Trump tax reform

Ruggero Paladini descrive le principali caratteristiche della riforma fiscale proposta di recente da Trump e ricorda, in particolare, che essa interessa la tassazione personale e quella societaria e che prevede anche l’abolizione dell’imposta di successione. Paladini osserva che nonostante la riforma avvantaggi i più ricchi, in particolare, l’1% e ancor più lo 0,1% al top, acuendo ulteriormente le già elevate disuguaglianze, il consenso che si sta creando attorno ad essa è molto esteso.

La riforma fiscale in sintesi. Thomas Piketty ha definito le alte aliquote marginali sulle imposte personali come una storia anglosassone (possiamo aggiungere: anche nordica). Questa storia è terminata nel settembre 1986 con la riforma fiscale di Reagan; la Personal Income Tax (PIT) viene ridotta a due aliquote, 14% e 28%, più un’addizionale del 5% in alcuni casi. Di fronte al vistoso calo delle aliquote, veniva allargata la base imponibile, eliminando una serie di deduzioni e di tassazioni agevolate, come quella sui capital gain.

La riforma passò con una maggioranza trasversale di due terzi, quasi analoga tra repubblicani e democratici. Il vento della tassazione ottimale, con la struttura di aliquote marginali calanti, aveva spinto verso la soluzione concordata nella commissione congiunta Camera-Senato. Ma a contribuire alla svolta aveva partecipato anche il fatto che ogni anno un migliaio di milionari risultavano a PIT zero (un ruolo particolare lo giocavano le deduzioni nel caso di acquisto di immobili).

Tuttavia a cominciare con la presidenza Clinton l’aliquota più alta risale al 39,6%. Ancora adesso le aliquote sono sette: per la maggioranza dei contribuenti il 10%, 15% e 25% (quest’ultima fino a 91.900 dollari per i contribuenti singoli e 153.100 per le coppie). Per i contribuenti più facoltosi si aggiungono altre quattro aliquote: 28%, 33%, 35% e dopo i 418.400 (singoli) o 470.700 (coppie) 39,6%. All’imposta federale si aggiungono le imposte statali o locali, che possono portare l’aliquota sul 43-44%.

Le linee guida della riforma di Trump specificano, al momento, pochi punti: le aliquote della PIT si riducono a tre: 12%, 25% e 35% (salvo un accenno alla possibilità che il Congresso decida di innalzare leggermente l’aliquota più alta). Per quanto riguarda la corporation tax (CIT), l’aliquota scenderebbe dal 35% al 20%. Al momento altre indicazioni scarseggiano. Tuttavia l’articolazione della riforma di Trump dovrebbe seguire le proposte presentate l’anno scorso da Paul Ryan, lo speaker della Camera.

Sulla base di quelle proposte si può dire che la deduzione di base per i contribuenti PIT quasi raddoppia, passando da 6.350 a 12.000 per i singoli e da 12.700 a 24.000 per le coppie. Tuttavia, molte deduzioni specifiche vengono abolite (anche quella di 1.550 per i non vedenti) salvo gli interessi sui mutui ipotecari e le donazioni liberali. Viene anche meno la possibilità di dedurre le imposte statali o locali, il che determina un aumento delle aliquote complessive. Questa esclusione costituisce una raffinata perfidia, perché sono gli Stati e le amministrazioni democratiche che hanno le aliquote più alte al fine anche di finanziare più servizi sociali e, soprattutto, migliori scuole pubbliche (ma bisognerà vedere come reagiranno gli elettori).

Come accennato, la CIT scende con un calo del 43%. Altrettanto rilevanti sono le modifiche della base imponibile, che si ispirano alla tassazione cash flow, con deduzione immediata del 100% delle spese di investimento (esclusi però gli immobili) e limitazioni nella deducibilità degli interessi passivi. La misura viene presentata come valevole per un quinquennio. Inoltre, le imprese dovrebbero effettuare il border adjustment che consiste nella esenzione delle esportazioni e tassazione delle importazioni. L’idea è cioè quella di rendere imponibile le vendite all’interno del paese, ma non quelle destinate all’estero.

Ovviamente, poiché gli USA importano ben più di quello che esportano, ne seguirebbe un aumento della base imponibile, ma lo scopo non è di recuperare gettito, quanto piuttosto quello di scoraggiare le importazioni ed incentivare le esportazioni. Questo è per la verità possibile a livello d’imposte indirette, basta pensare all’imposta sul valore aggiunto europea, ma applicare il criterio alle imposte dirette è cosa che urta contro regole internazionali di tassazione. E’ altresì probabile che le imprese del settore della distribuzione agiscano contro la misura, con la minaccia di aumento dei prezzi.

Per i redditi d’impresa, sia individuali che in forma societaria, viene eliminata la alternative minimum tax, che pone un limite alla riduzione del peso fiscale. Inoltre, i redditi distribuiti da parte di società con uno o pochi proprietari vengono tassati all’aliquota fissa del 25%, cioè all’aliquota intermedia tra le tre proposte per la PIT. C’è anche un accenno generico ad una riduzione della doppia tassazione dei dividendi.

Un ultimo aspetto che vale la pena di segnalare è l’eliminazione dell’imposta sulle successioni. Questa imposta, che ovviamente riguarda solo i patrimoni più importanti, ha un interessante effetto, negativo, di feedback sulle donazioni liberali, effetto che è stato stimato in una riduzione di circa il 40% di questi lasciti che è uno dei modi più importanti con cui i più ricchi riducono l’imposta di successione.

Trump ha accompagnato la proposta assicurando che essa non favorisce i ricchi, ma il cittadino medio. I calcoli effettuati dal Urban-Brookings Tax Policy Center, un serio istituto di Washington, ci dicono che si tratta di un’altra bugia del mentitore seriale. Il quintile più basso ottiene sgravi per lo 0,5%, che salgono al 3,3% per il quintile più alto. Ma per il top 1% lo sgravio è dell’ordine di 8,5%, e per il top 0,1% si arriva a 10,2%. Non solo quindi in cifre assolute, ma anche in percentuale la riforma avvantaggia i ceti più abbienti.  Complessivamente il costo delle misure è notevole; il Tax Policy Center ha stimato in oltre 5 trilioni di dollari le minori entrate in dieci anni, senza considerare gli interessi sul maggior debito pubblico.

Alcune considerazioni. Sono tre le spinte verso la riforma fiscale di Trump. La prima è quella tradizionale della destra repubblicana, cioè il favore nei confronti delle politiche dal lato dell’offerta (la supply side economics di Ronald Reagan). La tesi è che il prelievo fiscale scoraggia l’offerta di lavoro, disincentiva gli investimenti e l’attività d’impresa, e che tanto più alte sono le aliquote, tanto maggiore è l’effetto negativo sull’attività produttiva. Abbassare quindi le aliquote, in particolare quelle più alte della PIT, ha effetti positivi sull’economia, favorisce quindi i lavoratori e, in particolare, si autofinanzia in larga misura se non del tutto. L’amministrazione Trump contesta quindi le valutazioni del Tax Policy Center, le cui stime peraltro tengono conto di normali moltiplicatori keynesiani (i quali, come è noto, sono inferiori a quelli della spesa pubblica, in particolare agli investimenti).

Una seconda spinta è invece propria di quei repubblicani, ormai molto influenti, che si rifanno alle posizioni del c. d. TEA party (tax enough already, cioè le tasse sono già troppe). L’obiettivo principale è la compressione della spesa pubblica (con l’eccezione di quella militare) attraverso un’azione a tenaglia: da un lato, riducendo la pressione fiscale, per cui ogni taglio di imposta è benvenuta, dall’altro combattendo ogni forma di debito pubblico, in modo che la riduzione delle imposte si trasformi in una pari riduzione di spesa pubblica. Queste due motivazioni a favore della riforma vanno quindi nella stessa direzione; è probabile però che i “falchi” anti-debito spingano per tagli immediati alla spesa pubblica, argomentando contro possibili rischi di aumento del deficit pubblico.

La terza spinta è invece più strettamente legata alle politiche “nazionali” che Trump vuole perseguire. I criteri di border adjustment hanno evidentemente l’obiettivo di ottenere, tramite questa strada, quello che è più difficile realizzare con una applicazione generalizzata di dazi all’importazione e sussidi all’esportazione. Anche la scelta di ammortamento al 100% degli investimenti viene vista dall’amministrazione Trump più come incentivo a creare lavoro e produzione, piuttosto che come applicazione di una logica di tassazione cash flow (come nell’impostazione di Ryan).

Trump è il politico più lontano dal possedere visioni generali. Se si tratta di difendere le produzioni negli USA sosterrà il protezionismo, se invece si tratta di difendere i grandi dominatori del web, che hanno le principali sedi in America, allora va bene la libertà di movimento dei capitali abbinata al criterio della tassazione nel paese di residenza.

In conclusione, la riforma fiscale è un tema sul quale la sintonia tra Trump e la maggioranza del Congresso è maggiore che non su altri temi. Un terreno difficile per i democratici, i quali probabilmente useranno l’argomento di una distribuzione degli sgravi favorevoli ai più abbienti, ma dovrebbero anche sollevare quello della difesa dei servizi sociali e degli investimenti pubblici.

Schede e storico autori