Vecchie e nuove asimmetrie: l’Europa di fronte alla guerra

Giuseppe Celi, Dario Guarascio, Jelena Reljic, Annamaria Simonazzi e Francesco Zezza sostengono che la guerra rischia di avere impatti asimmetrici sulle economie europee, per effetto della differente vulnerabilità rispetto alle produzioni energivore e della diversa dipendenza dalle fonti fossili e dalle importazioni russe. Di fronte al rischio che la guerra frammenti il sistema commerciale globale in due blocchi contrapposti, la sfida per l’Europa sarà triplice: sostenere i redditi, rafforzare i mercati interni e recuperare sovranità tecnologica e produttiva.

*Questo articolo è stato scritto da: Giuseppe Celi, Dario Guarascio, Jelena Reljic, Annamaria Simonazzi e Francesco Zezza

I canali attraverso cui la guerra sta trasmettendo i suoi effetti sull’economia sono molteplici (Pisani-Ferry, Bruegel, 2022). Una crescita esponenziale dell’incertezza, che deprime i consumi e gli investimenti con effetti recessivi su PIL e occupazione. Un aumento delle tensioni sui mercati dell’energia e delle materie prime, legati alle sanzioni economiche imposte alla Russia, che, sommandosi ai colli di bottiglia già causati dalla pandemia (Baldwin e Freeman, VoxEU, 2021) destabilizza ulteriormente le catene globali del valore (GVC), sta mettendo a rischio intere filiere industriali. La crescita dell’inflazione, iniziata nel 2021 ed acceleratasi negli ultimi mesi, che se da un lato induce le aziende a posticipare gli investimenti e a tagliare la produzione, dall’altro erode il potere d’acquisto delle famiglie (si veda il recente contributo di Aprea  sul Menabò). Nel medio termine, ciò potrebbe accelerare il processo di “deglobalizzazione” (Dadush, Bruegel, 2022), spingendo verso una frammentazione del sistema commerciale globale in due blocchi – uno incentrato sugli Stati Uniti e l’altro sulla Cina (Bekkers and Goes, VoxEU, 2022). Se questo è lo scenario plausibile, sostenere i redditi, rafforzare i mercati interni e recuperare sovranità tecnologica e produttiva diventeranno rapidamente priorità assolute per la politica economica.

Quali le conseguenze per l’economia europea e le sue istituzioni, dunque?

Anche questa volta, gli Stati membri sono colpiti in modo asimmetrico ma non secondo la tradizionale divisione ‘centro-periferia’. Questa volta sono cruciali il peso delle produzioni ad alta intensità energetica e la dipendenza dalle importazioni. Da questo punto di vista, la componente sino ad oggi più solida, il nucleo manifatturiero tedesco (la Germania e le economie del blocco di Visegrad), e l’Italia, la cui struttura è andata indebolendosi con le crisi degli ultimi anni, sono accomunate da analoghi fattori di vulnerabilità. Entrambe le aree si caratterizzano per un’elevata quota di produzioni ‘energivore’ e una notevole dipendenza dalle importazioni dalla Russia. Ciò riduce lo spazio per l’aggiustamento, accrescendo il rischio di una recessione prolungata. La diversificazione del mix energetico, in particolare il potenziamento della produzione di energia da fonti rinnovabili, può infatti rappresentare una soluzione solo nel medio termine. Altrettanto grave è la dipendenza da essenziali materie prime e da beni intermedi provenienti dalla Russia e dall’Ucraina: strozzature all’interno delle filiere e restrizioni dell’offerta aumentano il rischio di impennate dei prezzi in settori specifici che possono facilmente trasmettersi all’intero sistema economico. Il settore automotive tedesco, ad esempio, si è già dimostrato particolarmente vulnerabile all’interruzione di specifiche catene di approvvigionamento operanti in Ucraina (la produzione di cavi) e in Russia (il nickel e altri metalli).

La spiegazione di tale (asimmetrica) dipendenza dalle fonti fossili e dalle importazioni russe si spiega anche con il modello di crescita e l’evoluzione di lungo periodo delle economie più esposte alla crisi. In primo luogo, la strategia mercantilista della Germania basata sulla minimizzazione dei costi e tesa alla massimizzazione delle quote di mercato internazionali per i prodotti tedeschi. Il gas russo a basso costo così come il trasferimento di parte delle produzioni manufatturiere tedesche ad Est sono elementi centrali di questa strategia. D’altra parte, una volta inglobate nella matrice manifatturiera della Germania, per le economie di Visegrad il rafforzamento dei legami con la Russia, in particolare per l’approvvigionamento energetico e la creazione di un mercato di sbocco per le esportazioni, ha rappresentato un altrettanto ovvio sviluppo strategico. Gli interessi economici, così come le illusioni tipiche della dottrina del “doux commerce“, possono altresì spiegare la mancanza di sforzi di diversificazione man mano che si rafforzavano i legami con il settore energetico russo. Argomenti simili valgono per l’Italia: da un lato i legami storici del settore degli idrocarburi con la Russia (le relazioni tra l’ENI e la sua controparte russa Gazprom si sono significativamente rafforzate a partire dagli anni ‘90), dall’altro la rilevanza del mercato russo per il “Made in Italy” e le sue industrie di beni strumentali.

La guerra metterà dunque fine anche alla divisione centro-periferia per come l’abbiamo sin qui conosciuta? Non proprio. La relativa fragilità iniziale degli Stati membri è importante tanto quanto la loro posizione all’interno delle reti commerciali e di produzione europee (e globali). Come ampiamente documentato, i paesi periferici – e, in particolare, quelli meridionali – sono più vulnerabili sotto molti punti di vista, e la guerra può aumentare questo divario strutturale. L’elevata quota di lavoratori precari a basso salario, i sistemi di welfare più deboli, ed il limitato spazio fiscale sono destinati ad aumentare i costi sociali della crisi. Inoltre, la periferia ha una quota maggiore di imprese piccole e micro poco capitalizzate e con scarse capacità organizzative, perciò meno resilienti di fronte alle crisi. Tutto ciò prospetta la necessità di un sostegno pubblico consistente e ad ampio spettro che, tuttavia, incontra nella scarsa capacità fiscale della periferia un serio limite che potrebbe ulteriormente accentuarsi nell’eventualità, per nulla remota, di un ritorno all’austerità fiscale e alla moderazione monetaria nonché dalla transizione verso una “politica industriale di guerra”, cioè più armi e meno stato sociale.

Vulnerabilità e dipendenza. Per valutare la vulnerabilità delle economie dell’UE agli shock energetici, in un nostro lavoro di prossima pubblicazione (The asymmetric impact of war: resilience, vulnerability and implications for EU policy, Intereconomics, 2022) abbiamo calcolato per ciascun paese dell’Unione il peso occupazionale relativo delle industrie ad alta intensità energetica (Figura 1). La forte esposizione dell’apparato manifatturiero tedesco, esteso alle economie di Visegrad, emerge con chiarezza. In Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria l’occupazione nei settori maggiormente energivori ammonta a circa 8,5 milioni di occupati. E l’Italia si mostra analogamente vulnerabile – con 2,4 milioni di occupati nei settori energivori. Per avere una misura dei rischi economici che si aprono con la crisi bellica in corso, si consideri che una quota cospicua delle esportazioni totali proviene dai settori ad elevata intensità energetica: il 51% per l’Italia (pari 216 miliardi nel 2019) ed il 45% per la Germania (pari a 527 miliardi). Le potenziali ripercussioni negative sul saldo estero, la produzione, l’occupazione e il Pil sono evidenti.

 

Figura 1. Occupati nei settori ad alta intensità energetica (%), 2019

Fonte: Eurostat, elaborazioni proprie. Per definire le industrie ad alta intensità energetica, utilizziamo i bilanci energetici pubblicati da Eurostat (https://ec.europa.eu/eurostat/web/energy/data/energy-balances) e suddividiamo i settori in base al rapporto tra la quantità di energia consumata in quel settore e il consumo totale di energia. Abbiamo classificato le industrie che mostrano un valore superiore alla mediana come “ad alta intensità energetica”. Una volta identificato l’insieme delle industrie ad alta intensità energetica (Chimica e petrolchimica; Ferro, acciaio e metalli non ferrosi; Minerali non metallici; Carta, cellulosa e stampa; Cibo, bevande e tabacco; Macchinari) abbiamo calcolato la relativa quota di occupazione per ciascuno Stato membro dell’UE. La tassonomia si adatta a tutti gli Stati membri ad eccezione dei paesi baltici, dove il settore “legno e prodotti in legno” registra la più alta intensità energetica.

 

Nell’ultimo decennio la dipendenza energetica dell’UE dalla Russia è notevolmente aumentata, ma in modo fortemente eterogeneo tra i Paesi. Se diversificare la fornitura di petrolio e combustibili solidi è relativamente semplice, non altrettanto può dirsi per quanto riguarda il gas. La Fig.2 mette in relazione il tasso di dipendenza dalle importazioni di gas dalla Russia con la quota delle rinnovabili nel consumo finale di energia. Il divario che emerge sembra essere nuovamente associato alla specializzazione industriale (dimensioni relative delle industrie manifatturiere, pesanti ed energivore) e, non meno rilevante, all’estensione dei legami con la Russia. Per ridurre la vulnerabilità, l’unica via è diminuire la dipendenza dai combustibili fossili e diversificare le fonti. In linea con le attese, tuttavia, i paesi più esposti sono quelli con le quote più basse di energie rinnovabili.

 

Figura 2. Tasso di dipendenza dalle importazioni di gas dalla Russia vis-à-vis consumi da fonti rinnovabili (%), 2019

Fonte: Eurostat, elaborazioni proprie. Il tasso di dipendenza dalle importazioni di gas per ciascun paese è definito come la quota delle importazioni nette di gas (importazioni meno esportazioni) sul totale dell’energia disponibile. L’indicatore è standardizzato su una scala da 0 a 1, dove zero sta per la posizione più bassa nella classifica e 1 per quella più alta. Note: l’indicatore sul tasso di dipendenza dalle importazioni di Gas dalla Russia è stato standardizzato in scala [0,1]; l’asse verticale mostra la quota percentuale di consumo di energia da fonti rinnovabili sul consumo totale di energia.

 

La dipendenza dei paesi europei dalla Russia non si limita alle fonti energetiche ma si estende anche ad alcune materie prime e beni intermedi chiave. In effetti, se in termini assoluti le esportazioni russe tendono a rappresentare una piccola quota delle esportazioni globali (2,3% nel 2019 fonte: Comtrade), questa cifra nasconde livelli di dipendenza molto elevati da parte di chi importa, in particolar modo per quanto riguarda beni che possono portare a strozzature e, in alcuni casi, all’interruzione di intere filiere produttive.

La Figura 3 mostra il peso relativo delle importazioni russe sul totale delle importazioni per i tre beni più esportati dalla Russia: nickel, cereali e fertilizzanti. Il primo è fondamentale per le tecnologie verdi, come le batterie per i veicoli ad alimentazione elettrica. Problemi di approvvigionamento possono ostacolare, nel breve periodo, la produzione e, nel medio, il processo di riduzione della dipendenza dalle fonti fossili. Per quanto riguarda le importazioni dalla Russia i paesi che ne dipendono di più sono la Germania, la Finlandia, quelli di Visegrad e i Baltici.  Quanto a fertilizzanti e cereali – che l’UE importa anche dall’Ucraina – l’impatto sarebbe soprattutto sul settore agricolo e quelli dell’allevamento e dei beni alimentari, con potenziali effetti a catena su prezzi, redditi e Pil.

 

Figura 3. Importazioni dalla Russia per maggiori prodotti esportati (% importazioni totali)

Fonte: Comtrade, elaborazioni proprie

 

L’impatto sulla politica economica dell’UE. Lo shock provocato dalla guerra e dalle successive sanzioni ha colpito simultaneamente il lato della domanda e quello dell’offerta, rallentando la crescita, alimentando l’inflazione e ponendo nuove sfide alla politica fiscale e monetaria dell’UE. Con il Covid-19 ancora in circolazione, la necessità di assistere famiglie e imprese peserà sui bilanci pubblici, aumentando ulteriormente il debito. Se prevenire il fallimento delle imprese è una condizione necessaria per rimettere in moto l’economia, è probabile che l’eterogenea condizione degli stati membri rispetto al debito pubblico si rifletta in una differenziata capacità di intervento a sostegno dell’economia. Sebbene le regole di bilancio siano ancora sospese, la crescita del debito– aggravata dall’impegno ad aumentare la spesa militare – potrebbe prima o poi limitare la spesa complessiva, con effetti negativi sulla crescita e sul perseguimento degli obiettivi di sostenibilità che l’Europa si è data con il Next Generation EU. Decisivi per la sopravvivenza dell’Unione saranno quindi le scelte sul policy mix (fiscale, monetario e industriale) e sulle regole di bilancio per il futuro.

La guerra segna anche un punto di svolta nell’ordine geopolitico globale. La globalizzazione, già indebolita dal conflitto commerciale USA-Cina e dalla pandemia, rischia di tramontare e a succederle, anziché una nuova era di autarchia come negli anni 1920 e 1930, potrebbe essere la formazione di blocchi economici di nuovo tipo imperniati attorno al nascente bipolarismo sino-americano. I paesi europei che tradizionalmente dipendono di più dalle esportazioni (globali) come la Germania potrebbero dover adeguare le loro politiche in senso inward-looking. La necessità di costruire una “Fortezza Europa”, potrebbe costringere la Germania a cambiare la sua posizione macroeconomica. Un risultato, questo, che non è necessariamente un lieto fine, e che certamente avrebbe potuto essere raggiunto in circostanze meno drammatiche.

 

 

 

 

Schede e storico autori