Un “whatever it takes” per la politica fiscale europea

Alessandro Piergallini riflette sul ruolo della politica economica europea nel fronteggiare l’emergenza Covid-19, soffermandosi sulla politica fiscale. La conclusione principale a cui giunge, tenendo conto del verosimile impatto macroeconomico della crisi pandemica e della limitata efficacia della politica monetaria, è che la politica fiscale dovrebbe ispirarsi a principi keynesiani, come nel secondo dopoguerra, superando il Patto di Stabilità, incentivando gli investimenti pubblici, promuovendo l’adozione di Eurobond.

“Let’s be clear: we knew, or should have known, that something like COVID-19 was going to happen. I don’t mean that we should have expected a pandemic, although public health experts have been warning about the likelihood of such an event for years. What I mean is that we should have known that sooner or later — and probably sooner rather than later — we would face an adverse economic shock that conventional monetary policy couldn’t offset”.

(Paul Krugman, The Case for Permanent Stimulus, 2020)

“C’è il momento in cui ogni scelta diventa irreversibile”.

(Marguerite Yourcenar, Archivi del Nord, 1992)

 

Nonostante in una celebre poesia, dal titolo Se, Joseph Rudyard Kipling ci ammonisca come il “Trionfo” e la “Rovina” siano entrambi “impostori”, è plausibile che le conseguenze economiche e sanitarie della crisi pandemica legata alla diffusione del Covid-19 si rivelino, per dirla con Mario Draghi, di “proporzioni potenzialmente bibliche”. Dal punto di vista economico, la pandemia in atto si configura, in effetti, come uno shock esogeno tragicamente avverso che coinvolge simultaneamente la domanda aggregata, l’offerta aggregata e il settore finanziario. Tale shock si scaglia simmetricamente (anche se non sotto il profilo temporale) su una struttura economica, quella europea, ancora gravata in molti Stati Membri dai postumi della Grande Recessione e, come se non bastasse, dalle conseguenze nefaste più correttamente self-defeating (cfr. Krugman, 2010, 2015) delle politiche di consolidamento fiscale prodotte dal Fiscal Compact, che di fatto si sono collocate agli antipodi rispetto al principio macroeconomico di base secondo cui, per dirla con John Maynard Keynes, “the boom, not the slump, is the right time for austerity”.

In un recente articolo pubblicato su NBER Working Papers,. R. Barro, J. Ursua, e J. Weng, (“The Coronavirus and the Great Influenza Pandemic: Lessons from the ‘Spanish Flu’ for the Coronavirus’s Potential Effects on Mortality and Economic Activity”, NBER Working Papers, N. 26866) interpretano la pandemia influenzale “Spagnola” che causò 39 milioni di morti nel periodo 1918-1920, il 2% della popolazione mondiale di allora, come un “worst-case scenario”. L’analisi dei dati per 43 paesi ha condotto gli autori a inferire un impatto negativo sui livelli pro-capite del prodotto interno lordo e del consumo privato per un paese tipo dell’ordine del 6% e dell’8% su base annua, rispettivamente, che andrebbero interpretati come un plausibile “limite superiore” nel caso del Covid-19. Due considerazioni sembrano tuttavia appropriate al riguardo. La prima considerazione è che le interdipendenze economiche tra i paesi dovute alla globalizzazione economica e finanziaria sono di gran lunga più pronunciate nel caso attuale rispetto al secolo scorso. Ciò può avere indotto non pochi studiosi di economia, non ultimo Nouriel Roubini, a ritenere che l’impatto macroeconomico del Covid-19 possa rivelarsi perfino comparabile ai numeri della Grande Depressione del 1929-1933. La seconda considerazione è connessa al fatto che gli effetti quantitativi non sono policy-free: tali effetti dipendono in modo cruciale dalle politiche economiche che si adotteranno per fronteggiare la crisi. “Crisi” deriva dalla parola greca krìsis, che presa alla lettera significa “giudizio”, ossia implica una forma di discernimento che richiede di abbandonare una situazione e di accoglierne, o elaborarne, una nuova. In altri termini, la crisi pandemica non funge soltanto da stress test per le istituzioni esistenti, ma configura altresì un’opportunità per intraprendere passi in avanti che conducano a un “nuovo corso” in termini di disegno della politica economica. Che tipo di cambiamento è desiderabile che adottino i policy makers europei?

Prendiamo le mosse da due dati di fondo. Il primo dato è generale e proviene da un poderoso lavoro di Jared Diamond pubblicato nel 2014, dal titolo Armi, acciaio e malattie. La tesi di Diamond risiede nella constatazione che, nella storia degli ultimi 13 mila anni, esperienze collettive dolorose quali i conflitti bellici, le epidemie e i genocidi abbiano agito come i principali “acceleratori” dei processi di innovazione in svariati campi, che includono i modelli e le culture organizzative. Risulta dunque assai probabile che l’attuale epidemia globale funga da elemento di discontinuità anche per la condotta di politica economica. C’è stato “un prima” e ci sarà “un dopo” strutturalmente diverso.

Il secondo dato di fondo è più tecnico e riguarda la politica monetaria. Per dirla con Paul Krugman: “A dozen years after the global financial crisis, we’re still living in a world of very low interest rates. At this point it’s clear that low rates are the new normal; that is, we’re in an era of secular stagnation”. In condizioni di tassi di interesse nominali uguali o prossimi allo zero, di vera e propria trappola di liquidità permanente, la politica monetaria convenzionale risulta essere impotente nel sostenere la domanda privata, poiché come è noto you cannot push on a string. La politica monetaria non convenzionale specie il Quantitative Easingrafforzata recentemente dalla Banca Centrale Europea attraverso il cosiddetto Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) dell’ordine di 750 miliardi, e reso altresì scevro da vincoli in termini di quote acquisto di titoli sovrani, risulta un potente espediente per abbassare il costo del servizio del debito, ma non per “resuscitare” lo stato delle aspettative di famiglie e imprese. Come ci insegna la teoria macroeconomica tradizionale, e anche quella più recente basata sui modelli di ottimizzazione intertemporale (cfr.  J. Benhabib, S. Schmitt-Grohé, M. Uribe  “Avoiding Liquidity Traps”, Journal of Political Economy, 2002), per tirarsi fuori da spirali di deflazione combinate con output gap negativi in condizioni di trappola della liquidità, è necessario il supporto della politica fiscale. Una strada alternativa, evocata da Jordi Galí, in teoria è costituita dall’Helicopter Money  da non confondere con il Quantitative Easing (cfr. Miles, 2020) che consiste in un aumento dei trasferimenti pubblici (o riduzione delle tasse) a favore di famiglie e imprese finanziato direttamente con emissione di moneta. L’obiezione, parafrasando Milton Friedman, è che il bilancio del settore pubblico è in un certo senso sempre in pareggio: il problema risiede nell’identificare le imposte “nascoste”. E la tassa che si nasconde dietro il finanziamento monetario della spesa pubblica è l’imposta da inflazione. In altri termini, il rischio dell’Helicopter Money è quello di “passare dalla padella alla brace” da una moderata deflazione a un’elevata inflazione, potenzialmente fuori controllo come ci insegna la storia.

Escludendo che la strada dell’Helicopter Money possa essere realmente percorribile, poiché facilmente assimilabile a un’aperta violazione della no-bail-out clause contenuta Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, la politica monetaria finisce con l’avere un’efficacia limitata, per cui risulta necessario ricorrere alla leva del deficit spending finanziato con debito. A tal proposito, tre aspetti appaiono rilevanti.

In primo luogo, occorre instaurare un mood keynesiano della politica fiscale simile a quello prevalente nel secondo dopoguerra italiano e non solo (cfr. D.C. Mueller, “The Growth of Government: A Public Choice Perspective”, IMF Staff Papers 1987), quando le autorità di politica economica si impegnavano a manovrare le poste del bilancio pubblico in modo da stabilizzare la domanda aggregata a un livello tale da minimizzare l’output gap, “whatever it takes”. Il punto fondamentale è che un impegno di questo tipo, se credibile, produce l’effetto di incrementare il livello di fiducia di famiglie e imprese e di ridurre l’incertezza dei mercati, rendendo per via di un semplice meccanismo di “signaling gli interventi tesi a stabilizzare la spesa aggregata meno necessari “in equilibrio”. Nella situazione attuale l’adozione di un mood keynesiano richiederebbe preliminarmente un aumento ingente della spesa pubblica e sarebbe favorita dai bassi tassi di interesse prodotti dal Quantitative Easing, che hanno l’effetto, conformemente alla letteratura, di amplificare i moltiplicatori della politica fiscale (cfr. V.A. Ramey, “Ten Years after the Financial Crisis: What Have We Learned from the Renaissance in Fiscal Research?”, Journal of Economic Perspectives, 2019).

In secondo luogo, sebbene la recente sospensione del Patto di Stabilità e Crescita costituisca un’importante, direi storica, decisione affinché gli Stati Membri possano ricorrere a politiche fiscali discrezionali pienamente giustificate dalle attuali necessità sanitarie ed economiche, appare al contempo decisivo intraprendere un percorso volto a superare il rigido sistema di regole fiscali a livello europeo. Era il 2002 quando l’allora Presidente della Commissione Europea Romano Prodi arrivò a definire il Patto di Stabilità “stupido, come tutte le decisioni rigide”, forse dopo aver letto il celebre pamphlet di Carlo M. Cipolla. Come anche Jean Paul Junker nel 2017 affermò: “there has to be a final farewell to austerity, perhaps the greatest error of the crisis”. I risultati empirici di C. House, C. Proebsting e L. Tesar (“Austerity in the Aftermath of the Great Recession”, Journal of Monetary Economics 2019) indicano come le politiche di austerità adottate nel periodo successivo alla Grande Recessione in ottemperanza del Fiscal Compact abbiano comportato una significativa diminuzione del prodotto interno lordo, del tasso di inflazione e delle esportazioni nette all’interno dell’Europa, conducendo in alcuni casi persino a un aumento self-defeating del rapporto debito-PIL. Di qui deriva la necessità di riformare il sistema delle regole fiscali in modo da privilegiare gli investimenti pubblici, avviando alla creazione di un “dividendo” in termini crescita economica in grado di giustificare il ricorso a “giochi à la Ponzi onesti”, secondo la definizione di Willem Buiter, ossia alla possibilità di ricorrere a deficit primari giustificati da una dinamica intrinsecamente stabile del debito pubblico per effetto di una crescita nominale superiore al costo del servizio del debito.

In terzo luogo, è necessaria una strategia dell’Unione Europea a livello centralizzato, attraverso la creazione di Eurobonds, conformi alla definizione originaria di Jacques Delors, ossia intesi non come condivisione dei debiti in essere degli Stati Membri ma come strumento per reperire a basso costo le risorse finanziarie necessarie per fronteggiare un’emergenza comune senza precedenti. Come dimostra il caso degli Stati Uniti, che prescrissero una capacità fiscale sovranazionale nella costituzione del 1787 proprio per far fronte a una crisi che aveva gravemente inficiato la precedente confederazione, centralizzare parte dell’azione fiscale è imprescindibile, come ci insegna Alexander Hamilton, al fine di reagire con risorse comuni a problematiche comuni. Al tempo in cui si scrive, la questione che riguarda la possibile adozione di Eurobonds è ancora oggetto di serrato dibattito in sede di Ecofin. È auspicabile che si pervenga a un accordo che permetta di raggiungere l’adozione di misure unitarie. In assenza di un’azione coordinata, il futuro dell’Europa sarebbe seriamente a rischio. Ci affidiamo dunque alle recenti parole di Ursula von der Leyen: “ho in mente un’Europa fondata sulla solidarietà la nostra più grande speranza e il nostro investimento in un futuro comune”. Si spera che il concetto di solidarietà che ha in mente von der Leyen qualifichi l’Europa come “unione de facto” e non come una mera “unione de jure” composta da Stati disgregati sotto il profilo economico e sociale.

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