Valutare le riforme con la felicità

Vincenzo Carrieri e Edoardo Di Porto prendono spunto da una dichiarazione del Ministro Di Maio secondo cui la felicità dovrebbe essere il criterio più importante per la valutazione delle politiche pubbliche e, sintetizzando i principali risultati della happiness economics, si chiedono se l’attuazione di alcuni punti chiave del contratto di governo sia in grado di rendere effettivamente i cittadini più felici e se la valutazione delle riforme possa basarsi esclusivamente sugli indicatori di benessere soggettivo e non anche su quelli economici più tradizionali.

Il ministro del lavoro On. Luigi di Maio ha recentemente sostenuto che “non saranno gli indici a dirci se stiamo lavorando bene ma la felicità dei cittadini”. Ad essere onesti, ameno in prima battuta, il dubbio se prendere veramente sul serio tale dichiarazione o considerarla come una semplice boutade ci è sorto. A mente più fredda, però, ci siamo resi conto che non solo gli psicologi ma anche una parte di economisti, alcuni anche molto autorevoli, hanno da anni preso sul serio la felicità tanto da farne un’area di ricerca, l’happiness economics-appunto-, ben consolidata nella letteratura economica. Chiariamo subito che questa letteratura, pur riconoscendo alcuni limiti della teorica economica tradizionale e dell’utilizzo esclusivo degli indicatori economici più canonici (PIL, inflazione, disoccupazione, povertà, consumi, indici di disuguaglianza) ai fini della valutazione del benessere sociale, li ritiene utili e spesso, anzi, è arrivata alla conclusione che il benessere di un paese sia in larghissima parte misurabile attraverso tali indicatori. Basterebbe questo per dire che la ricerca della felicità non può essere posta in antitesi rispetto alla ricerca del miglioramento degli indicatori economici. Proviamo però a prendere sul serio l’esclusiva ricerca della felicità e cerchiamo di capire se l’attuazione di alcuni punti chiave del contratto di governo sia in grado di rendere effettivamente i cittadini più felici.

Come si misura la felicità? L’economia della felicità parte dall’analisi delle determinanti della felicità e soddisfazione nei confronti della propria vita degli individui. Esse vengono elicitate attraverso delle domande, ormai frequenti in molte indagini campionarie, poste più o meno in questo modo: “Considerati tutti gli aspetti della tua vita, ti definiresti molto felice, abbastanza felice o poco felice?” oppure “Tutto considerato, sei molto soddisfatto, abbastanza soddisfatto o per niente soddisfatto della vita che conduci?”. La prima, è ad esempio il tipo di domanda (da noi tradotta) formulata nel General Social Surveys tesa a misurare la felicità. La seconda è presente nell’EUROBAROMETER SURVEYS con lo scopo di misurare la soddisfazione nei confronti della propria vita. La traduzione delle domande è abbastanza cruciale, soprattutto perché nel caso della misurazione della felicità, esiste il bene noto problema del cultural bias legato alle differenze che esistono in culture diverse sul concetto di felicità e soddisfazione nei confronti della vita su cui l’esatta formulazione della domanda può ovviamente influire. Non rispondiamo, dunque, della traduzione più o meno fedele dall’inglese. Per ragioni di brevità, inoltre, seguendo Frey and Stutzer in Journal of Economic Literature, 2002, useremo in maniera interscambiabile i termini felicità e benessere, intendendo quest’ultimo in termini puramente soggettivi. Va però ricordato che nella letteratura psicologica, i due concetti hanno il realtà sfumature leggermente diverse. La felicità è principalmente intesa come uno stato mentale che può includere la soddisfazione nei confronti della propria vita- appunto come indicatore complessivo di benessere soggettivo- o anche la condizione emozionale associata ad eventi positivi. Nella letteratura economica spesso i due concetti sono usati in maniera interscambiabile.

Entrambe le misure, pur in presenza di alcuni problemi metodologici tra cui il già citato cultural bias, costituiscono un indicatore mediamente affidabile del benessere degli individui. Ad esempio perché la felicità riportata è correlata con misure più “spontanee” di felicità, come il numero di volte in cui si ride in una giornata e le espressioni facciali di soddisfazione (Gehricke e Shapiro in Psychiatry Research, 2000) oppure, in maniera ancora più importante con la propensione individuale al suicidio (Koivumaa-Honkanen et al. in American Journal of Psychiatry, 2001).

Felicità e programma di governo. Per prima cosa, partiamo da un concetto chiave nell’analisi delle determinanti della felicità, che è la comparazione sociale. E’ ormai consolidato in questa letteratura che la felicità individuale dipenda molto da quella altrui e che gli individui spesso si sentono felici anche quando le loro cose non migliorano ma peggiorano quelle degli altri o non sono peggiori di quelle degli altri. Per esempio, l’evidenza nel Regno Unito è che, sebbene la condizione individuale di disoccupazione sia negativamente associata alla felicità, la felicità cresce al crescere del numero di disoccupati nella stessa area (Clark in Journal of Labor Economics, 2003). Gli effetti negativi sul benessere della disoccupazione individuale, inoltre, sembrano essere elevati maggiormente nei paesi in cui la norma sociale respinge il concetto dell’assistenza, come ad esempio la Svizzera (Stutzer e Lalive in Journal of European Economic Association, 2010). Ai fini delle implicazioni di policy, la conclusione paradossale che si potrebbe trarre da questi risultati è che la riduzione della disoccupazione di massa potrebbe non necessariamente incrementare la felicità degli individui proprio perché gli individui valutano la propria condizione in relazione a quella degli altri. Ciò potrebbe valere a maggior ragione nelle aree del paese contraddistinte da una minore stigmatizzazione di tale condizione, come quelle del Sud Italia caratterizzate da una larga e persistente disoccupazione.

Aiuterebbe un reddito di cittadinanza? La risposta a questa domanda è decisamente più complessa. L’evidenza infatti è che l’impatto negativo della disoccupazione individuale sulla felicità non sia imputabile principalmente alla perdita di reddito ma in larga misura ai costi psicologici ad esso connessi (Feather, The Psychological Impact of Unemployment, 2010) come la perdita di autostima, la mancanza delle relazioni sociali che si instaurano sul luogo di lavoro, ed il senso di frustrazione per non poter contribuire a creare ricchezza. Se prendiamo l’economia della felicità sul serio, dunque, garantire un reddito non renderebbe necessariamente gli Italiani più felici, mentre un lavoro si. Ad onore del vero, ciò che renderebbe veramente felici sarebbe un lavoro stabile perché la precarietà e i rischi connessi ad essa sono negativamente correlati con la felicità. A questo punto si potrebbe anche affermare che la riforma Poletti del precedente governo possa aver reso i lavoratori effettivamente meno felici, almeno se confrontati ad i lavoratori a tempo indeterminato. In questa prospettiva, dunque, al fine di aumentare la felicità, la priorità sarebbe quella di incrementare l’occupazione, possibilmente con contratti a tempo indeterminato. Solo in seconda battuta si potrebbe pensare a forme di sostegno al reddito proprio perché tali forme non riuscirebbero a sanare integralmente il gap di felicità che scaturisce dall’assenza del lavoro.

E la flat-tax? In questo caso, la risposta appare relativamente più semplice. Sebbene infatti la riduzione del reddito associata alla tassazione ha effetti negativi sulla felicità individuale, la redistribuzione ad essa associata è valutata in senso ampiamente positivo dagli individui. Essendo la posizione relativa nella distribuzione dei redditi ciò che conta maggiormente per gli individui più che il reddito in sé, la corsa all’accumulazione del reddito allo scopo di superare gli altri contribuenti è frustrante e fonte di riduzione il felicità (Frey and Stutzer in Journal of Economic Literature, 2002). A questo punto, mentre una maggiore redistribuzione del reddito attraverso imposizione progressiva renderebbe questa corsa meno attraente, la flat-tax finirebbe per incentivare questa corsa e dunque rendere ancora più frustrati i soggetti che non riescono ad arrivare primi al traguardo.

L’uscita dall’euro non fa parte nel programma ma è argomento che ha fatto il giro del mondo scatenando paure, perplessità e dibattiti. Ci sembra quindi corretto aggiungere alcune nozioni. Come riporta un articolo apparso sul Telegraph nel novembre del 2017, la Brexit sembra aver reso più felici gli inglesi, ma non gli Scozzesi, Gallesi e Nord-Irlandesi. Però, sappiamo anche che se l’uscita dall’euro dovesse aumentare l’inflazione, ciò avrebbe effetti molto negativi sulla felicità. L’aumento del 5% dell’inflazione è infatti associato ad uno scivolamento nella categoria immediatamente più bassa rispetto a quella dichiarata (es. da abbastanza felice a poco felice, Di Tella, MacCulloch e Oswald in the American Economic Review, 2001). Riguardo la paventata riforma delle pensioni (quota 100), non ci sono ancora elementi sufficienti per determinarne gli effetti sulla felicità. Di certo essere vicini alla pensione e vedersela sfuggire di mano non ha fatto felici i lavoratori ma questa è una semplice considerazione ex-post determinata dagli esiti di voto.

Provando a concludere, l’esclusiva ricerca della felicità non sembra rappresentare una strada maestra per la valutazione delle politiche pubbliche. Ciò non significa ovviamente che non si debba tenere in conto la felicità degli individui. Il punto è che, spesso, ciò che migliora gli indicatori più canonici (PIL, occupazione, consumi, etc) rende anche gli individui mediamente più felici. Negli altri casi, il ruolo chiave della comparazione sociale può condurre al risultato paradossale di rendere equivalenti politiche che migliorano il benessere complessivo a politiche che implicano un peggioramento generale delle condizioni di vita, in una sorta di paradosso di Easterlin al ribasso. Al fine di scegliere le politiche più appropriate, una strada più convincente appare quella, invece, di prevedere una valutazione sistematica delle politiche pubbliche attraverso l’utilizzo di tecniche aggiornate di valutazione. In questa fase, si potrebbe immaginare di ampliare il set di indicatori da utilizzare nella valutazione affiancando agli indicatori economici più tradizionali anche quelli basati sul benessere soggettivo. In nessun caso, però, ci sembra opportuno trascurare il forte significato informativo degli indicatori economici tradizionali. Non fosse altro perché nella maggior parte dei casi se le cose vanno male, c’è ben poco da essere felici.

* Le opinioni espresse e le conclusioni sono attribuibili esclusivamente all’autore e non impegnano in alcun modo la responsabilità dell’Istituto.

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