Un’intervista di Tarantelli che parla di noi

Giuseppe Croce commenta l’intervista a Tarantelli del 1984, pubblicata su questo numero del Menabò, mettendo in evidenza la sua capacità di prevedere i cambiamenti del lavoro con i quali oggi ci confrontiamo, largamente indotti dalla tecnologia. Con fiducia, Tarantelli guarda alla possibilità di ridurre e rendere più flessibili gli orari di lavoro e coglie la portata storica del superamento della distinzione tra lavoro dipendente e autonomo che gli appare inevitabile. Tutto ciò crea problemi al sindacato che però dovrà continuare a svolgere un ruolo decisivo.

Seppure da un’epoca per molti aspetti ormai distante, numerosi passaggi di questa intervista rilasciata da Ezio Tarantelli nel 1984 sembrano parlare di noi e del nostro presente. Vi ritroviamo, con quasi quarant’anni di anticipo, temi e scenari che in quest’ultimo anno abbiamo percepito come “novità” portate dall’emergenza del Covid-19. In un passaggio Tarantelli dice “molti dipendenti – come già oggi siamo largamente in grado di prevedere – non si recheranno nemmeno più fisicamente sul posto di lavoro, essendo in grado di svolgere agevolmente da casa la propria attività”, e aggiunge, “ed è chiaro che anche lo sviluppo delle nuove tecnologie faciliterà questo tipo di evoluzione”.

Questa suggestiva “attualità” dell’intervista cattura la nostra attenzione e ci spinge a leggerla in cerca di intuizioni utili a rispondere alle domande di oggi.

Ma le risposte date all’intervistatore aiutano anche a conoscere meglio l’atteggiamento di Tarantelli nei confronti del cambiamento del lavoro, un aspetto forse meno noto di quanto lo sia il suo pensiero sulle politiche dei redditi e la lotta all’inflazione ma non meno prezioso.

A voler sintetizzare con una sola parola l’atteggiamento di Tarantelli rispetto alle trasformazioni del lavoro, credo si debba parlare di fiducia. Pur nella drammaticità di quegli anni, Tarantelli era mosso da una sostanziale fiducia nelle potenzialità positive che i cambiamenti in atto, tecnologici e non solo, avrebbero portato, a partire dalla possibilità di una riduzione diffusa degli orari di lavoro fino alla prospettiva di superamento delle gabbie spazio-temporali del lavoro fordista, una costruzione storica che, ci ricorda Tarantelli, non va scambiata per legge di natura.

A ben vedere, ritroviamo nelle sue risposte la stessa fiducia che anima il breve saggio dedicato alle Prospettive economiche per i nostri nipoti scritto da Keynes nel 1930. In quel saggio il cambiamento tecnologico è il motore che porta a miglioramenti del benessere sociale, pur aprendo un problema di distribuzione delle opportunità di lavoro, e consente alle società avanzate di raggiungere una minore dipendenza dal problema economico, il problema della scarsità e della lotta per la sussistenza, e di dedicarsi maggiormente agli scopi più autentici, non economici, della vita.

Come Keynes guarda al lungo periodo che corrisponde al succedersi di tre generazioni, così Tarantelli dice di voler guardare al “medio periodo”. L’uno anticipa la possibilità di una riduzione dell’orario di lavoro a 15 ore a settimana, utile anche “affinché il poco lavoro che rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile”, mentre l’altro considera possibile un part time generalizzato e argomenta che la riduzione di orario è, nella fase storica dell’intervista, l’unica realistica possibilità di contenere la disoccupazione di massa. Per entrambi, tuttavia, le gravi difficoltà economiche del loro tempo, erano da considerarsi “disturbi della crescita”. Lo dice esplicitamente Keynes ed è ciò che vale anche per Tarantelli là dove, come presupposto della sua ipotesi di riduzione dell’orario senza costi per le imprese, assume un tasso di crescita della produttività del 3% annuo proiettato nel decennio successivo (sulla proposta di riduzione dell’orario di Tarantelli si veda l’intervento di Croce e Faioli sul Menabò n.103).

Quale la base di questa fiducia che accomuna i due economisti? Riletta oggi, è forte la tentazione di ritenerla frutto di ingenuità, e quindi da non prendere troppo sul serio. Tarantelli era quindi ingenuo in questa intervista?

Non lo era, e infatti indica lucidamente che il punto di arrivo del cambiamento prefigurato, proprio come conseguenza della diffusione di orari di lavoro ridotti e non più standardizzati, è lo “sgretolamento della distinzione storica tra lavoro dipendente e indipendente”, un’espressione che lascia intravedere non solo luci ma anche ombre, opportunità e rischi. E aggiunge che questo scenario pone problemi “formidabili” ed “enormi” a sindacati e imprese.

Certo molti aspetti dell’economia si sono modificati in modo decisamente meno lineare di quanto forse assunto da Keynes e da Tarantelli. Ma né Keynes né Tarantelli intendono davvero “prevedere”, piuttosto essi sono impegnati a “discernere” alcune direzioni e potenzialità del cambiamento. Entrambi provano a volgere lo sguardo oltre le questioni urgenti del breve periodo per guardare all’economia come processo pienamente inserito nel flusso della storia, nel quale le esogene dei modelli, la tecnologia e le preferenze, così come le costruzioni sociali, il modello del lavoro dipendente novecentesco, non sono date e immutabili ma in profonda trasformazione. In un processo storico aperto, non deterministico, ci indicano le implicazioni favorevoli e le potenzialità delle tendenze in atto.

La fiducia di Tarantelli è quindi una fiducia razionale, che si regge su due presupposti, un contesto di crescita economica che si presenta ancora duraturo, e una lettura del cambiamento come portatore di opportunità e rischi.

Questa fiducia che animava Keynes nel 1930 e ancora Tarantelli nel 1984 appare oggi in gran parte venuta meno. La crescita si è interrotta, soprattutto in Italia, e siamo entrati in una lunga fase di stagnazione dagli esiti incerti. Lo stesso cambiamento tecnologico, pur procedendo spedito, ha prodotto effetti ambigui né è chiaro se sia effettivamente in grado di spingere ancora la dinamica della produttività come in passato (per es. R.J. Gordon, The rise and fall of American growth, 2016).

La lettura del cambiamento è oggi più timorosa, quasi spaventata. I decisori pubblici e l’opinione pubblica sono oggi meno propensi a considerare le opportunità e meno capaci di misurarsi con i rischi. Con le parole di Keynes verrebbe da dire che si è fatto più forte il “pessimismo dei reazionari i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti”. E questo genera un atteggiamento difensivo, in cui i modelli sociali consolidati, come quello del lavoro dipendente, tendono ad assumere la forza di leggi di natura.

Tarantelli indica come obiettivo prioritario l’occupazione e prefigura per il lavoro un approdo post-fordista fatto di “duttilità e mobilità” desiderate da lavoratori e lavoratrici, un orario di lavoro breve e flessibile, una normalità nella quale si lavora anche da casa, il superamento di “un certo tipo di gerarchia in fabbrica”. Questo, nelle sue parole, è l’orizzonte realistico verso cui indirizzare gli sforzi collettivi.

Quanto è distante questa visione da quella che caratterizza i nostri giorni? Stagnazione e disuguaglianze hanno fiaccato gli animal spirits collettivi. Tra le politiche economiche, oggi i sussidi sono a volte proposti come sostituti dell’occupazione. La riduzione dell’orario, non più frutto della crescita, si è di fatto realizzata come part-time involontario, adattamento alla stagnazione, ed è propagandata quale approdo felice della decrescita. Il cambiamento tecnologico, anziché come portatore di opportunità e rischi è guardato come mera minaccia. Il desiderio dei lavoratori di “duttilità e mobilità” è rimasto bloccato in una precarietà spesso senza prospettive, incagliato in un sistema dualistico.

Un altro aspetto importante che emerge dall’intervista riguarda i poteri di policy making nel mercato del lavoro. Per Tarantelli questi sono distribuiti tra una pluralità di soggetti e vanno esercitati su più livelli. Il modello teorico di riferimento è istituzionale, più ricco e complesso dello schema di interazione atomistica e anonima del mercato perfettamente concorrenziale. Non per questo la gestione del cambiamento può essere affidata a un unico potere politico, deus ex machina onnisciente e onnipotente. Da qui l’insistenza di Tarantelli sul ruolo delle “parti sociali”, del sistema delle relazioni industriali, delle singole aziende, dei consigli di fabbrica, con un sindacato chiamato a giocare una partita a livello centralizzato e un’altra, altrettanto importante per “efficienza ed equità sociale” e per il governo del cambiamento, a livello decentrato. Una contrattazione decentrata insostituibile per efficienza e equità così come per aderenza alle specificità aziendali.

Tarantelli sfida il sindacato (ma anche le imprese) a confrontarsi con il cambiamento, ad accompagnarlo anche attraverso la contrattazione aziendale, con realismo e intelligenza, e al tempo stesso annuncia il progressivo sgretolamento della distinzione storica tra lavoro dipendente e indipendente. Siamo di fronte a una contraddizione? Che ruolo può esserci ancora per il sindacato e la contrattazione collettiva se dovesse estinguersi la forma del lavoro dipendente che abbiamo conosciuto nel Novecento?

La contraddizione, ma non credo che di contraddizione si tratti, è oggi più che mai evidente di fronte a noi.

In questo anno e più trascorso in emergenza Covid il sindacato (e i governi) è sembrato incapace di immaginare altre forme di politiche del lavoro oltre l’accoppiata costituita dal blocco dei licenziamenti e l’estensione degli ammortizzatori sociali (con l’aggiunta di un utilizzo molto esteso di incentivi alle imprese sotto forma di sgravi fiscali sulle assunzioni sui cui limiti sono intervenuti Brunetti e Ricci sul Menabò), un’impostazione estremamente riduttiva negli strumenti attivati, di dubbia efficacia e che guarda, nel migliore dei casi, al solo mondo del lavoro dipendente a tempo indeterminato. D’altra parte, però, abbiamo visto un sindacato e un sistema di relazioni industriali che hanno trovato una nuova, inattesa centralità nel cercare e sperimentare soluzioni e accordi di grande importanza proprio su terreni perlopiù ignoti, quello della protezione della salute dei lavoratori durante la pandemia e quello della gestione del lavoro a distanza, con tutte le sue implicazioni sul benessere delle persone, sull’organizzazione delle imprese e sulla produttività, sulle forme del coinvolgimento e del controllo aziendale.

Proprio il cambiamento che tende a superare i tratti distintivi del vecchio modello di lavoro dipendente pone il sindacato di fronte a un bivio. Da una parte una sua possibile emarginazione alle isole residue, sempre meno grandi, nelle quali il lavoro dipendente manterrà le sue forme tradizionali. Dall’altra la possibilità di guadagnarsi una nuova centralità accettando di misurarsi con il cambiamento, con le sue opportunità e i suoi rischi, di inoltrarsi sulla frontiera frastagliata dei nuovi lavori. Tarantelli, non c’è dubbio, invita il sindacato a scegliere con fiducia la seconda strada.

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