Vecchie novità nella gestione del fenomeno migratorio in Italia: il recente decreto-legge Minniti

La scheda di Marta Capesciotti descrive sinteticamente il contenuto del recente decreto-legge n. 17/2017 in materia di immigrazione (c.d. “Decreto Minniti”). Capesciotti esamina la portata innovativa del Decreto rispetto alle recenti linee di tendenza in materia di governo dell’immigrazione e sostiene che il decreto sembra riconfermare la gestione prettamente emergenziale del fenomeno migratorio senza fornire un ripensamento complessivo dell’attuale sistema legislativo in materia.

Il 17 febbraio 2017, il Governo Gentiloni ha emanato il decreto-legge n. 17 recante “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”. Il decreto-legge – per sua stessa natura immediatamente effettivo – è stato approvato dal Senato della Repubblica il 29 marzo 2017 ed è attualmente in fase di dibattimento presso la Camera dei deputati per la sua conversione in legge che dovrà avvenire improrogabilmente entro 60 giorni dall’emanazione.

Al di là dell’ormai annoso dibattito concernente la legittimità dell’utilizzo della decretazione d’urgenza per disciplinare materie – quale appunto la tutela di diritti fondamentali in relazione alla protezione internazionale o fenomeni sociali strutturali quale l’immigrazione – che non sembrano assolvere ai requisiti di necessità e urgenza previsti dall’art. 77 della Costituzione, il provvedimento in esame si propone nella sua natura complessa e ambiziosa di regolare in unico provvedimento numerosi aspetti che attengono nel loro insieme alla gestione dell’immigrazione in Italia da molteplici punti di vista.

Guardando ai contenuti infatti, possono essere enucleati tre grandi aree tematiche: i) la riforma di alcuni aspetti della procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, ii) misure di contrasto all’immigrazione irregolare, iii) altre misure relative all’accoglienza e ai doveri dei richiedenti protezione internazionale. Il fil rougesotteso non solo al provvedimento ma anche alle recenti dichiarazioni programmatiche del Ministro dell’Interno Marco Minniti è la necessaria complementarietà tra misure di contrasto alla presenza di stranieri irregolarmente presenti sul territorio e il potenziamento dei dispositivi di accoglienza per gli stranieri meritevoli di protezione: una polarizzazione tra “rifugiati” e “migranti economici” – per utilizzare categorie classificatorie molto in voga in tempi recenti – che viene frequentemente ribadita nel dibattito politico Italiano ed europeo in materia di gestione del fenomeno migratorio.

Per quanto concerne la revisione della procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, il decreto prevede numerose innovazione legislative, già annunciate lo scorso anno dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando. In primo luogo, vengono istituite quattordici sezioni giudiziarie specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE nelle principali città italiane. Tali sezioni – da istituire entro 180 giorni dall’emanazione del decreto –saranno formate da giudici scelti tra i magistrati dotati di appropriate competenze a cui verrà richiesto di partecipare a incontri specifici di formazione almeno una volta l’anno. L’art. 6 del decreto riforma, inoltre, il processo in materia di protezione internazionale, prevedendo la riduzione dei gradi del processo stesso, con l’eliminazione del giudizio in appello in caso di ricorso contro eventuale diniego da parte della Commissione Territoriale competente. In altre parole, se la Commissione giudicherà negativamente la richiesta di protezione internazionale, il richiedente potrà fare ricorso avverso la decisione elusivamente di fronte alla Corte di Cassazione: tale innovazione è stata immediatamente criticata dalla Corte di Cassazione stessa che, con un comunicato del 14 febbraio 2017, vi ha rinvenuto un potenziale vulnus alle garanzie previste dal nostro ordinamento giuridico. Questo rischio è legato anche alla previsione da parte del decreto della possibilità che il richiedente non venga audito direttamente in fase di ricorso di fronte alla Corte di Cassazione che potrà, invece, utilizzare la videoregistrazione del colloquio di fronte alla Commissione Territoriale.

Simili preoccupazioni sono state espresse anche dall’Associazione Nazionale dei Magistrati (ANM) che, tra le altre cose, ha paventato un possibile sovraccarico per la Corte di Cassazione che diventerà l’unico organo giudiziario di ricorso avverso i decreti di diniego.

La centralità delle misure destinate al contrasto della presenza irregolare sul territorio italiano emerge con chiarezza dal decreto in analisi. Come per la già da tempo annunciata riforma della procedura processuale in materia di protezione internazionale, anche in questo caso il Ministero dell’Interno aveva reso chiara la sua linea di azione in materia. È del 26 gennaio il telegramma inviato dal Ministero alle Prefetture di Roma, Torino, Brindisi e Caltanissetta con il quale veniva richiesta un’intensificazione dell’individuazione di migranti irregolari di origine nigeriana nonché una riserva di posti nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) destinati a tali soggetti, introducendo per la prima volta una misura di polizia chiaramente fondata su un criterio di natura etnica. Sempre in materia di contrasto all’immigrazione irregolare, è ormai da tempo nell’agenda politica italiana l’attivismo del Governo finalizzato alla creazione di accordi bilaterali di varia natura con Paesi terzi di origine e transito miranti, da un lato, a facilitare e velocizzare le riammissioni di cittadini stranieri irregolarmente presenti in Italia e, dall’altro, a ridurre a monte i flussi migratori, che attraversando il Mediterraneo, si riversano sul territorio italiano. Con il decreto-legge recentemente emanato i CIE vengono rinominati Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). Questi dovrebbero essere localizzati in ogni Regione fuori dai centri urbani e vicino a infrastrutture di trasporto (come nel caso del CIE, ora CPR, di Ponte Galeria localizzato vicino all’aeroporto di Roma Fiumicino), con una capienza massima complessiva di 1.600 posti. Viene, inoltre, assicurato al Garante per i Diritti delle Persone Detenute o Private della Libertà Personale un diritto di accesso illimitato a tali strutture. La detenzione nei CPR viene prevista anche per i migranti che ripetutamente rifiutano di sottoporsi alle operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico portate avanti sia nei c.d. “hotspot” al momento dell’arrivo che nelle questure nel caso di rintracci operati sul territorio. Grave lacuna del provvedimento è l’aver perso l’occasione per normare nel dettaglio le condizioni di permanenza negli “hotspot” (definiti nel decreto “punti di crisi”) che rimangono ad oggi ancora sprovvisti di un inquadramento giuridico chiaro e omogeneo nonostante la loro centralità nell’attuale sistema italiano ed europeo di gestione dell’immigrazione.

Per quanto concerne, infine, le altre disposizioni contenute nel provvedimento in analisi, numerose critiche sono state rivolte anche all’obbligo in capo ai prefetti di promuovere, d’intesa con i Comuni, ogni iniziativa utile a favorire l’impiego di richiedenti protezione internazionale, su base volontaria, in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali. Il lavoro gratuito dei richiedenti asilo – che anche in questo caso era già una realtà sperimentale in molti territori – rappresenta per il Ministero dell’Interno un modo per ripagare i costi dell’accoglienza e per colmare quello che il Ministro stesso ha definito il “vuoto dell’attesa”, ovvero quel lasso di tempo molto ampio che intercorre tra la presentazione della domanda di protezione internazionale e l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno. Nell’audizione dell’8 febbraio scorso di fronte alle Commissioni riunite Affari costituzionali di Camera e Senato, il Ministro ha inteso chiarire che tali misure non concorrono a creare duplicazione e concorrenza nel mercato del lavoro, in quanto, non essendo retribuite, le attività svolte dai richiedenti protezione internazionale non costituiscono propriamente mansioni lavorative. Il problema di tale disposizione non risiede, com’è ovvio, nell’introduzione di misure finalizzate a favorire l’integrazione dei richiedenti protezione internazionale nel tessuto sociale locale, ma piuttosto nel fatto che tali misure siano basate sulla prestazione gratuita di attività lavorative e che queste diventino presupposto necessario per accedere al sistema di accoglienza.

Considerando, dunque, le principali innovazioni legislative introdotte con il d.l. n. 17/2016, l’impressione che se ne desume è che queste sanciscano per legge – con uno strumento legislativo improprio – una serie di tendenze già in atto nell’ambito del diritto e delle politiche in materia di immigrazione. Tendenze che traggono dalla logica emergenziale con cui il legislatore italiano si è tradizionalmente approcciato a tali temi e dal sempre più comune binomio tra gestione dell’immigrazione e lotta al terrorismo, la giustificazione per un’accelerazione sul piano della tutela della sicurezza, compromettendo la ricerca di un giusto e proporzionale equilibrio tra la tutela della sicurezza pubblica e la garanzia di diritti fondamentali.

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