Unioni monetarie a confronto: la condivisione del rischio di shock asimmetrici nell’Eurozona e negli Stati Uniti

Corrado Pensabene si occupa delle difficoltà dell’Eurozona rispetto ai rischi derivanti da shock che colpiscono in modo asimmetrico gli stati membri. Dopo aver indicato i principali canali di condivisione del rischio all’interno di un’Unione Monetaria, Pensabene mette a confronto, rispetto ad essi, l’Eurozona con gli Stati Uniti per il periodo 2000-2016 e rileva differenze nei dati che permettono di individuare il ruolo dell’unione fiscale – presente nella più completa unione monetaria statunitense – nel favorire la condivisione di quel rischio.

Le difficoltà che l’Eurozona ha vissuto, anche in seguito alla crisi finanziaria, hanno indotto a interrogarsi sulla sua effettiva stabilità e a formulare diverse ipotesi di riforma. In particolare, si è discusso della capacità dell’Unione Monetaria Europea di far fronte a quelli che vengono chiamati shock asimmetrici, cioè perturbazioni economiche che colpiscono i vari paesi con intensità e in direzioni diverse, realizzando un’efficace condivisione dei rischi trai paesi all’interno dell’area. In questo contesto è usuale sollevare il problema dell’incompletezza dell’UME, cioè della mancanza di un’unione fiscale in base all’idea che essa potrebbe contribuire a dare soluzione a questo problema. Ciò rende particolarmente interessante il confronto con gli Stati Uniti, che rappresenterebbero un’unione monetaria completa. Numerosi studi hanno affrontato questo tema. Tra di essi ricordo quello di Alcidi e Thirion (Assessing the Euro Area’s Shock-Absorption Capacity: Risk sharing, consumption smoothing and fiscal policy, 2016 e Fiscal Risk Sharing and Resilience to Shocks: Lessons for the euro area from the US, 2017), quello di Dolls, Fuest e Peichl (Automatic Stabilizers and Economic Crisis: US vs. Europe, 2012) e quello di Asdrubali, Sorensen e Yosha (Channels of Interstate Risk Sharing: United States 1963-1990, 1996).

In queste note intendo contribuire a questo confronto presentando in modo comparato i dati relativi a quelli che possono essere considerati i principali meccanismi o canali di condivisione del rischio tra I paesi dell’Unione e prestando particolare attenzione quello che è più direttamente collegato all’Unione fiscale: il budget comunitario.

I quattro canali che considererò sono: i trasferimenti sociali, sia a livello federale che a livello nazionale; la condotta delle due Banche Centrali nella gestione dei tassi di interesse – un canale di risk-sharing spesso sottovalutato – e, infine, l’intensità dei mercati finanziari (in base a due diversi indicatori) e il ricorso ad essi da parte dei nuclei familiari. I primi due canali non necessitano di spiegazioni. Il terzo rileva poiché le fluttuazioni nei tassi di interesse possono determinare – in più di un modo – rilevanti redistribuzioni della ricchezza e, come è stato indicato (Cfr. Schelkle, The Political Economy of Monetary Solidarity: Understanding the Euro Experiment, 2017), questo può essere un importante meccanismo di condivisione dei costi di un’unione monetaria.

Per comprendere il ruolo che possono svolgere i mercati finanziari nella condivisione del rischio, si consideri il seguente classico esempio: una crisi di liquidità o una contrazione del PIL colpisca la Francia mentre la Germania sperimenti un surriscaldamento dell’economia. Se la fiducia degli investitori negli strumenti finanziari francesi restasse immutata, avremmo un trasferimento automatico di liquidità dalla Germania alla Francia e ciò attenuerebbe i costi dello uno shock asimmetrico. Tuttavia, questo meccanismo può funzionare solo se gli spread rimangono molto contenuti tra i paesi membri, e ciò avverrebbe se il rischio finanziario fosse condiviso a livello federale.

Per stimare e confrontare il funzionamento di questi canali mi sono servito delle banche dati di numerose istituzioni: BEA, Commissione Europea, BCE, Fred, Banca Mondiale, Eurostat e OCSE.

L’analisi dei dati relativi al primo canale (Tabella 1) mostra che vi è una grande differenza tra i trasferimenti americani e europei e ciò non può sorprendere se si compara la grandezza del bilancio federale americano (in rapporto al PIL) con quello dell’Unione Europea.

Benché calcolati al netto delle rispettive contribuzioni, i dati statunitensi sono decisamente superiori: nel 2010 la differenza arriva al 6.7%.

Rilevante è non soltanto la differenza nelle grandezze assolute ma anche quella nel loro andamento ciclico: i trasferimenti federali americani, in rapporto al PIL totale, sono enormemente cresciuti negli anni immediatamente successivi alla crisi del 2007 per poi declinare e stabilizzarsi a partire dal 2013. Dunque, la gestione dei trasferimenti federali in USA è stata fortemente anticiclica e ciò dovrebbe avere avuto l’effetto di attenuare le conseguenze degli shock asimmetrici. Non può di certo dirsi lo stesso per l’Eurozona. L’andamento della spesa sociale in rapporto al PIL mostra soltanto un’impercettibile (e ritardata) tendenza all’aumento dopo il 2007. La conclusione – scontata – è che questo canale di risk-sharing ha un’efficacia enormemente maggiore negli Stati Uniti.

Passando al secondo canale, quello dei trasferimenti sociali nazionali, la situazione cambia piuttosto radicalmente. Il confronto è stato condotto con riferimento ai trasferimenti sociali (al lordo delle rispettive contribuzioni) in rapporto al PIL totale effettuati dai singoli Stati membri delle due unioni monetarie nel periodo 2000-2016. Per quanto riguarda l’Euro Zona ho escluso dal calcolo, in ragione del loro rilievo limitato o per mancanza di dati, 8 paesi: Lussemburgo, Cipro, Slovenia, Slovacchia, Malta e le tre repubbliche baltiche. I risultati sono riportati nella Tabella 2.

In questo caso l’Eurozona presenta dati decisamente più elevati, in media pari a 4.2 volte quelli degli USA.

Analizzando i dati statunitensi è anche emerso che questa fonte di trasferimenti sociali debba in realtà essere supportata dal fondo federale in periodi di crisi, come è avvenuto nel 2008, e quindi non dà un contributo autonomo all’attenuazione degli effetti degli shock asimmetrici. Si potrebbe quindi concludere che l’Unione Monetaria Europea riesca a compensare l’assenza di trasferimenti sociali federali con quest’altra fonte di condivisione del rischio. Tuttavia, tale ipotesi va formulata con molta cautela dal momento che la spesa sociale nazionale dell’Eurozona non sembra aver seguito un chiaro andamento anticiclico; infatti tra il 2008 e il 2009 ha avuto soltanto un lieve aumento, dell’ordine del 2,5%.

Inoltre, va considerato che l’amministrazione dei trasferimenti a livello centrale e in modo coordinato può assicurare una migliore redistribuzione e può fungere da più efficace ammortizzatore sociale. Dunque, un ampio budget centralizzato può probabilmente generare un’esternalità positiva a vantaggio del funzionamento del canale di risk-sharing rappresentato dai trasferimenti nazionali, con l’effetto finale di ridurre i costi di un’unione monetaria. In base a queste considerazioni si può ritenere che i maggiori trasferimenti nazionali europei non consentano di raggiungere l’efficacia stabilizzatrice che hanno i fondi federali americani.

Dall’esame del terzo canale di risk-sharing, la gestione dei tassi di interesse, non sembrano emergere grandi differenze tra le due unioni monetarie.

I tassi di interesse utilizzati per il confronto delle politiche monetarie sono, per la BCE, la coppia di tassi che formano il corridoio EONIA, cioè quello di rifinanziamento marginale e di deposito presso la BCE; invece, per la Federal Reserve, l’Effective Federal Fund Rate, che rappresenta il suo principale strumento di intervento. Da questo confronto, emerge che entrambe le Banche Centrali hanno utilizzato in modo adeguato questo canale, reagendo prontamente all’evoluzione della crisi finanziaria. Tuttavia, la FED sembra avere seguito una strategia più “coraggiosa”, con questo riferendomi principalmente al fatto che i tassi di interesse sono stati alzati prima che non nell’EZ. Ciò può dipendere dal fatto che la FED non ha come unico obiettivo il controllo dell’inflazione. Tuttavia, queste considerazioni non sono sufficienti per individuare differenze rilevanti ai nostri scopi di comparazione e, dunque, la conclusione più attendibile è che questo canale non abbia operato diversamente nelle due unioni monetarie.

Per l’analisi del quarto meccanismo di risk-sharing, quello basato sul funzionamento del mercato finanziario.. ho utilizzato due diversi indicatori relativi al periodo compreso tra il 200 e il 2016. Il primo è la ricchezza finanziaria familiare totale pro capite, come percentuale del PIL totale dell’unione monetaria di riferimento. Il secondo è un indice del grado di apertura dei mercati, che tiene conto di varie forme di restrizione e controllo, anche indirette, al movimento dei capitali. Dall’analisi risulta che la ricchezza finanziaria complessiva nell’Eurozona è nettamente più elevata – circa il doppio – per tutto il periodo. Va però tenuto presente che i dati relativi agli Stati Uniti hanno risentito molto della crisi e quindi vanno presi con cautela in un’analisi di carattere più strutturale.

inoltre, il mercato statunitense appare più chiuso di quello europeo, mostrando in tutto il periodo valori più alti della media della UME e, dal 2010, anche di tutti i singoli Stati membri.

Questi risultati – la maggiore ricchezza finanziaria delle famiglie e l’apparente maggiore interconnessione tra i mercati finanziari – sembrano suggerire che questo canale di risk sharing sia molto efficace nell’Eurozona. Ma una valutazione a questo riguardo deve tenere conto di altri fattori ed in particolare della persistenza di marcati spread tra gli Stati membri. Al riguardo è utile anche ricordare che questi ultimi, se osservati dal punto di vista della ricchezza nazionale, sembrano dividersi in due gruppi: da un lato i paesi economicamente più forti e meno soggetti all’indebitamento privato e dall’altra Grecia, Irlanda e Portogallo, che hanno anche più sofferto a causa della crisi. Sembra quindi esservi un margine notevole di miglioramento dell’efficacia stabilizzatrice di questo meccanismo nell’Eurozona. E l’unione fiscale, contribuendo a ridurre la segmentazione dei mercati, potrebbe essere di aiuto per realizzare questo miglioramento.

In conclusione, il confronto che è stato qui condotto non consente assolute certezze. Tuttavia vi sono indizi che per fronteggiare gli shock asimmetrici la possibilità di gestire consistenti fondi federali sia di decisiva importanza, e potenzialmente più efficace di manovre anche di analoga grandezza effettuate dai singoli stati. E questo è un argomento a favore dell’Unione fiscale che peraltro, come si è detto, potrebbe avere effetti positivi anche su altri canali di condivisione del rischio.

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