Verso una prosperità armata? Riflessioni sull’economia della guerra

Elisabetta Magnani richiama la nostra attenzione sull’evoluzione delle spese militari e sul ruolo della produzione e vendita di armi nell’attuale fase di sviluppo delle economie avanzate. Dopo aver illustrato alcuni dati sull’ampiezza di questo settore nei maggiori paesi nonché sull’entità e le principali destinazioni delle sue esportazioni, Magnani riflette sul ruolo della spesa militare nel contrastare i problemi di domanda aggregata mettendo in rilievo anche l’importanza dell’uso privato di armi, sostenuto da una domanda di sicurezza che in realtà produce insicurezza.

Poche settimane fa centinaia di migliaia di dimostranti hanno marciato nelle strade di oltre 800 diverse località negli Stati Uniti e in ben 37 paesi nel mondo per protestare contro la vendita libera di armi. Questi giovani, spesso loro stessi sopravvissuti a massacri perpetrati in scuole e luoghi pubblici negli ultimi anni, propongono interventi di assoluto buon senso. Tra di essi vi sono: l’abolizione della vendita di armi semi-automatiche (quelle per lo più usate per scopi militari) e degli accessori che trasformano armi non semi-automatiche in armi in grado di sparare ad alta velocità; l’introduzione di una banca dati sulle vendite e gli acquirenti di tali armi; l’innalzamento dell’età minima per l’acquisto di armi da 18 a 21 anni. L’interlocutore recalcitrante di queste proposte è il Presidente Trump, che dichiara di essere schierato a favore della libertà ma che è anche un difensore accanito dell’industria che vende armi e servizi militari. La marcia contro l’uso privato delle armi fornisce lo spunto per tracciare un quadro generale dell’importanza e del ruolo di questa industria a livello mondiale nonché del contributo che alla sua prosperità dà, appunto, l’uso civile delle armi.

Il nostro punto di partenza è la spesa militare che, però, non è facile da definire. La principale complicazione è rappresentata proprio dal fatto che il confine tra uso militare e uso civile delle armi è da tempo meno netto, come ben evidenzia la serie di massacri perpetrati da civili contro civili – e ciò avviene per lo più negli Stati Uniti, dove appunto il diritto all’ autodifesa è sancito dalla Costituzione. Secondo la definizione manualistica, la spesa militare è diversa a seconda che si adotti un criterio d’origine istituzionale oppure un criterio funzionale. Importante è anche chiarire se la spesa includa i costi indiretti e intangibili (ad esempio quelli inerenti alla conoscenza scientifica collegata alla produzione di “beni” militari). A causa di queste difficoltà, per confrontare le spese militari a livello internazionale occorre prima standardizzare i dati nazionali; e lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) fa proprio questo. La sua banca dati sulla spesa militare è un riferimento indispensabile per queste analisi.

Secondo il SIPRI, la vendita di armi e servizi militari da parte delle imprese leader in questo settore a livello globale (il gruppo delle top 100 nella classifica SIPRI) ha raggiunto i 375 miliardi di dollari nel 2016, con una crescita di quasi il 2 percento rispetto all’anno precedente e del 38 percento rispetto al 2002. Le imprese americane – tra le quali vi è la Lockheed Martin, nata nel 1995 dalla fusione di due giganti del settore aerospaziale e del settore della tecnologia avanzata per la difesa, che oggi conta ben 97000 dipendenti – dominano all’interno del gruppo delle top 100 con più di 217 miliardi di dollari di ricavi nel 2016 – in crescita del 4% rispetto al 2015. Buona parte di questi ricavi delle imprese USA derivano dalle esportazioni: secondo il SIPRI, nel periodo 2013-2017 esse ammontavano al 34 percento del totale, con un incremento del 25 percento rispetto al periodo 2008-2012. I paesi destinatari di queste esportazioni sono molti, ben 98, ma il 49 percento dell’export USA è diretto al Medio Oriente. In realtà, verso quest’area instabile del mondo si indirizzano in modo crescente le esportazioni di armi di molti paesi; ad esempio, quelle tedesche sono aumentate del 109 percento tra i due periodi indicati in precedenza. E’ anche da notare che in Asia le armi importate si aggiungono a quelle prodotte localmente che, come mostra chiaramente la Fig. 1, sono in crescita costante dalla metà degli anni Settanta.

Non è una novità che il capitalismo vada incontro a problemi di carenza di domanda aggregata ed abbia bisogno della creazione di nuovi mercati. La spesa militare potrebbe rappresentare una via d’uscita da questi problemi, che sono persistenti da molti anni, e che talvolta si accompagnano all’esigenza di riconvertire economie insostenibili da un punto di vista ambientale. E’ questo il caso australiano dove la fine del boom del settore minerario è stato dettata non da logiche o politiche ambientali nazionali ma piuttosto dagli sforzi (esterni all’Australia) di riconversione energetica che la Cina sta adottando sotto la leadership di Xi Jinping. La transizione ad un’economia senza carbone si sta rivelando un vero rompicapo per il governo conservatore australiano che sembra deciso a fare della spesa militare il motore della riconversione industriale.

Come testimonia la Fig. 2 la spesa militare in Australia, dopo un periodo di relativa stasi, è cresciuta dal 2013 di oltre il 20 percento. L’aumento del 6 percento previsto nel biennio 2017-2018 porterà la spesa per la difesa in Australia a circa 35 miliardi di dollari australiani (oltre 25 miliardi di dollari americani). Rilevante è il fatto che l’attuale governo di destra guidato dal moderato Turnbull stia attuando un vero e proprio de-coupling della spesa militare dalla crescita del PIL, una rivoluzione rispetto al passato visto che questa voce della spesa era sempre stata condizionata allo stato dell’economia. Lo sganciamento della spesa per la difesa dai tassi di crescita di fatto riconosce il ruolo trainante di questa voce del bilancio pubblico per l’intera economia australiana. Questa strategia di militarizzazione dell’economia – motivata sul sito ufficiale del Ministero della Difesa con la necessità di salvaguardare la sicurezza del popolo Australiano – è rilevante non soltanto per l’entità della spesa ma anche per la sua tipologia. Sono stati già approvati sia l’avvio della progettazione di ben 12 sottomarini di produzione australiana sia un investimento di oltre due miliardi di dollari nel sistema di difesa aerea a corto raggio per realizzare un modernissimo sistema di capacità missilistica. Altri 500 milioni di dollari finanzieranno operazioni di sostegno a forme di difesa elettronica dirette alla costruzione di laboratori e strumenti per test di equipaggiamenti militari.

Fig. 2 – La spesa militare in Australia, in dollari USA

Nello schema più ampio dei giochi globali, quella australiana è solo una flebile eco del ruggito che viene dalla Cina. Alla recente apertura annuale dei lavori del Parlamento cinese, il Presidente Xi Jinping ha ufficialmente presentato un piano di profonda modernizzazione dell’esercito cinese. I dettagli vengono dal rapporto di Li Keqiang, il leader del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese e figura di estremo rilievo nell’attuale politica economica della Cina. Secondo la Kyodo News, un’agenzia d’informazione di reputazione internazionale, fondata nel 1945 come cooperativa non a scopo di lucro, le previsioni sono di forti investimenti in spesa militare nei prossimi anni, con un aumento annuale dell’8,1 entro la fine del 2018, quando la spesa per questa voce raggiungerà i 174 miliardi di dollari americani. Due riferimenti sono importanti per capire la natura di questa strategia: da un lato la transizione da una fase di alti tassi di crescita ad una in cui i tassi saranno, secondo molti, ben più contenuti; dall’altro le relazioni bellicose con il Presidente degli USA Trump.

In realtà non è certo che la spesa militare dia un contributo positivo alla crescita economica. Come di recente sostenuto, quel contributo potrebbe risultare nullo o anche negativo. Ma potrebbe esservi un ulteriore legame, indiretto e perverso, tra spesa militare e crescita economica. Come nelle migliori applicazioni della legge di Say (l’offerta crea la sua stessa domanda), la spesa militare che conduce alla produzione di armi potrebbe creare la propria domanda favorendo i conflitti armati, che di certo non sono poco numerosi nel mondo, e il contributo alla crescita potrebbe venire, nel medio termine, dalla necessità della ricostruzione. La ‘creazione per distruzione’ è al centro dell’analisi dell’economia della guerra che Naomi Klein ha proposto all’indomani della seconda Guerra in Iraq del 2003. Per molti, il collegamento tra la spesa militare e la crescita economica è rappresentato proprio dalla voce “ricostruzione” (di infrastrutture come ospedali, scuole, strade, uffici e case) conseguente alla distruzione causata dagli armamenti. Peraltro distruzione e ricostruzione fanno rima con “contracting out”, cioè con la delega dei servizi di ricostruzione soprattutto a imprese provenienti dagli stessi paesi che forniscono le armi; distruzione e ricostruzione, inoltre, vanno spesso insieme a “privatizzazione”, la privatizzazione di enormi risorse naturali – dal petrolio del Medio Oriente alla riserve amazzoniche in Sud America – ma anche di servizi essenziali come quelli legati alla salute. E’ noto, infatti, che la privatizzazione è spesso imposta come contropartita all’elargizione di prestiti e aiuti finanziari necessari per la ricostruzione.

In questo contesto, il contributo che viene dall’uso civile delle armi, al quale si è fatto cenno in apertura, è tutt’altro che irrilevante. Negli Stati Uniti la domanda di sicurezza privata è alla base dell’accelerazione nella produzione di armamenti a cui stiamo assistendo. Più in generale, secondo la Small Arms Survey, un centro d’eccellenza internazionale con sede in Svizzera, la maggior parte delle armi da fuoco nel mondo è nelle mani dei civili e non delle forze armate. Che questa domanda di sicurezza porti al risultato perverso di una mancanza totale di sicurezza, sembra interessare molto poco. E’ questo il pensiero che viene alla mente, ascoltando la piccola, ma grande, Yolanda Renee King, nipotina di Martin Luther King, che, sognando un mondo senza armi, marcia nelle vie di Washington per protestare contro la mancanza di controllo sulle armi e contro le politiche dei signori della guerra.

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