Una sanità ammalata che si sta incamminando verso chine scivolose

Nerina Dirindin osserva che le continue restrizioni imposte alla sanità pubblica da un lato rappresentano una spinta alla razionalizzazione e alla riduzione di sprechi e dall’altro costituiscono una crescente giustificazione al disimpegno delle istituzioni nei confronti della tutela della salute. La mancanza di visione strategica e la crisi economica rischiano, ad avviso di Dirindin, di portare il sistema verso soluzioni scivolose, strumentalmente additate come risolutive dei problemi attuali.

Fino a qualche anno fa la sanità italiana godeva di buona salute, anzi era guardata con invidia dagli altri settori della Pubblica Amministrazione, in particolare dal resto del welfare. Disponeva di risorse consistenti e vincolate (le sole escluse dal patto di stabilità), contava su una legislazione articolata e a più livelli, godeva di un apparato tecnico-professionale molto qualificato, vantava un contesto stimolante di innovazione e ricerca, utilizzava strumenti di governo per lo più ignoti al resto della pubblica amministrazione (dall’istituto dell’accreditamento alla contabilità economica), contava su un buon livello di fiducia da parte della popolazione e su una reputazione internazionale sorprendentemente elevata (basta guardare le analisi dell’OMS e dell’OCSE). Inoltre, la cultura della sperimentazione e della valutazione propria del mondo clinico aveva contaminato (per quanto in modo ancora frammentario) tutto il settore, favorendo una maggiore attenzione non solo all’analisi della spesa ma anche ai risultati dei programmi di intervento. In tale contesto i professionisti godevano di un discreto prestigio ed erano consapevoli del valore sociale del loro lavoro, tanto da esercitare – nel bene e nel male – una grande influenza sulle decisioni di politica sanitaria, a livello nazionale e locale.

Non che tutto fosse perfetto. I margini di miglioramento erano ampi e noti, ma erano espressione di un settore che aveva energie e potenzialità per crescere, non di un settore in sofferenza. Le due principali debolezze, l’ambito socio-sanitario e i divari interregionali, erano oggetto di continui interventi normativi e organizzativi, tanto studiati quanto poco incisivi (anche perché condannati a inseguire traguardi che si spostavano sempre più in avanti). Ma il dinamismo del settore non era in discussione. E, soprattutto, la malattia non era più un rischio economico per il cittadino: ogni famiglia aveva sperimentato direttamente che in caso di grave (ma anche lieve) infermità il sistema era in grado di garantire i trattamenti necessari senza oneri a carico del beneficiario (salvo eventualmente il ticket). Le antichissime paure di non poter sostenere il costo delle cure sembravano definitivamente superate, grazie a un sistema in cui paga chi può a favore di chi ha bisogno. Tutto ciò in presenza di una spesa sanitaria pubblica inferiore di circa un terzo alla media dei principali paesi dell’area Euro.

Infine, sembrava ormai avviata (ancorché non consolidata) la lunga e faticosa transizione da una sanità semplice erogatrice di servizi a un sistema a tutela della salute dei cittadini, in cui i cittadini non sono semplici consumatori di prestazioni così come gli operatori non sono semplici produttori di servizi, ma produzione e consumo sono un mezzo per migliorare il benessere delle persone (e non il fine del sistema).

Purtroppo, oggi, la realtà è cambiata. La sanità italiana appare in grande sofferenza. Il settore non fa più invidia a nessuno. Anzi, è sempre più disorientato e scorato.

La crisi economica e le scelte di politiche di welfare stanno diventando due nuovi fattori di rischio per la salute degli italiani. L’Istat documenta che l’11% della popolazione italiana rinuncia, pur avendone bisogno, ad almeno una prestazione sanitaria; e per circa la metà delle situazioni ciò avviene a causa delle crescenti difficoltà economiche. In linea con i dati sull’andamento dell’economia e dell’occupazione, il fenomeno si registra molto di più al Sud che al Nord. E ciò avviene in un momento in cui per molte famiglie sostenere spese straordinarie, non necessariamente esorbitanti, è un problema: basta una visita specialistica, qualche accertamento diagnostico e una terapia farmacologica per mettere in crisi il bilancio di una famiglia.

Le scelte di politica economica (austerità e riduzione della spesa pubblica) stanno colpendo pesantemente il settore sanitario. Da molti anni, le diverse coalizioni che si sono succedute al Governo non hanno inserito nella loro agenda politica il tema della tutela della salute o lo hanno inserito in modo del tutto marginale. La consapevolezza della qualità del nostro sistema (spendiamo poco e otteniamo buoni risultati) appare spesso estranea alle conoscenze dei decisori. Il ruolo delle politiche per la tutela della salute quale strumento fondamentale per il benessere delle persone e per la coesione sociale è al massimo declinato come dichiarazione di principio, ma non è tradotto in azioni conseguenti. Solo i settori ad alta tecnologia e intensità di ricerca, in particolare il farmaceutico, sono oggetto di attenzione in quanto fattore di sviluppo e di occupazione, mentre i settori ad alta intensità di lavoro (la gran parte dei servizi sanitari e sociali!) sono percepiti come improduttivi, costosi, poco qualificati, superati e da considerare marginali. E invece il futuro è in buona parte nelle mani di chi sa programmare ed erogare cure personalizzate sul territorio, in cui la tecnologia si intreccia con le relazioni umane, l’assistenza primaria ha la stessa dignità dell’alta specializzazione, le persone sono assistite prevalentemente nel loro ambiente familiare, la qualità è perseguita non solo nelle strutture cd di eccellenza ma in tutti i contesti assistenziali, la sicurezza e il decoro delle strutture è parte integrante del servizio, i malati e gli anziani non sono considerati un peso ma persone colpite da rischi a cui tutti siamo esposti e che vorremmo fossero affrontati con il contributo di tutti (la fiscalità generale).

I molteplici vincoli imposti alla spesa per il personale dipendente (diminuita di oltre 1,5 miliardi di euro dal 2010 al 2014) stanno indebolendo il servizio sanitario in tutte le regioni, elevando l’età media dei dipendenti e demotivando la principale risorsa su cui può contare un sistema di tutela della salute. Preoccupante è l’uso sempre più intensivo della forza lavoro, con turni massacranti, largo impiego di precariato, ricorso al lavoro temporaneo, penalizzazioni economiche e di carriera, fenomeni che sono stati oggetto di richiami anche dall’Europa e dalla Corte di Giustizia europea. E sono sempre più frequenti i casi di abbandono del sistema pubblico da parte di specialisti qualificati. Le politiche che (anche indirettamente) destrutturano e sviliscono gli operatori rendono vulnerabile il sistema e ne pregiudicano il futuro.

Le continue restrizioni stanno inoltre aggravando le diseguaglianze sociali e territoriali già esistenti nel Paese. Chi non ha strumenti (o conoscenze) per superare le barriere all’accesso ai servizi, chi vive in territori interessati dal ridimensionamento dell’offerta, chi necessita di assistenza socio-sanitaria sempre più carente, finisce col perdere la fiducia nel sistema ed è costretto a rinunciare alle cure, o a parte dei propri risparmi. Non a caso secondo l’OCSE, il livello delle prestazioni sanitarie erogate dal sistema pubblico è in Italia sensibilmente inferiore a quello dei principali paesi dell’area Euro e il divario è cresciuto nel corso del tempo, con importanti ripercussioni a carico dei gruppi più svantaggiati. Le stesse misure sull’inappropriatezza, per quanto ispirate da un principio ampiamente condiviso (a nessuno devono essere erogate prestazioni inutili o potenzialmente dannose), rischiano di far apparire la sanità pubblica una matrigna cattiva che nega i servizi: infatti, in assenza di coinvolgimento dei professionisti e di informazione ai cittadini, il provvedimento finisce col trasformare uno strumento di tutela della salute (e di riduzione degli sprechi) in un espediente per allontanare gli assistiti dai servizi pubblici. E puntare tutto sulla scelta di porre a carico del cittadino le prestazioni inappropriate rivela il pensiero debole alla base della strategia: una logica di mero risparmio per le finanze pubbliche e non di tutela del consumatore disinformato di prestazioni sanitarie. Senza contare l’effetto di spostamento delle attività dal pubblico al privato, quest’ultimo destinato ad essere percepito come molto più comprensivo e benevolo del pubblico.

E così, abbiamo forse raggiunto il punto più basso della storia delle politiche di tutela della salute.

Ne è conferma la polemica sulle responsabilità delle regioni la quale cavalca un’onda mediatica di sfiducia, anzi di denigrazione, del livello regionale (certamente non priva di fondamento, ma colpevolmente sommaria) e rivela comportamenti volti più a scaricare le responsabilità da un livello di governo all’altro che ad affrontare seriamente i problemi. D’altro canto basta pensare alla vicenda del superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari dove, di fronte a inadempienze gravi di alcune regioni, il Governo tarda a procedere con il commissariamento che la legge 81/2014 aveva previsto proprio per superare eventuali inerzie, venendo così meno al ruolo che il governo centrale dovrebbe svolgere a garanzia dei diritti dei cittadini. Uno dei tanti casi in cui entrambi i livelli di governo si dimostrano carenti. Il livello centrale tende a non interferire con il lavoro delle regioni (anche su temi rilevanti) intervenendo solo in caso di squilibri di bilancio o di singoli accadimenti, mentre le regioni tendono a limitare il proprio impegno entro i confini delle risorse loro attribuite, anzi utilizzano l’argomento delle restrizioni finanziarie per giustificare le proprie inadeguatezze, tecniche e politiche. Un mix potenzialmente esiziale perché allenta le responsabilità di tutti e riduce la resistenza nei confronti delle insidie di una crisi e di un attacco al welfare mai conosciuti prima d’ora.

D’altra parte sembra sempre più inarrestabile la corsa alla rivitalizzazione delle vecchie mutue, ora ridefinite welfare aziendale: un sistema che a parità di coperture costa almeno un terzo in più del sistema attuale (per gli oneri connessi a caricamento, gestione amministrativa, riserve, ri-assicurazioni, ecc.), è causa di maggiori diseguaglianze (ad esempio perché esclude chi non ha un lavoro) e grava comunque sui contribuenti (per via delle agevolazioni fiscali). L’unico (presunto) merito – peraltro mai reso esplicito dai suoi sostenitori – è quello di offrire occasioni di crescita all’intermediazione finanziaria-assicurativa, oltre che di produrre benefici di varia natura a favore dei soggetti che sottoscrivono gli accordi aziendali, siano essi datori di lavoro o organizzazioni sindacali. Una strada che anziché produrre più efficienza produce effetti redistributivi a danno dei più deboli. E che farebbe fare al nostro Paese un grave passo indietro riportandolo ai tempi in cui l’attenzione prevalente era alla salute dei lavoratori (e della loro capacità lavorativa) e non delle persone che compongono la nostra comunità. Una china scivolosa, causa di perplessità che non possono essere liquidate come ideologiche e antiquate.

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