Una replica alle critiche di Biasco

Giorgio Rodano, replicando alle critiche di Biasco, chiarisce innanzitutto che le differenze non riguardano il giudizio (negativo) sull’opportunità di abbandonare l’euro. Quindi, dopo aver ricordato che ogni modello va valutato rispetto alle domande che si pone, affronta i principali punti sollevati da Biasco in particolare quello dell’adeguatezza dei modelli di statica comparata a affrontare questo problema; quello della rilevanza dei capitali e deipatrimoni e quello delle ripercussioni sull’Eurozona.

Credo che il lettore del Menabò abbia avuto qualche difficoltà a mettere a fuoco le critiche che Salvatore Biasco rivolge al mio lavoro sull’euro, visto che esse riguardano un testo molto più ampio e articolato di cui quello pubblicato sul Menabò costituisce una rapida e incompleta sintesi. Questo anche perché l’opinione di Biasco sulla questione dell’uscita dall’euro è, per vari aspetti, molto simile alla mia: entrambi riteniamo che non sarebbe affatto una buona idea, nel senso che l’operazione è, per usare un eufemismo, assai problematica e che i vantaggi che ci possiamo attendere (a fronte di costi certi e largamente sottovalutati) sono, sempre per usare un eufemismo, assai sovrastimati. Del resto, anch’io ho inizialmente avuto qualche difficoltà a mettere a fuoco le critiche di Biasco, visto che, appunto, sul tema dell’euro ci troviamo dalla stessa parte. Ma, come vedremo subito, esse non riguardano tanto i contenuti quanto il metodo di cui mi sono servito per discutere la questione.

Biasco concentra le sue osservazioni su un modello macroeconomico che uso per confrontare la posizione di un generico piccolo paese che fa parte di una unione monetaria con le caratteristiche dell’Eurozona (io non faccio nomi ma Biasco assume che si tratti dell’Italia), prima e dopo la sua eventuale uscita dalla moneta unica. Pur ammettendo che ha “comunque” il merito di mostrare che le cose sono più complicate di come la mettono i fautori dell’uscita dall’Euro, a Biasco il mio modello non piace per tre ragioni: (i) il modello trascura il ruolo dei patrimoni, che invece, come Biasco argomenta in modo convincente, svolgono un ruolo decisivo nel processo di fuoriuscita dalla moneta unica; (ii) il modello è statico (confronta due situazioni a regime: quella dell’economia prima di uscire dalla moneta unica e quella dopo che è uscita, una volta completato il processo di aggiustamento verso l’equilibrio); invece per trattare la questione è necessaria un’analisi dinamica e sequenziale; (iii) comunque il modello non va bene perché trascura le implicazioni della decisione di uscire dalla moneta unica sul resto delle economie (è la cosiddetta “ipotesi di piccolo paese”), implicazioni che invece non possono essere trascurate.

Prima di entrare nel merito di queste obiezioni, mi preme sottolineare una differenza di ottica tra l’analisi di Biasco e la mia. Nel suo caso il fuoco è posto sui problemi che si incontrano nel corso del processo di abbandono (da parte dell’Italia) della moneta unica: si tratta, secondo lui, di un percorso a ostacoli talmente rilevanti da rendere praticamente impossibile, in tempi ragionevoli, arrivare a un approdo in cui il paese riacquista il pieno controllo della sovranità monetaria e del cambio. Vale la pena leggere, al riguardo, un altro lavoro di Biasco  scritto una decina di mesi fa, la cui conclusione è appunto che l’uscita dall’euro non è un’opzione disponibile: non possiamo far altro che rimanere “dentro”, anche se la cosa (ragionevolmente) può non piacerci.

La questione che io affronto nel modello contestato da Biasco – che, per inciso, occupa circa un settimo del mio lavoro, nel quale, dunque, affronto molti altri temi – è un’altra. Mi occupo degli obiettivi che, secondo i fautori dell’uscita dall’euro, possono essere raggiunti con tale decisione. Per citare un recente intervento di Luciano Gallino su La Repubblica (22/9/2015) uscire dall’euro permetterebbe di rilanciare le possibilità di crescita del paese, salvaguardare i salari e la spesa sociale e, last but not least, sfuggire all’oppressione del debito pubblico (facendo default). Col modello mi metto nella situazione più favorevole ai fautori dell’uscita e mostro che alcuni dei risultati che loro si attendono non sono “robusti”, nel senso che essi vengono meno non appena si introduce nel quadro, come è inevitabile, la variabilità di prezzi e salari. In particolare, dal modello emerge che le condizioni per tenere in equilibrio l’economia fuori della moneta unica sono le stesse che consentono di tenerla in equilibrio dentro, ossia il contenimento del salario reale (o, in una prospettiva di medio-lungo periodo, l’aumento della produttività). Se invece si vogliono salvaguardare i salari reali, ne consegue (per citare il mio intervento sul Menabò) “il risultato, apparentemente paradossale ma in realtà logico, che la politica economica perde il controllo del cambio nominale e può far crescere il prodotto solo se fa diminuire i prezzi e i salari nominali (un compito piuttosto ostico per qualsiasi governo)”.

Per definizione, ogni modello trascura qualcosa. Il problema è, appunto, se quel che rimane fuori è rilevante. Ma la questione della rilevanza (ossia del realismo del modello) non va giudicata in sé, bensì rispetto alla domanda cui il modello è chiamato a rispondere. E quando un modello ha una finalità negativa (mostrare che certi risultati non valgono) il requisito del realismo non è necessario. Anzi, più il modello è semplice e meglio è. Per venire al merito della questione, io non ho fatto altro che esplicitare il modello cui fanno implicitamente riferimento i fautori dell’uscita dall’euro con l’unica aggiunta (indispensabile) della variabilità di prezzi e salari. E mi sono limitato a leggere i risultati che produce. Che sono interessanti, non solo per quanto riguarda i salari, ma anche, per esempio, per quanto riguarda il ruolo delle esportazioni.

È vero che non vi ho introdotto, come mi rimprovera Biasco, capitali e patrimoni. Ma questo non significa, come può verificare chi ha la pazienza di leggere il mio lavoro (lungo) sull’argomento, che io ne sottovaluti il ruolo e l’importanza. Anzi, in quello scritto ho provato a mettere in luce il ruolo, ambivalente ma potenzialmente destabilizzante, dei flussi internazionali di fondi non solo per chi decide di abbandonare la moneta unica (su cui rinvio alle condivisibili considerazioni di Biasco) ma anche per il funzionamento della stessa area valutaria comune. E del resto l’introduzione dei patrimoni nel mio modello è possibile: lo rende solo un po’ più complicato e meno trasparente, ma non ne altera la qualità dei risultati (anzi, come era prevedibile, li rafforza).

Biasco mi obietterebbe che anche questa introduzione non assolverebbe il modello dal suo peccato originale, quello di essere un modello di statica comparata, che confronta due posizioni di equilibrio, quello di partenza e quello di arrivo, senza dire nulla sul processo che conduce dall’uno all’altro. E aggiungerebbe che, nel caso in oggetto, l’equilibrio finale non ci sarebbe neppure. Più che a me, questa critica di Biasco sembra rivolta all’intera macroeconomia (e, più in generale, all’uso dei modelli nella scienza economica) e al suo modo di ragionare tenendo ferme alcune variabili (le cosiddette “esogene”) e facendone variare una alla volta in modo da valutare gli effetti di un singolo cambiamento, “a parità di condizioni”. Non voglio certo affermare che questo modo di fare economics sia perfetto o che sia l’unico possibile. E convengo con Biasco (e con la stragrande maggioranza degli economisti) che, soprattutto quando si vuole ottenere un risultato in positivo e non in negativo, il ricorso a metodi dinamici che esplorino i processi e non si limitino al confronto degli equilibri sia indispensabile. Ma rinunciare del tutto al metodo della statica comparata mi sembra un po’ come gettare via il bambino con l’acqua sporca.

Nel caso specifico, però, secondo Biasco io farei un uso un po’ troppo disinvolto di questo metodo. Nella questione dell’eventuale uscita dell’Italia dall’euro molte delle variabili esogene che io tengo ferme non possono essere ritenute tali perché l’uscita dell’Italia avrebbe una serie di rilevanti ripercussioni sul resto dell’Eurozona. Non voglio difendermi osservando che io non parlo dell’Italia ma di un generico “piccolo paese”, che è proprio l’ipotesi che permette di mettere da parte la questione delle ripercussioni. Come ho detto prima, il mio modello aveva una finalità negativa (altrimenti mi sarei servito di una qualche variante di “modello a due paesi” che permette appunto di trattare le ripercussioni). Se si parla dell’Italia nell’Eurozona mi sento di essere d’accordo con Biasco: l’Italia non può essere considerata un paese “piccolo” e perciò le ripercussioni ci sono. Il problema, semmai, è capirne le dimensioni e la rilevanza. A mio parere, però, l’introduzione del tema delle ripercussioni non rafforza ma indebolisce le argomentazioni di Biasco. Non ho lo spazio per trattare questo punto in modo esauriente. Mi limito perciò a dire che, date le sue dimensioni, la minaccia dell’Italia di abbandonare l’Eurozona, potrebbe indurre i nostri partner a un atteggiamento più costruttivo e conciliante: se cioè l’Italia è too big to exit il suo potere contrattuale potrebbe aumentare e la stessa opzione di uscire potrebbe diventare meno irrealistica, se non altro, appunto, come minaccia. Sarebbe il gioco di tenere sulla corda i partner europei; quello che ha tentato Varoufakis e che è fallito perché la Grecia era un piccolo paese. Se volessimo cimentarci in questo gioco quale sarebbe il nostro potere contrattuale? Ovvero: quanto siamo grandi per i nostri partner? Non lo so. Anche per questo non mi sentirei di consigliare di provarci.

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