di lavoro, fino ad incentivi o benefici alle imprese collegati all’applicazione dei contratti collettivi. Nei paesi dove, poi, una contrattazione collettiva di categoria esiste già, al fine di incrementarne la copertura, si potrebbero pensare benefici/incentivi per i datori di lavoro collegati all’adesione ad un’associazione di categoria, considerato che un po’ ovunque, di norma, l’adesione all’organizzazione datoriale stipulante porta con sé l’applicazione del contratto collettivo a lavoratori sindacalizzati e non.

Quello che la direttiva invece non si spinge ad imporre è un intervento eteronomo di sostegno diretto della contrattazione collettiva, che potrebbe realizzarsi, ad esempio, imponendo obblighi a negoziare e/o meccanismi di estensione della contrattazione categoria o intercategoriale. Nulla toglie ovviamente che una simile tipologia di interventi passi attraverso una libera scelta dei paesi membri, in accordo con le parti sociali.

Dal sistema degli obblighi delineati, ribadito che esiste un rapporto di proporzionalità diretta tra copertura della contrattazione collettiva e livello dei minimi salariali, è lecito attendersi un impatto sui paesi membri crescente tanto è minore il dato attuale della copertura. Si andrà presumibilmente dalla situazione dei paesi senza un salario minimo legale, ma dotati di alta copertura della contrattazione collettiva, tra i quali anche l’Italia, ai quali saranno richiesti interventi del tutto marginali; a quella dei paesi dove il livello di copertura della contrattazione collettiva è molto basso, al pari di quello dei salari minimi legali, tipicamente quelli dell’Europa centro-orientale, ai quali saranno richiesti interventi invece consistenti.

Come evidenziato, molta dell’efficacia in questo senso della direttiva sarà, tuttavia, condizionata al valore che si finirà per attribuire al benchmark rappresentato dalla soglia del rischio di povertà (50/60% del salario medio/mediano). Senza dimenticare, però, che quanto maggiore sarà il grado di precettività ed efficacia dello strumento legislativo nella sua versione finale, tanto più alto sarà il rischio di incappare nel vuoto di competenza di cui all’art. 153.5 TFUE. Insomma, un’iniziativa, questa sul salario minimo europeo, che pare destinata ad incappare in un circolo vizioso dal quale si prevede non sarà semplice uscire.

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