Troppa flessibilità del lavoro fa male all’innovazione?

Armanda Cetrulo, Valeria Cirillo e Dario Guarascio esaminano il rapporto tra flessibilità del lavoro e innovazioni e sostengono che la prima può ostacolare le seconde. A tal riguardo, essi mettono in luce il ruolo che, in alcuni regimi tecnologici, può svolgere la conoscenza specifica dei lavoratori all’interno delle imprese e delle industrie. Richiamando i risultati di un recente studio sull’innovazione nelle industrie europee gli autori mettono in evidenza, in particolare, una relazione negativa tra uso intenso di lavoro temporaneo e innovazione di prodotto.

Esiste una relazione tra flessibilità del mercato del lavoro ed innovazione tecnologica? Sono almeno due le ragioni che rendono rilevante una risposta al quesito. La prima. La progressiva ‘flessibilizzazione’ dei mercati del lavoro – intesa come l’eliminazione di quelle che la teoria economica neoclassica identifica come ‘rigidità’ che si frapporrebbero tra il lavoro e la sua efficiente allocazione: tutele contro i licenziamenti, minimi contrattuali, norme a tutela dell’agibilità dei sindacati, limitazione all’uso del lavoro temporaneo – è stata la ricetta di politica economica che, dalla metà degli anni 90’ in poi, ha caratterizzato la quasi totalità delle economie avanzate con l’obiettivo dichiarato di stimolare l’occupazione e favorire un migliore incontro tra domanda ed offerta di competenze (con un atteso impatto positivo sulla produttività del lavoro e, dunque, sulla crescita economica). La seconda. La globalizzazione dei mercati e la rapida diffusione di tecnologie quali l’ICT hanno reso l’innovazione tecnologica – in particolare, la capacità di innovare sul piano tecnologico e qualitativo i prodotti collocati sul mercato – lo strumento chiave per competere ed acquisire quote di mercato a livello nazionale ed internazionale.

In un simile contesto, la produzione di analisi e di evidenze empiriche concernenti il (possibile) legame tra l’introduzione di flessibilità nel mercato del lavoro e la capacità di imprese ed industrie di generare nuovi prodotti emerge come una condizione necessaria per: i) valutare gli effetti diretti e indiretti delle riforme del mercato del lavoro sin qui portate avanti sul processo innovativo ii) calibrare eventuali nuovi interventi tesi a promuovere occupazione, produttività ed innovazione. Le evidenze ad oggi disponibili, tuttavia, non forniscono un quadro chiaro circa la relazione tra flessibilità ed innovazione. Inoltre, la possibilità di identificare in modo empiricamente robusto tale relazione passa attraverso l’esplicita considerazione dell’eterogeneità, circa le traiettorie ed i regimi tecnologici, che caratterizza i settori produttivi e le imprese. Da questo punto di vista, le teorie economiche evoluzioniste di ispirazione Schumpeteriana enfatizzano l’influenza del regime tecnologico prevalente nei diversi contesti produttivi sul contributo che il lavoro – attraverso le conoscenze, l’esperienza professionale accumulata nel tempo e la partecipazione dei lavoratori alle decisioni d’impresa –può dare allo sviluppo delle innovazioni. Studiosi tra cui Kleinknecht e colleghi (Kleinknecht, A., van Schaik, F. N., & Zhou, H. “Is flexible labour good for innovation? Evidence from firm-level data”, Cambridge Journal of Economics, 2014), ad esempio, hanno mostrato come in presenza di regimi tecnologici caratterizzati da elevata concorrenza e moderata capacità tecnologica delle imprese – i cosiddetti regimi ‘Schumpeter Mark I’ – la conoscenza tacita e ‘firm-specific’ nonché l’esperienza accumulata nel tempo dai lavoratori all’interno del perimetro organizzativo dell’azienda abbiano effetti marginali sul processo di generazione delle innovazioni. Al contrario, quando prevale un regime tecnologico di tipo ‘Schumpeter Mark II’ – nel caso cioè di industrie e mercati ove le imprese detengono rilevanti quote di mercato e la Ricerca e Sviluppo e l’innovazione sono elementi cardine della strategia competitiva delle stesse imprese –, il contributo della conoscenza ‘firm-specific’ di cui i lavoratori sono portatori si rivela un ingrediente fondamentale ai fini di innovazioni di prodotto capaci di accrescere ricavi e valore aggiunto. Ed è proprio l’accumulazione di questa conoscenza cosiddetta “firm-specific” ad essere minata nel caso di un eccessivo impiego di flessibilità esterna.

Inforcando le lenti della teoria economica evoluzionista, la flessibilità si configura dunque come una caratteristica istituzionale che, incidendo sul grado di certezza circa la durata dei rapporti di lavoro oltre che sul clima organizzativo, può influire sulla capacità di accumulare conoscenza e prassi organizzative utili ad alimentare l’innovatività di imprese ed industrie. Quest’influenza, sottolineano Kleinknecht e i suoi coautori, è tanto più rilevante quanto più il regime tecnologico prevalente è di tipo ‘Schumpeter Mark II’. A dispetto della loro rilevanza, queste connessioni tra istituzioni del mercato del lavoro, conoscenza e innovazione non sono state analizzate in modo approfondito dal punto di vista empirico, cosa che invece è accaduta per la relazione tra flessibilità, occupazione e dinamica della produttività. In un lavoro di recente pubblicazione, al quale rimandiamo per approfondimenti (Cetrulo, A., Cirillo, V., & Guarascio, D. , “Weaker jobs, weaker innovation. Exploring the temporary employment-product innovation nexus”, Laboratory of Economics and Management (LEM), Sant’Anna School of Advanced Studies, 2018), abbiamo testato empiricamente l’effetto di uno degli elementi cardine della flessibilità del lavoro in Europa – l’uso di contratti temporanei – sulla propensione ad introdurre nuovi prodotti. L’analisi è condotta sulle industrie (manifattura e servizi) di Italia, Spagna, Francia, Germania e Paesi Bassi osservate nel corso degli anni 1998-2012. Il legame tra intensità nell’uso di contratti temporanei e innovazione di prodotto è studiata distinguendo il regime tecnologico delle industrie utilizzando sia la tassonomia proposta da Kleinknecht (Schumpeter Mark I vs II) che quella introdotta da Peneder (“Technological regimes and the variety of innovation behaviour: Creating integrated taxonomies of firms and sectors,” Research Policy, 2010) che consente di classificare le industrie per la rilevanza ricoperta dalla conoscenza internamente accumulata quale fattore di stimolo all’innovazione. Nel primo caso (la classificazione Schumpeter Mark I e II), l’attribuzione delle industrie ai due regimi è stata effettuata calcolando l’indice di Herfindal-Hirschman relativo al grado di concentrazione delle immobilizzazioni immateriali tra le imprese afferenti a ciascuno dei settori presi in considerazione. In questo modo, è stato possibile differenziare i settori in virtù della maggiore dispersione (Mark I) o concentrazione (Mark II) di un elemento, le immobilizzazioni immateriali, strettamente connesso all’accumulazione di conoscenza legata alla produzione di innovazioni. Nel secondo caso, si è fatto riferimento ad una tassonomia esogena – quella di Peneder (2010) – che consente di distinguere le industrie tra creative – maggiormente dipendenti dalla conoscenza ‘firm-specific’ a cui contribuiscono i lavoratori con la loro esperienza – ed adattive – tendenti ad acquisire la conoscenza e l’innovazione dall’esterno dunque meno dipendenti dallo stock di conoscenza accumulata all’interno.

La figura 1 fornisce una prima rappresentazione descrittiva della relazione tra quota di lavoratori temporanei (in ascissa) e innovazione di prodotto (in ordinata) raggruppando le industrie per paese (Germania=DE, Italia=IT, Francia=FR, Paesi bassi=NL e Spagna=ES) e grado di rilevanza della conoscenza accumulata seguendo la tassonomia di Peneder (HC=alta cumulatività, MC=media cumulatività e LC=bassa cumulatività). Le sfere rappresentano altresì l’intensità dell’indice di Herfindal-Hirschman: più grande la dimensione della sfera più il settore si caratterizza per un regime tecnologico vicino allo ‘Schumpeter Mark II’.

    Figura 1. Relazione tra contratti temporanei e innovazione di prodotto

La figura mostra una tendenziale relazione negativa tra intensità nell’uso di contratti temporanei e innovazione di prodotto nelle industrie. D’altra parte, i dati mettono in luce una forte eterogeneità geografica – industrie localizzate nel centro-nord che si caratterizzano per un’ intensità innovativa relativamente superiore e del sud Europa che si caratterizzano per un’inferiore intensità innovativa e, in particolare nel caso spagnolo, per un massiccio uso di contratti temporanei – e in termini di regimi tecnologici – con i settori dove si riscontra la concentrazione maggiore di immobilizzazioni immateriali e classificati come HC e MC (ovvero i settori dove è preponderante l’uso di conoscenza accumulata internamente per lo sviluppo delle innovazioni) che mostrano intensa innovazione di prodotto e quote relativamente basse di lavoratori temporanei. Per verificare se la relazione negativa tra flessibilità (misurata attraverso l’uso di contratti temporanei) e innovazione di prodotto che sembra emergere dall’ispezione descrittiva preliminare è confermata una volta controllato per i fattori di offerta (tasso di istruzione dei lavoratori e intensità degli investimenti tecnologici nei vari settori), di domanda e strutturali che potrebbero celarsi dietro la dinamica di entrambe le variabili si è stimata una specificazione econometrica che arricchisce modelli analoghi precedentemente proposti da Kleinknecht.

I principali risultati ottenuti sono sintetizzabili come segue. L’uso intensivo di contratti temporanei sembra penalizzare la dinamica innovativa nell’intero campione di industrie e paesi presi in considerazione. Al contrario, la presenza di mercati del lavoro relativamente più ‘rigidi’ – rigidità misurata includendo per ciascun paese considerato nell’analisi l’indice di protezione del lavoro EPL fornito dall’OCSE – sembra andare di pari passo con una maggiore propensione a inserire innovazioni di prodotto dando supporto alle ipotesi della teoria evoluzionista. Distinguendo esplicitamente i settori per regime tecnologico si riscontra, inoltre, come l’effetto negativo che la flessibilità pare esercitare sull’innovazione è particolarmente acuto nei settori che hanno nella conoscenza interna un input innovativo chiave. Ciò sembra indicare che un eccessivo riscorso alla flessibilità possa avere effetti ‘strutturali’, ovvero di indebolimento della dinamica innovativa anche nei settori ad alta innovatività e propensi all’uso della conoscenza interna (e quindi al coinvolgimento dei lavoratori nel processo innovativo).

Queste evidenze sono significativamente in linea con quanto recentemente mostrato sul Menabò da Canal e Gualtieri circa la maggiore propensione all’innovazione da parte delle imprese che adottano modelli organizzativi tendenti alla partecipazione ed alla valorizzazione dei lavoratori. Per tornare alla domanda iniziale, sembra possibile affermare che la flessibilità del lavoro ha un legame con la capacità innovativa delle imprese e delle industrie e che questo legame può non essere positivo, in particolare in presenza di regimi tecnologici che richiedono un’attenta valorizzazione di conoscenze e competenze per poter generare innovazioni di successo. Da questo punto di vista, le future riforme del mercato del lavoro che interesseranno le economie europee dovrebbero tenere in seria considerazione le eterogeneità strutturali ed i possibili ‘effetti collaterali’, in termini di minore capacità innovativa, che nuove dosi di flessibilità potrebbero determinare.

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