L’Unione europea verso una forma di governo parlamentare?

Claudio De Fiores esamina, anche alla luce delle recenti vicende sulla nomina del Presidente della Commissione europea, la tesi secondo cui, grazie alle novità del Trattato di Lisbona, in Europa si è instaurata una forma di governo di tipo parlamentare. De Fiores mostra i limiti di questa tesi e ricorda che la prospettiva di una forma di governo imperniata sulla centralità democratica del Parlamento europeo non potrà realizzarsi almeno finché non si saranno create le condizioni per cui l’Unione europea potrà configurarsi come uno Stato dotato di una propria Costituzione.

Le modalità di formazione della Commissione delineate dall’art. 17.7 TUE (consultazioni, proposta, elezione parlamentare, nomina dei commissari da parte del Consiglio …) hanno indotto parte della pubblicistica a considerare le innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona il viatico privilegiato per l’instaurazione in Europa di una forma di governo di tipo parlamentare. Secondo alcuni, più precisamente, saremmo oggi in presenza di una forma di governo parlamentare di tipo “ibrido”, in quanto permeata da taluni significativi elementi di presidenzialismo. Elementi prevalentemente derivanti – si è detto – dall’avvenuta formalizzazione (favorita dalle risoluzioni del Parlamento europeo del 22 novembre 2012 e del 12 marzo 2013) di candidature transnazionali alla presidenza della Commissione.
Per quanto riguarda questa seconda interpretazione v’è poco da dire, essendo stata palesemente smentita dal voto. Con le elezioni del 25 maggio i cittadini hanno eletto il Parlamento europeo, ma non il Presidente dell’Ue. La sua designazione spetta al Consiglio. Non si comprenderebbero altrimenti i distinguo, l’impasse, le dilanianti divisioni tra i capi di stato e di Governo dell’Ue di queste settimane.
Un rilievo questo destinato a smentire (seppure in modo meno lapalissiano) anche l’altra interpretazione, secondo la quale – come si è già detto – in Europa, a seguito dell’approvazione del Trattato di Lisbona, si sarebbe instaurata una forma di governo di tipo parlamentare.
A confermarlo, secondo i “parlamentaristi” europei, sarebbero innanzitutto le caratteristiche modalità di coinvolgimento del Consiglio nel procedimento di formazione della Commissione. Procedimento – si è detto – scientemente delineato, da parte del Trattato, con un occhio rivolto ai poteri del Capo dello Stato nelle democrazie parlamentari (non a caso il Consiglio è stato definito “capo dello Stato collettivo”).
Si tratta di un accostamento che non convince, per una ragione innanzitutto: il Consiglio non è un organo di garanzia come lo è il Capo dello Stato nei sistemi parlamentari, ma un organo politico. Ne discende da ciò che una cosa è “l’incarico”, con la sua peculiare natura costituzionale e la sua fisiologia, altra cosa è invece la “proposta” del Consiglio così come delineata dall’art. 17.7 TUE.
In altre parole mentre con l’incarico il Capo dello Stato affida il compito di formare un governo a quella personalità ritenuta più capace di ottenere la fiducia del Parlamento, con la proposta il Consiglio esprime invece una valutazione di tipo politico, indicando al Parlamento una personalità di suo gradimento e, in quanto tale, in grado di perseguire l’indirizzo politico del Consiglio.
Non è un caso che – secondo quanto abbiamo appreso dalla stampa in questi giorni – il Presidente del Consiglio uscente Herman Van Rompuy si sia, all’indomani delle elezioni, premurato a redigere un documento programmatico per la nuova Commissione (Strategic Agenda for the Union in times of change) da sottoporre ai governi europei prima di procedere formalmente alla designazione del Presidente della Commissione. Anche la prassi ci induce, pertanto, a ritenere che siamo in presenza di una vera e propria designazione, una sorta di investitura politica da parte del Consiglio.
In queste condizioni parlare di fiducia in termini analoghi a quelli utilizzati dal diritto parlamentare deve ritenersi quanto meno incauto. Anche perché – a differenza di quanto avviene nei regimi parlamentari – la cd. fiducia non viene, in questo caso, accordata su un programma adeguatamente esposto in sede parlamentare. Né tanto meno la formazione dell’esecutivo è, in questo caso, preceduta da un confronto in assemblea aperto e plurale sull’indirizzo politico da seguire. Un confronto che non è un vezzo del parlamentarismo, ma una condizione strutturale del sistema al quale i regimi parlamentari non possono rinunciare. È la loro stessa fisiologia a pretenderlo, perché è proprio da tale confronto che discende la costituzione di una maggioranza di governo e di uno schieramento di opposizione. Requisiti, questi, che sono sempre stati parte integrante del modo di essere e di agire di una democrazia parlamentare.
Ne discende da tutto ciò che – rebus sic stantibus – la forma di governo europea (se di forma di governo si può parlare) non è di tipo parlamentare. E non lo è non solo perché una forma di governo parlamentare di dimensione europea richiederebbe un sistema dei partiti sovranazionale e strutturato (condizione questa al momento mancante o quanto meno assai debole). Ma anche perché giuridicamente sguarnita della possibilità di dare vita a un esecutivo a “estrazione parlamentare” (i componenti della Commissione devono essere tutti istituzionalmente – cioè necessariamente – “estranei” al Parlamento), di poteri politici di controllo a disposizione dell’assemblea, dell’istituito dello scioglimento, della possibilità di sfiduciare un governo e procedere a nuove elezioni.
A tale riguardo si è soliti obiettare che la designazione del Presidente della Commissione da parte del Consiglio non è però un’opzione politica “libera”, essendo anch’essa vincolata al rispetto di determinate condizioni “normative”. In particolare due: la prima di carattere formale (la designazione dovrà avvenire “tenuto conto delle elezioni”) e la seconda più sostanziale (l’art. 17.3 del TUE prevede che “i membri della commissione sono scelti in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo e tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza”).
Si tratta però di “condizioni” talmente generiche ed elastiche che si prestano ad essere facilmente piegate alla prova dei fatti. Cosa sarebbe accaduto, ad esempio, se a vincere le elezioni fossero stati i partiti nazionalisti ed euroscettici che certo non si può dire brillino per “impegno europeo”? Cosa deve intendersi per “personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza” ai fini della loro designazione alla Presidenza della Commissione? E poi, “indipendenza” nei confronti di chi e di che cosa?
Ma l’elevato grado di incertezza e la scarsa precettività di queste disposizioni è innanzitutto confermato da quanto è avvenuto in queste settimane nel tentativo di scongiurare la presidenza Junker: le incursioni di Angela Merkel contro il suo stesso partito e a sostegno di Christine Lagarde, direttore del FMI (poi rientrate); le resistenze del Presidente Hollande (poi rientrate); le minacce “secessioniste” del premier britannico Cameron (non ancora rientrate). Un quadro lacerato e quanto mai deludente che nulla ha a che fare con lo spirito europeista che si era voluto attribuire alle elezioni del 2014. Le ragioni di questo persistente logoramento istituzionale sono quelle di sempre: all’indomani di elezioni europee, i governi sostituendosi ai cittadini preferiscono agire ciascuno per proprio conto, a prescindere dal dato elettorale.
Se così non fosse stato il Consiglio non avrebbe perso un solo giorno per designare Junker, il candidato alla commissione europea del PPE: il partito che ha vinto le elezioni. Eppure prima che la sua candidatura prendesse corpo si è dovuto attendere quasi un mese. A tale riguardo mi limito infine a ricordare che il Parlamento in una risoluzione del 4 luglio 2013, oltre a sollecitare i partiti nazionali ed europei a presentare le rispettive candidature per la guida della Commissione, al §. 15 aveva espressamente stabilito che “il candidato alla Presidenza della Commissione presentato dal partito politico europeo che avrà conseguito il maggior numero di seggi al Parlamento sarà il primo ad essere preso in considerazione al fine di verificare la sua capacità di ottenere l’appoggio della maggioranza assoluta del Parlamento, necessaria per la sua elezione”.
Riuscirà in questo quadro il Parlamento europeo a risollevare, almeno in parte, le proprie sorti e a condizionare le dinamiche di un ordinamento che continua ad estrometterlo dalle decisioni politiche fondamentali? E attraverso quali strumenti, visto che l’unico organo eletto direttamente dai cittadini europei non dispone nemmeno dell’iniziativa legislativa?
Ciò che è certo è che sarà dalle scelte contingenti (sebbene parziali) che il Parlamento andrà concretamente ad assumere sin da questa legislatura e soprattutto dalla sostanziale rimodulazione (all’interno degli stessi Trattati) del suo ruolo e delle sue funzioni che dipenderanno gli sviluppi, la collocazione globale e il futuro stesso dell’Unione europea.
La costruzione di una forma di governo imperniata sulla centralità democratica del parlamento come si è visto non è proprio all’ordine del giorno in Europa, anche perché attualmente mancano tutte le condizioni strutturali di contorno (l’UE non è uno Stato, né tanto meno dispone di una Costituzione).
In questo quadro c’è allora solo da sperare che l’elezione di Junker da parte del Parlamento possa quantomeno costituire un primo timido passo per la costruzione di un’Unione un po’ più matura sul piano politico e un po’ meno succube dei miti della governance che hanno, in questi anni, umiliato il progetto europeo.

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