Un Nobel che vale doppio

Civil Servant ricordando che il premio Nobel per la fisica è stato attribuito a Giorgio Parisi soprattutto per i suoi contributi alla teoria della complessità, avanza la tesi che questo campo di ricerca ha interessanti implicazioni per l’economia. In particolare, esso potrebbe smontare il dominante paradigma delle microfondazioni delle teorie macroeconomiche. L’analisi dei sistemi complessi dimostra infatti che le dinamiche aggregate dipendono molto di più dalle modalità di interazione tra gli individui che non dalle loro caratteristiche e comportamenti.

Se fossi stato nei panni dei membri dell’Accademia reale svedese delle scienze, avrei assegnato a Giorgio Parisi il Nobel per l’economia oltre a quello per la fisica, perché i suoi studi sui sistemi complessi spiegano un gran numero di fenomeni economici molto meglio delle teorie mainstream. In un sistema complesso non conta tanto il comportamento dei singoli componenti, ma piuttosto l’interazione tra di loro. Tutto il contrario del paradigma della microfondazione della macroeconomia, che imperversa nelle accademie dagli anni settanta, assieme ai jeans, e che in ultima analisi sembra ispirarsi all’approccio metodologico enunciato efficacemente nel 1960 dal principe Antonio de’ Curtis, detto Totò, secondo il quale è la somma che fa il totale. Per i microfondatori, infatti, basta spiegare come si comporta un singolo individuo per prevedere il risultato aggregato della rispettiva collettività, che è la semplice somma di quelli attesi per ciascuno di essi. Eppure Aristotele ci aveva messo in guardia, qualche millennio fa, contro questa ed altre “fallaciae compositionis”, considerandole poco più che un equivoco linguistico, in cui si attribuisce al tutto una caratteristica delle sue parti (p.es. quando si dice che il miglior governo è quello dei migliori). Su questa rivista Gianluigi Nocella ha evidenziato il carattere fortemente ideologico, e addirittura antiscientifico, del paradigma della microfondazione e di come abbia plasmato le politiche economiche dell’ultimo mezzo secolo con risultati disastrosi.

Giorgio Parisi non ha applicato la teoria della complessità all’economia, ma al problema del cambiamento climatico, che tuttavia ha molti punti in comune con la “scienza triste”. Il primo è che le previsioni del tempo sono inattendibili almeno quanto quelle economiche, soprattutto per quanto riguarda gli eventi estremi ed il lungo periodo. Il secondo è che non si capisce quasi nulla dell’evoluzione dei fenomeni metereologici ed economici analizzando quello che succede in una singola area. Il terzo aspetto è che fatti lontani nel tempo e nello spazio, apparentemente insignificanti, possono influenzare ciò che accade qui ed oggi.

La teoria della complessità spiega parecchi paradossi del clima e dell’economia, oltre che della fisica. Da un lato mostra che gli agenti economici (e non solo) possono essere più razionali di quelli di Lucas e più lungimiranti di quelli di Barro, ma quando interagiscono tra loro possono anche produrre risultati complessivi simili, se non peggiori, di un gruppo di perfetti idioti. Ad esempio, i raffinati strateghi che giocano la finale di un torneo di poker non riescono a cambiare la posta neanche di un cent e la somma di vincite e perdite è esattamente pari a zero, proprio come se al tavolo ci fossero dei pivelli. Dall’altro, la stessa teoria mostra anche come un insieme di stupide particelle, scontrandosi tra loro a caso, riesce a costruire montagne, a far cambiare il clima (che è il settore specifico che ha motivato il Nobel a Parisi), a far esplodere crisi finanziarie, ecc. Il tutto senza nemmeno essere guidate da una mano invisibile. In altri termini, l’approccio della complessità suggerisce che il risultato finale di ogni azione individuale dipende più dal comportamento degli altri che dalle proprie doti personali. In fondo, la mitica galoppata di Maradona dalla sua metà campo verso il goal in Argentina-Inghilterra sarebbe finita con una frustrante palla persa se sulla sua strada si fosse scontrato con il più scadente dei giocatori che si trovava lì per caso al momento giusto. Infatti quella prodezza non si è quasi mai più ripetuta.

Alla stessa logica risponde la diffusione di un virus, di cui ha parlato recentemente proprio Parisi. Non contano troppo la capacità del virus di infettare e mutare, ma piuttosto le occasioni di contagio, ovvero le interazioni tra individui malati e sani. Infatti molti agenti patogeni letali come il Covid, l’HIV e l’Ebola sono stati inoffensivi per secoli fino a quando sono rimasti confinati in qualche landa desolata. Quindi un lockdown e qualche mascherina sarebbero più efficaci di qualsiasi cura…se non distruggessero l’economia e la società. Gli stessi vaccini funzionano soprattutto perché ostacolano la trasmissione del virus tra individui, non perché curano la malattia, che infatti può svilupparsi in forma lieve.

Ci sono parecchi esempi in cui la complessità gioca brutti scherzi agli scienziati. Per esempio, in fisica, il cosiddetto modello standard, che riesce a spiegare tutte le proprietà note delle singole particelle sub-atomiche, sembra arrendersi difronte ad un fenomeno macroscopico come la gravità, che ha a che fare proprio con l’interazione (attrazione) tra particelle. All’opposto, la teoria della relatività spiega bene la natura e gli effetti della gravità, ma dice poco su quello che accade tra le particelle, forse per rispettarne la privacy. Per quanti sforzi siano stati fatti, non è stata ancora elaborata una teoria del “tutto” soddisfacente, che metta assieme gravità e meccanica quantistica. Questa contraddizione dovrebbe suggerire agli economisti di tener distinta la teoria macroeconomica dalla spiegazione delle caratteristiche e dei comportamenti degli agenti economici presi singolarmente. Eppure ogni cuoco dilettante sa che una gustosa meringa è qualcosa di più di un mix di viscido albume e stucchevole zucchero a velo.

E’ difficile stabilire se la teoria della complessità sia più conservatrice o progressista. In economia è stata introdotta (timidamente) da pensatori ultraliberisti come Ludwig von Mises e Friedrich August von Hayek, tuttavia anche Keynes riteneva che il risultato di un investimento in borsa non dipendesse solo da fattori oggettivi, ma piuttosto dall’interazione tra le aspettative e i comportamenti di tutti gli altri operatori. Inoltre il paradigma della complessità è stato utilizzato da vari economisti non ortodossi che lo hanno contrapposto a quello degli agenti razionali ottimizzanti, tipico dell’economia mainstream.

Secondo la teoria della complessità il risultato finale dello contro casuale tra particelle (o agenti) non è affatto democratico: ci sono alcune di loro più fortunate o abili delle altre, esattamente come gli agenti economici. Lo dimostrò uno dei precursori (a sua insaputa) di questo approccio, Ludwig Eduard Boltzmann, che scoprì come nei gas ideali, tenuti a temperatura e pressione costanti, alcune molecole sono molto più veloci delle altre, mentre la maggior parte di esse si muove ad una velocità più vicina allo zero che a quella delle primatiste. Insomma anche tra le molecole ci sarebbe una tendenza spontanea alla disuguaglianza, esattamente come in economia. Anche Pareto, infatti, trovò che la distribuzione dei redditi era asimmetrica e concentrata tra i più ricchi, e Gibrat dimostrò che, anche se tutte le imprese crescessero a tassi casuali, la loro distribuzione per numero di addetti sarebbe ugualmente asimmetrica, con una lunga coda verso le più grandi, come quella che si osserva nella realtà.

La teoria della complessità sembra dunque giustificare le disuguaglianze, come le teorie più conservatrici, ma allo stesso tempo mina alle basi uno dei pilastri del liberismo, ossia i vantaggi della deregulation. Infatti questo approccio dimostra che per stimolare lo sviluppo non basta lasciare liberi gli agenti di agire secondo le proprie preferenze, perché il risultato aggregato dipende da come essi interagiscono tra loro. Se ognuno progredisce solo a spese degli altri, allora l’economia piomba in un gioco a somma zero in cui i guadagni di alcuni corrispondono esattamente alle perdite degli altri, senza alcun progresso generale. Se poi questa competizione assorbe risorse il risultato aggregato è addirittura negativo.

L’aspetto più inquietante della teoria della complessità è che in genere questo approccio non prevede un unico esito possibile, ma un’ampia varietà di risultati pur partendo dalle stesse condizioni iniziali. Questa caratteristica ne ha certamente ostacolato la diffusione tra gli economisti, che preferiscono aggrapparsi al rassicurante mito di un equilibrio unico, seppure di lungo periodo. In fondo, è difficile presentarsi davanti ad un policy maker per dirgli candidamente che le sue politiche potrebbero avere più o meno qualsiasi risultato. Inoltre non fa piacere a nessun agente economico essere considerato una stupida particella, seppure solo nell’ambito di in un modello teorico. Last but not least, il funzionamento di un sistema complesso non può essere generalmente descritto tramite qualche equazione, più o meno difficile da risolvere, ma richiede simulazioni numeriche. Lo sanno bene gli astronomi, che si sono rotti la testa inutilmente per trovare una soluzione generale al problema dell’orbita di appena tre corpi che si attirano reciprocamente secondo le eleganti leggi di Newton e di Keplero.

Ci sono parecchi esempi di ambiguità delle conclusioni della teoria della complessità, pur partendo da condizioni iniziali identiche. Ad esempio, se si ipotizza che gli individui si incontrano a caso scambiandosi una quantità fissa di denaro, il risultato finale di questo processo sarà una perfetta equi-distribuzione delle risorse. Se invece gli scambi sono proporzionali alle dotazioni del più povero, allora le risorse si distribuiranno più o meno secondo la curva di Pareto (con una gobba vicina allo zero, piena di poveri, e una lunga coda a destra riservata ai ricchi). Se infine siamo in un survival game alla coreana, in cui chi vince prende tutto quello che ha la controparte, finiamo in un incubo descritto da Marx (con un solo capitalista e miliardi di nullatenenti) e da Sraffa (con un solo monopolista che ha distrutto progressivamente tutti i concorrenti).

Nonostante la teoria della complessità abbia ormai più di un secolo (solo una trentina di anni in economia), molti governi e istituzioni internazionali continuano ad utilizzare modelli microfondati per supportare le proprie politiche economiche. Per adattare i loro schemi previsivi ai dati reali dimostrano un supremo sprezzo del ridicolo ipotizzando una maggioranza schiacciante di individui “irrazionali”, con vincoli di liquidità o con tempi di aggiustamento biblici, ovvero l’opposto degli agenti neoclassici su cui si fondano questi modelli. Per esempio, QUEST il modello utilizzato dalla Commissione Europea, prevede un 40% di famiglie che, anche volendo, non ottimizzano nulla perché non hanno abbastanza liquidità; un numero di disoccupati che, nonostante l’economia funzioni al meglio, varia solo del 5% ogni anno; costi di aggiustamento dei prezzi, dei salari, del capitale e dell’occupazione che comportano un adeguamento completo ai valori ottimali in qualche decina di anni. E’ da basi teoriche così solide che derivano le “raccomandazioni” sulle liberalizzazioni e sulle riforme strutturali della Commissione.

Tener conto della complessità dovrebbe indurre ad una maggiore prudenza sugli esiti di queste politiche. Ad esempio, nel caso delle liberalizzazioni, si devono considerare la dissipazione di risorse dovuta alla competizione e gli effetti secondari legati proprio all’interazione tra individui. Una società ed una economia estremamente competitive somigliano molto ad un survival game, il cui esito finale è quasi sempre un accordo collusivo tra i più forti ai danni di tutti gli altri. Che questo generi sviluppo è davvero discutibile. Di fronte a queste ed altre contraddizioni ha vacillato perfino la fede assoluta nell’approccio della microfondazione dell’ultraortodosso Thomas Sargent, forse illuminato sulla strada di Santa Fè, dove si trova uno dei più importanti centri di ricerca sulla teoria della complessità.

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