Trumponomics: protezionismo a bassi tassi di interesse

Giuseppe De Arcangelis esamina il protezionismo di Trump sostenendo che ha un duplice obiettivo: orientare la domanda dei consumatori USA verso i prodotti nazionali anche per contrastare l’aumento di risparmio derivante dal drastico taglio delle tasse; ridurre il deficit commerciale, soprattutto verso Cina e India. De Arcangelis illustra le condizioni richieste per raggiungere questi scopi, ed in particolare la necessità di una politica monetaria accomodante, permettendo anche di comprendere le ragioni dell’ira di Trump nei confronti di alcune recenti dichiarazioni di Draghi.

Lo scorso mese di maggio è stato uno dei più caldi dal punto di vista dell’attivismo commerciale degli Stati Uniti. Il 10 maggio l’amministrazione USA ha aumentato dal 10 al 25 per cento i dazi su 200 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina portando il dazio medio ponderato sui prodotti cinesi a oltre il 18 per cento. Uno studio del Peterson Institute for International Economics (PIIE) firmato da Chad Bown ed Eva Zhang (Bown, C, P., Zhang E., “Trump’s 2019 Protection Could Push China Back to Smoot-Hawley Tariff Levels”, PIIE Trade and Investment Policy Watch, 14 May 2019) ricorda che il dazio che si dovrebbe applicare tra membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) – quali sono USA e Cina – è inferiore al 4 per cento! Il dazio applicato a paesi non aderenti all’OMC è del 38,6 per cento. Se, come annunciato, l’amministrazione americana estenderà il dazio del 25 per cento anche su altre importazioni, per un valore pari 300 miliardi di dollari, il dazio medio sulla Cina supererà il 27 per cento (si veda la fig. 1).

Il fronte orientale non è stato l’unico. Sono state minacciate nuove barriere commerciali contro il Messico se non dovesse limitare l’emigrazione verso gli USA, soprattutto dei migranti provenienti da altri paesi dell’America Latina. La misura ha sorpreso poiché a novembre scorso il Messico aveva firmato il nuovo trattato di libero scambio USMCA con gli USA e il Canada in risposta a un’iniziativa proprio dell’amministrazione USA per rivedere i termini del precedente accordo NAFTA.

In realtà, il Messico rappresenta un problema non tanto per essere terra di passaggio dei migranti provenienti dall’America Centrale e Meridionale, ma perché è la porta di ingresso per i beni cinesi che evitano parte dei dazi da pagare per gli scambi diretti con gli USA. Non a caso l’interscambio Messico-USA ha superato quello Cina-USA dal 31 marzo 2019, ovvero dopo che l’introduzione dei dazi sulla Cina ha cominciato ad avere effetto (si veda la fig. 2).

Figura 2 – Le importazioni USA da Cina e Messico

Nei primi giorni di giugno l’amministrazione USA ha anche confermato l’annuncio di marzo scorso per il ritiro dei privilegi del Sistema Generalizzato delle Preferenze nei confronti della Turchia e soprattutto dell’India. Il Sistema Generalizzato delle Preferenze prevede un regime tariffario agevolato per i paesi in via di sviluppo ed emergenti. Per l’India rappresentava un vantaggio notevole poiché azzerava i dazi su una serie di prodotti esportati negli USA. La decisione ha provocato una reazione da parte indiana che dal 16 giugno ha imposto dazi su 28 prodotti d’importazione statunitensi. La misura è anche conseguenza dell’inclusione dell’India tra i paesi colpiti dai dazi su acciaio e alluminio del 2018. Al G20 di fine giugno Trump e Modi si dovrebbero incontrare e si potrebbe avere una revoca di queste misure, con un cambio di direzione come altri cui l’amministrazione USA ci ha abituato in questi ultimi mesi.

Sebbene siano uno strumento a metà tra politica ed economia, anche le sanzioni applicate nei confronti dell’Iran e della Russia possono essere interpretate come una forma di attivismo nella politica commerciale che riporta alla memoria il periodo tra le due guerre mondiali del secolo scorso, come ricordano anche Chad Bown ed Eva Zhang nell’articolo citato sopra.

Come interpretare questo attivismo commerciale dell’amministrazione Trump? Perché gli effetti negativi che si associano all’introduzione dei dazi (ad esempio, aumento dei prezzi) non spaventano?

Per comprendere le dinamiche politico-economiche dell’attuale amministrazione USA è utile riferirsi ad altri due fattori che aiutano anche a inquadrare gli attacchi via Twitter di Trump alla politica monetaria europea e alle dichiarazioni di Mario Draghi, in occasione del vertice di Sintra dello scorso 19 giugno.

Trump è stato eletto come reazione agli effetti negativi che la globalizzazione ha avuto su una parte dell’economia americana. Uno dei consiglieri economici più influenti dell’amministrazione attuale è Peter Navarro, da tempo tra gli economisti sostenitori della linea anti-globalizzazione. Il protezionismo è visto come lo strumento più efficace per ridurre alcuni dei deficit commerciali bilaterali più ampi – di qui, la ragione delle misure contro Cina e India. Proteggere le imprese nazionali con i dazi significa andare incontro alla base elettorale di Trump; questo fattore politico gioca un ruolo determinante, soprattutto ora che si avvicinano le elezioni del 2020.

Ma il protezionismo non costa? Lo studio recente di Amiti et al. (M. Amiti, S. J. Redding e D. Weinstein, “The Impact of the 2018 Trade War on U.S. Prices and Welfare”, NBER Working Papers 25672, 2019) ha calcolato in 800 dollari/anno per famiglia gli effetti negativi della reintroduzione di dazi elevati sull’economia USA. Tuttavia, si tratta di effetti medi che si percepiranno lentamente e in un periodo di tempo che probabilmente andrà oltre novembre 2020. Di contro, gli effetti del taglio delle tasse attuato drasticamente lo scorso anno sono ben più visibili e immediati.

Un altro fattore rilevante ha a che fare con le condizioni monetarie. L’economia americana da più di dieci anni sta funzionando con tassi di interesse molto bassi, addirittura nulli fino alla fine del 2015. I quattro aumenti dei tassi ufficiali del 2018 si sono fermati ad un valore di riferimento del Fed Fund Rate del 2,25-2,50 per cento. Nelle settimane scorse il presidente della Fed Jeremy Powel ha dichiarato che il sentiero di aumento dei tassi dovrà essere rivisto alla luce del raffreddamento dell’economia americana. L’interruzione del processo di innalzamento dei tassi trova giustificazione non solamente nella dinamica meno vivace del PIL, ma anche in un pass-through dei dazi sui prezzi che è stato sorprendentemente molto contenuto.

La politica monetaria risulta quindi accomodante e accompagna la politica commerciale attiva sia sul fronte interno con tassi di interesse ancora molto bassi, sia come fattore che limita l’apprezzamento del dollaro e compensa gli effetti negativi del protezionismo sui prezzi.

Un valore basso del dollaro è fondamentale e così si possono capire le ire del presidente USA nei confronti di Mario Draghi per la ventilata continuazione da parte della BCE di una politica monetaria che potrebbe essere più espansiva di quella della Fed, e quindi potrebbe impedire di tenere basso il valore del dollaro nei confronti dell’euro. Tutto ciò è sorprendente se si considera che le accuse di manipolazione del cambio da parte dei partner degli Stati Uniti non hanno più alcuna base. Sebbene nel periodo 2003-2013 paesi come la Cina abbiano utilizzato il cambio per promuovere le proprie esportazioni, nel 2018 la manipolazione del cambio verso il basso per penetrare nel mercato USA è stata la più lieve da oltre un decennio (si veda Collins, C. Gagnon J., “Currency Manipulation Continues to Decline”, PIIE Trade and Investment Policy Watch, 6 June 2019).

Trumponomics vs. Reaganomics. La Trumponomics si caratterizza per una doppia azione. Da una parte, il protezionismo della politica commerciale orienta la domanda dei residenti verso i prodotti interni (Buy American), ma necessita di un dollaro debole per assorbire gli effetti dei dazi sui prezzi interni. Dall’altra, politica fiscale molto attiva, principalmente sul versante della riduzione del carico fiscale.

Il disegno è simile alla Reaganomics. Ma, diversamente dagli anni 80 del secolo scorso, i tassi di interesse nominali (e reali) sono storicamente bassi e, con il limite vincolante dello zero, aiutano a mantenere un cambio del dollaro deprezzato in grado di assorbire parte della dinamica dei dazi sui prezzi interni.

Politica monetaria accomodante con tassi prossimi allo zero e politica commerciale attiva sono, dunque, gli ingredienti della ricetta Trump in economia. La Reaganomics terminò con una successione di deficit di conto corrente trasformando gli USA nell’economia più indebitata con il resto del mondo. La Trumponomics rischia di aggravare ulteriormente questa situazione se la politica di beggar-thy-neighbor attraverso cambio e dazi non sarà in grado di limitare i deficit commerciali.

Le diverse condizioni finanziarie pongono altri interrogativi. Ad esempio, in alternativa alle ritorsioni commerciali (o non solamente), come principale concorrente degli USA la Cina potrebbe far leva sulla sua posizione di creditore internazionale. Nonostante il suo attivo commerciale si stia gradualmente riducendo, la Cina rimane uno dei maggiori finanziatori del debito USA. Il 17 per cento del debito estero USA è in mani cinesi (oltre il 7 per cento del debito pubblico USA). La vendita straordinaria di titoli del debito USA che si è verificata a maggio scorso da parte cinese (più di 20 miliardi di dollari, la maggiore da due anni) può essere interpretata in quest’ottica. Quanto sia credibile la minaccia del ritiro dai titoli statunitensi è da valutare considerando che per lo stock di riserve cinesi non ci sono molte alternative altrettanto remunerative a parità di rischiosità.

Tempi duri attendono l’economia mondiale, come si è detto recentemente e in modo preoccupato in occasione della riunione dei ministri finanziari dei maggiori paesi industrializzati in Giappone.

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