Universalismo e innovazione: due esigenze centrali per la sanità pubblica

Tommaso Langiano si chiede come assicurare il costante miglioramento della qualità del SSN alla luce del mutato quadro epidemiologico ormai dominato dall’espansione delle malattie croniche. Langiano sostiene che il modello universalistico rappresenta ancora la risposta migliore, ma necessita di profonde innovazioni nelle modalità di finanziamento e di organizzazione delle cure. La politica di tagli delle risorse sanitarie pubbliche, oltre a produrre documentati effetti negativi sui cittadini, rischia di ostacolare tali innovazioni.

Il cambiamento ormai da tempo in corso del quadro epidemiologico pone ai sistemi sanitari sfide che devono essere affrontate innovando radicalmente le modalità di organizzazione e remunerazione delle attività sanitarie. L’innovazione deve, però, fermarsi ai confini del SSN.

Non è, infatti, in dubbio il modello universalistico che caratterizza il nostro sistema sanitario. Neppure il panorama internazionale suggerisce ragioni al riguardo. Un recente editoriale del British Medical Journal (2016, 353: 2216) afferma, ad esempio, che nessun modello sanitario permette, meglio di quello universalistico, il conseguimento dell’obiettivo fondamentale: assicurare l’accesso alle cure necessarie indipendentemente dalla capacità di pagare. Piuttosto, in quell’editoriale, si sottolinea che il modello universalistico è una condizione necessaria, ma non sufficiente: la tutela sanitaria universale si deve coniugare con il costante miglioramento della qualità del servizio affinché l’investimento produca valore per la società e per le persone.

Le malattie croniche dominano ormai il quadro epidemiologico attuale sia per la numerosità della popolazione interessata, sia per l’impatto organizzativo ed economico che producono sui sistemi sanitari.Le stime disponibili a livello internazionale indicano che il 42 per cento della popolazione soffre di almeno una malattia cronica ed il 23 per cento di più malattie croniche. Tali malattie non riguardano esclusivamente l’età anziana: in media, l’insorgenza avviene a 44 anni. Esse, inoltre, sono più frequenti nelle fasce di popolazione economicamente più svantaggiate: è stato stimato che vivere in aree economicamente deprivate equivale, in termini sanitari, ad un incremento di 15 anni di età. Il peso economico conseguente alla presenza di una malattia cronica equivale per le famiglie ad un perdita del 12-18 per cento del reddito familiare. Si stima che ormai l’86 per cento della spesa sanitaria è impiegato per il trattamento dei pazienti affetti da malattie croniche.

Non soltanto in USA e nel Regno Unito, ma anche in Germania e nei Paesi del nord Europa la consapevolezza delle nuove necessità che il mutato quadro epidemiologico già comporta per i sistemi sanitari è alla base di numerose sperimentazioni, finalizzate ad individuare i modelli più idonei di  erogazione e pagamento delle cure.Identificare e misurare il valore prodotto dalle attività sanitarie sta diventando il paradigma di riferimento per rendere compatibili la sostenibilità economica dei sistemi sanitari e la loro capacità di migliorare le condizioni di salute della popolazione.

Le modalità operative che sembrano realizzare quel paradigma sono il superamento della remunerazione legata alle singole prestazioni, poiché questa modalità incentiva i volumi di produzione e non  la  qualità dei risultati, e l’adozione di forme di organizzazione che promuovano l’integrazione fra le diverse fasi del ciclo di cura, che nei pazienti cronici è per definizione di lunga durata.Quindi, le sperimentazioni di nuovi modelli assistenziali sono soprattutto finalizzate a garantire la continuità assistenziale nelle diverse fasi in cui si articola il percorso di cura di un paziente cronico, attraverso la costituzione di team multispecialistici che garantiscano la cura del paziente sia dentro l’ospedale, sia dopo la dimissione; la costituzione di reti orizzontali fra ospedali; la forte integrazione dell’ospedale con la comunità.

Analogamente, l’idea che caratterizza le sperimentazioni di nuove modalità di remunerazione delle attività sanitarie è pagare per ciò che si ottiene, ove ciò che si ottiene non è misurato attraverso i volumi di produzione, bensì attraverso i risultati di salute prodotti. Per questo, i nuovi modelli di finanziamento prevedono la proporzionalità fra l’ammontare del pagamento e la misura degli esiti dei trattamenti, nonché l’utilizzo, quale unità di allocazione del pagamento, dell’intero ciclo di cura (“bundled payment”), invece della singola prestazione: gli esiti, infatti, sono valutabili in relazione all’intero trattamento e non alla singola prestazione.

Alcune innovazioni organizzative non sono il frutto di scelte di sistema, ma nascono dalla spontaneità del mercato: alcuni modelli sanitari alternativi, come le cosiddette “retail clinics” (ambulatori a basso costo ed accesso immediato, soprattutto collocati nei centri commerciali), che si stanno diffondendo con rapidità soprattutto in USA e nel Regno Unito, rispondono a esigenze reali dei cittadini ed evidenziano carenze significative dei sistemi sanitari, sebbene comportino il rischio di proliferazione di prestazioni non necessarie.

E in Italia? Negli ultimi anni il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) nel nostro Paese è stato sottoposto ad una drastica riduzione del finanziamento.La Corte dei Conti ha registrato una flessione della spesa sanitaria pubblica di due punti all’anno, in termini reali, nel quadriennio 2009-2013 (Corte dei Conti: Rapporto 2016 sul coordinamento della finanza pubblica, marzo 2016). La Corte segnala che si è ampliato il divario con gli altri Paesi in termini di risorse (pubbliche e private) destinate alla spesa sanitaria: “gli importi oggi sono inferiori della metà a quelli tedeschi e del 20 per cento a quelli francesi”.Il divario fra l’Italia e gli altri Paesi europei è confermato dall’OCSE: la spesa sanitaria pubblica italiana è inferiore di circa un terzo rispetto alla spesa media dei Paesi dell’area euro; questo divario è triplicato dall’anno 2000 in poi.

La consistente e persistente riduzione nel finanziamento del SSN ha prodotto documentati effetti negativi sui cittadini. Il già citato Rapporto della Corte dei Conti ha segnalato, in particolare, i seguenti:

  • l’aumento della spesa sanitaria sostenuta direttamente dai cittadini: nel 2013 essa costituiva il 3,2 per cento della spesa complessiva e risultava nettamente superiore rispetto a Germania (1,8 per cento) e Francia (1,4 per cento);
  • la crescita dei casi di rinuncia alle cure per ragioni di costo e di lunghezza dei tempi di attesa.

Il CERGAS-Bocconi (Rapporto OASI 2015) ha stimato che i cittadini italiani sostengono direttamente la spesa per una rilevante quota delle visite specialistiche (40 per cento), delle indagini diagnostiche (23 per cento) e delle prestazioni di riabilitazione (49 per cento).

Il sensibile peggioramento dei tempi di attesa, che determina la riduzione dell’accessibilità effettiva alle prestazioni, ed il ricorso frequente alle risorse proprie dei cittadini, è certificato dai dati del Piano nazionale per le liste di attesa relativi al periodo 2010-2013.

Cittadinanzattiva (XIV rapporto sulle politiche della cronicità) ha analizzato gli effetti della riduzione dell’accessibilità ai servizi per i pazienti affetti da malattie croniche: per il 62 per cento dei pazienti cronici del campione esaminato sono peggiorati i tempi di attesa, per il 53 per cento è peggiorata l’assistenza domiciliare, per il 43 per cento è aumentata la spesa direttamente sostenuta.

Il Rapporto 2016 dell’ISTAT ha evidenziato la proporzione di cittadini italiani che rinunciano alle prestazioni sanitarie: nel 7,5 per cento dei casi si rinuncia alle visite specialistiche; nel 4,7 per cento dei casi alle indagini diagnostiche. Lo stesso rapporto Istat ha segnalato che nel 2014, per la prima volta negli ultimi dieci anni, la speranza di vita alla nascita per la popolazione italiana è diminuita (di 0,2 anni per gli uomini e di 0,3 anni per le donne).

Ciò nondimeno, il gradimento per il SSN da parte dei cittadini, valutato dall’ISTAT, resta molto alto: 80 per cento. Il servizio sanitario universalistico è ancora percepito come un valore prezioso, anche nell’attuale fase di restrizione dei servizi garantiti.

La sostanziale riduzione del finanziamento che ha interessato il SSN negli ultimi anni non costituisce ancora un rischio per la sua natura universalistica. È molto più plausibile sostenere che concentrare l’attenzione dei decisori e degli operatori sulla riduzione delle risorse abbia determinato un sostanziale immobilismo rispetto alla necessità di cambiare e migliorare i modelli assistenziali e di pagamento ancora vigenti nel SSN.

Il decisore centrale sembra aver approfittato della crisi finanziaria globale per contrarre il finanziamento del SSN, forse anche al fine di conseguire una riduzione dei margini di inefficienza dei servizi sanitari. Non è evidente se questa operazione abbia prodotto effettivi miglioramenti nei livelli di efficienza del servizio: comunque, gli ultimi tre esercizi del SSN hanno registrato un risultato economico positivo (nell’esercizio 2015 si è avuto un avanzo pari a 346 milioni di euro).

Tuttavia, è certo ed evidente che la stretta finanziaria subita dal SSN si è concretizzata in una sostanziale riduzione dei livelli di tutela sanitaria per i cittadini, sotto forma di forte appesantimento dei tempi di attesa, marcato incremento della spesa sanitaria direttamente sostenuta dai cittadini e riduzione effettiva del ricorso alle prestazioni. Non vi sono ancora elementi fattuali per sostenere che si siano già realizzati effetti negativi sulla salute della popolazione, sebbene la documentata riduzione dell’aspettativa di vita possa essere considerata un segnale di allarme.

L’eventuale ulteriore riduzione del finanziamento del SSN determinerebbe una restrizione ancora più marcata dell’accesso alle cure per i cittadini più fragili, senza alcuna garanzia di un impatto positivo sui livelli di efficienza del servizio. Insistere nella riduzione ulteriore del finanziamento sarebbe, quindi, contraddittorio e controproducente, salvo che non si persegua il ridimensionamento della natura universalistica che caratterizza il sistema sanitario in Italia.

Come esplicitato in apertura, i confronti internazionali consentono di affermare che la configurazione universalista del nostro sistema sanitario è uno straordinario vantaggio sia per la sua sostenibilità economica, sia per i risultati di salute garantiti alla popolazione. Tuttavia, ridurre ulteriormente le risorse finanziarie di cui il SSN dispone, e che lo distanziano negativamente dalla media dei Paesi dell’area euro, ostacolerebbe ancora la sua capacità di affrontare le nuove sfide che lo accomunano agli altri sistemi sanitari: da questa capacità dipenderà la sostenibilità economica del SSN e la qualità dei servizi assicurati ai cittadini.

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