Verso condizioni inospitali per il lavoro: appunti

Nel contrastato dibattito sulle prospettive di sviluppo dei paesi avanzati è comune il riconoscimento che si è creata una frattura nei trend affermatisi nel secondo dopoguerra. Il fattore cruciale di questa frattura è il cambiamento indotto dall’Information & Communication Technology (ICT) nella produzione e nell’informazione, identificato anche come la terza rivoluzione industriale. I suoi tratti salienti sono l’automazione dei processi produttivi e distributivi; la globalizzazione, intesa come riduzione drastica delle distanze spaziali e temporali; la finanziarizzazione; la privatizzazione oligopolistica di cruciali processi della produzione, della finanza e dell’informazione.

Quali trasformazioni l’ICT potrà provocare sul lavoro e sulle disuguaglianze nel lavoro e nel tessuto sociale? Molto dipenderà dal modo con cui società e istituzioni risponderanno ai sommovimenti che produrrà. Argomentare intorno ai verosimili cambiamenti nel lavoro e nelle sue disuguaglianze sconta il limite di trascurare le retroazioni che tali dinamiche possono indurre a livello socio-politico e istituzionale. Più che di probabili implicazioni sul lavoro e sulle disuguaglianze nelle sue diverse dimensioni (partecipazione al lavoro, redditi da lavoro, rapporti di forza nelle relazioni industriali, ecc.), preferisco parlare di “condizioni inospitali” per il lavoro e per l’uguaglianza (mutuo il termine da A. Ferrara, Crisi o trasformazione della democrazia?, n. 20 di questa rivista).

Inoltre, data la complessità del tema, sarò schematico, per cercare di cogliere le tendenze e i nodi salienti. Va da sé, con i rischi del caso, che non esorcizzo, ma contro i quali la chiusura del titolo – Appunti – vale perlomeno a mettere in guardia.

Comincio col riassumere le condizioni inospitali per il lavoro, che già si sono manifestate e probabilmente si accentueranno: (1) eccesso strutturale dell’offerta di lavoro; (2) mobilità e dislocazione del lavoro; (3) polarizzazione del lavoro; (4) crescente eterogeneità nella partecipazione al lavoro e nei redditi da lavoro; (5) perdita di potere contrattuale dei lavoratori. Queste condizioni si manifestano con diffusione, intensità e modalità differenti nei vari paesi. Di tali diversità non terrò conto se non con sommari cenni.

L’eccesso strutturale di offerta di lavoro può essere illustrato con alcuni calcoli grossolani ma istruttivi. Assumiamo che il tempo di lavoro resti invariato, in termini di orari di lavoro e più in generale nell’arco della vita di una persona (in effetti, la tendenza secolare alla contrazione del tempo di lavoro pare essersi arrestata).

Negli Stati Uniti vi sono 17 milioni di disoccupati “ufficiali” (stimati, cioè, secondo i criteri suggeriti dall’International Labour Office) e 7 milioni di disoccupati “scoraggiati” (non alla ricerca attiva di lavoro, ma immediatamente disponibili a lavorare). Dunque, si ha una mancata partecipazione al lavoro di 24 milioni di persone. L’economista John Komlos calcola che le forze di lavoro (a meno degli scoraggiati) negli ultimi quattro anni sono cresciute in media di 81mila unità al mese. Nello stesso periodo in media sono stati creati 207 posti di lavoro al mese. A questi ritmi sarebbero necessari circa 16 anni per assorbire il surplus di lavoro.

In Italia, nel quarto trimestre 2014 gli occupati erano 22,3 milioni, i disoccupati ufficiali 3,3 e quelli “scoraggiati” 3,4 milioni. Le forze di lavoro (sempre senza gli scoraggiati) negli ultimi quattro anni sono cresciute di 57mila unità al trimestre. Nell’ultimo anno sono stati creati in media 130mila posti di lavoro al trimestre. Con questi ritmi occorrerebbero circa 20 anni per assorbire il surplus di lavoro.

Una seconda condizione inospitale per il lavoro è rappresentata dalla mobilità e dalla dislocazione del lavoro. Con la globalizzazione, il lavoro è sempre meno un fattore di produzione quasi-fisso. La mobilità del lavoro si manifesta nei flussi di migrazioni che interessano non soltanto, e drammaticamente, persone che muovono dalle aree povere a quelle ricche del pianeta, ma anche gli high-skilled workers. L’Italia è investita da entrambi i fenomeni. Il primo è ben noto, ma anche il secondo è tutt’altro che trascurabile. Nel recente Rapporto annuale 2015, l’Istat documenta che dei nostri dottori di ricerca delle leve 2008 e 2010 una quota rilevante – soprattutto delle aree scientifiche e economico-statistiche – vive all’estero, attratta da salari sensibilmente più alti, un’occupazione più consona al percorso formativo seguito, una possibilità di impiego in università o enti di ricerca decisamente più alta. In sostanza, l’Italia soffre ormai di un preoccupante brain drain.

D’altro canto, grazie all’automazione dei processi produttivi e alla pressione della globalizzazione, si assiste alla dislocazione della domanda di lavoro verso paesi che, a parità di prodotto per unità di lavoro, hanno costo del lavoro più basso. Il fenomeno è pervasivo e riguarda anche gli high-skilled workers. Due esempi significativi, tra gli altri: in sanità, vi è una crescente dislocazione dei referti degli esami di laboratorio dal paese di effettuazione degli esami (tipicamente USA e UK) all’India; in informatica, si assiste a un processo analogo di ricorso via internet a esperti operanti in India da parte imprese di molti paesi, Italia inclusa.

Un altro tratto inospitale è indotto dalla diffusione delle tecnologie dell’automazione che sono in buona misura labour-saving e, complessivamente, portano a una crescente polarizzazione del lavoro. Assistiamo, essenzialmente, a tre tendenze: crescita moderata dei lavori con salario alto; declino dei lavori con salario medio; crescita sostenuta dei lavori con salario basso, fino ai working poors. Recentemente il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo-inchiesta, che riporta passi di interviste ad autorevoli economisti statunitensi, così titolato: «Che cosa significano i robot intelligenti per i posti di lavoro: gli esperti riconsiderano la convinzione che la tecnologia innalzi sempre l’occupazione, dato che le macchine acquistano capacità un tempo ritenute unicamente umane». E i robot non minacciano soltanto le linee di montaggio del settore manifatturiero. I cosiddetti service-robot e la computerizzazione sono destinati avere un effetto negativo su molte occupazioni del terziario.

Al processo di compressione della domanda di lavoro qualificato si affianca poi lo spostamento dell’occupazione dalla manifattura ai servizi, in particolare a quelli alla persona, che restano labour-intensive e a bassi salari.

Questi processi si accompagnano a un’altra, in parte conseguente, condizione inospitale: la crescita dell’eterogeneità nella partecipazione al lavoro e nei redditi da lavoro. L’aumento della variabilità e della “frammentazione” dei rapporti di lavoro è discretamente documentato dalle statistiche. È sufficiente richiamare la diffusione di rapporti di lavoro instabili – a termine, interinale, a chiamata –, la differenziazione dei regimi orari, la delocalizzazione del lavoro (work-at-home), il lavoro nella terra di nessuno fra occupazione dipendente e autonoma, i voucher, per finire col “lavoro nero”.

Venendo alla dinamica dei redditi da lavoro, mi limito a una evidenza esemplare riferita agli USA e a una breve considerazione per l’Italia. Negli Stati Uniti Wal-Mart, la più grande impresa multinazionale di commercio al dettaglio, ha appena alzato il salario minimo a 9 dollari l’ora. Ebbene, nel 1914 la Ford con una decisione rimasta famosa fissò il salario giornaliero a 5 dollari, che oggi corrisponde a circa 14 dollari l’ora. Certo, alla Ford lavorava l’aristocrazia operaia, ma ciò non toglie che il confronto sia stridente. Su un piano più generale, John Komlos osserva che «dei 77 milioni di lavoratori che l’anno scorso erano retribuiti con un salario orario, il 55% ha guadagnato meno dei lavoratori della Ford di un secolo fa!»

In Italia la crescita della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi da lavoro è stata meno marcata che nei paesi nordici e dell’Europa centrale, anche perché muoveva dai livelli degli anni ’80, sì di minimo della disuguaglianza ma comparativamente più elevati che in tali paesi. Va peraltro tenuto presente che questo è avvenuto in presenza di un forte calo della produttività e di una sensibile ascesa del peso delle rendite: in definitiva, nel contesto di una grave perdita di competitività del nostro sistema produttivo.

In questo quadro l’“ascensore sociale” incentrato sull’“uguaglianza delle opportunità” si è fermato. Tendono dunque a riacquistare peso fattori ascrittivi e l’origine sociale: il genere, peraltro l’unico contraddistinto da dinamiche contrastanti; l’età, con una accresciuta disuguaglianza fra generazioni, a danno dei giovani d’oggi, particolarmente marcata in Italia; il livello di istruzione (illuminate, al riguardo, è il progressivo aprirsi, negli USA dai primi anni’80, della “forbice” dei salari reali settimanali degli occupati maschi full-time con diversi livelli di istruzione; vedi D. Acemoglu e D. Autor, “Skills, tasks and technologies: Implications for employment and earnings”, in Handbook of Labor Economics, Volume 4, Part B, Elsevier, 2011); la famiglia e la classe sociale.

Le condizioni inospitali per il lavoro sinora considerate, soprattutto alcune, inducono mutamenti nei rapporti di forza delle relazioni industriali, a danno dei sindacati dei lavoratori. I sindacati, in alcune nicchie strategiche, hanno conservato la loro forza contrattuale – una sorta di potere di condizionamento – accentuando la logica di rappresentanza corporativa. Il tal modo, però, di fronte alla “frammentazione” dei lavoratori perdono la capacità di identificarne e rappresentarne gli interessi generali.

Come ricomporre l’insieme di evidenze e considerazioni schematicamente prospettate? Solo allo scopo di offrire spunti per la riflessione, mi arrischio a delineare tre chiavi di lettura e proiezione complessiva.

La prima si ricollega agli studi di Piketty e collaboratori. La tendenza a un aumento costante della disuguaglianza dei redditi (e, aggiungo, alla sottostante polarizzazione del lavoro) sono letti come tratti connaturati al sistema capitalistico, intrinsecamente legati al processo di accumulazione di ricchezza. In questo quadro, “les Trente glorieuses” che sono seguiti alla seconda guerra mondiale sono un’eccezione, non la condizione normale delle economie di mercato.

Chi dubita che valgano leggi generali, invarianti nel tempo e fra paesi, tende piuttosto a dare importanza al contesto culturale e istituzionale. Con una dicotomia, secca ma utile per delineare percorsi-tipo profondamente differenti, si contrappongono così i paesi scandinavi e qualche altro dell’Europa centrale ai paesi dell’area sud-europea e ai paesi “liberisti”. I primi sono caratterizzati da forte omogeneità, alto civismo e istituzioni efficienti; hanno un sistema economico e sociale improntato alla flexecurity, con enfasi da un lato su una ragionevole crescita e sull’efficienza dei processi produttivi (sicché un elevato tasso di occupazione e salari adeguati sono considerati tratti costitutivi del “modello di welfare scandinavo”) e dall’altro su un’adeguata assicurazione sociale e su un sistema fiscale e dei trasferimenti marcatamente redistributivo; nel contempo, operano per ri-creare costantemente situazioni prossime all’uguaglianza delle opportunità, ad esempio con interventi precoci sull’istruzione o di regolazione dei diritti di proprietà. All’opposto nei paesi dell’Europa mediterranea e in quelli “liberisti”, pur molto diversi quanto a civismo, qualità delle istituzioni e dinamiche di sviluppo economico, si delineano tendenze comuni alla crescente polarizzazione del lavoro, alla disuguaglianza dei redditi e all’esclusione sociale.

Una variante, che potremmo definire ottimistica, a questa seconda chiave di lettura è prospettata da un autorevole economista del lavoro, Klaus Zimmermann (The big trade-off in the world of labor, IZA Policy Paper n. 100, 2015). A fronte delle condizioni inospitali per il lavoro che ho richiamato, a suo avviso vi sono minori gerarchie, più flessibilità, maggiori opportunità di agire in maniera “imprenditoriale”, maggiore orientamento a obiettivi e risultati. Dunque, la meta non sarebbe una società incentrata sul lavoro salariato, sia pure ben tutelato. Zimmermann guarda, infatti, alla dialettica intrinseca nel nuovo “mondo del lavoro”, che tratteggia con un’immagine: «Da una parte, gli smart phone ci aiutano a superare la separazione formale fra lavoro e “gioco”. Dall’altra, noi ora portiamo il nostro lavoro a casa in senso davvero letterale, nella nostra tasca». Di conseguenza, diventano cruciali gli spazi di libertà e di responsabilità affidati a persone, organizzazioni sociali, istituzioni.

Da degli Appunti non si attendono conclusioni. Al più, un abbozzo di segnalazione del percorso da imboccare. La mia opinione è che la risposta alle questioni poste dalle condizioni inospitali per il lavoro – e per le disuguaglianze che vi sono connesse – sia da cercare all’interno del cosiddetto “capitalismo democratico”, dunque entro l’orizzonte della seconda chiave di lettura prospettata. Linee di riferimento per un’azione in questa direzione cominciano ad emergere. L’ultimo libro di Tony Atkinson, Inequality: What can be done? (Harvard University Press, 2015), pur focalizzato sul Regno Unito, delinea un progetto di riformismo radicale argomentato in modo rigoroso, appassionato e pungente.

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