Triangoli e rettangoli: teoria e mitologia della contrattazione decentrata

Fabrizio Patriarca, intervenendo nel dibattito sull’opportunità di differenziare i salari a livello territoriale, tra Nord e Sud, richiama l'attenzione su diversi problemi analitici che occorre superare per giungere alla conclusione che tale differenziazione produrrà effetti benefici per il Mezzogiorno. In ogni caso, Patriarca sostiene che anche qualora tali effetti si verifichino, è elevato il rischio che il monte salari dei lavoratori del Sud diminuisca e il beneficio sia soltanto delle imprese.

Recenti studi sul mercato del lavoro italiano, a partire da quello di Boeri, Ichino, Moretti e Posch (Unintended Consequences of Nominal Wage Equality Across Regions) hanno approfondito il tema dei differenziali territoriali nei salari reali, sostenendo la necessità di accantonare la contrattazione nazionale a favore di modelli più o meno decentrati, territoriali o aziendali. In questi studi, la determinante principale dei differenziali nei salari reali sono i divari territoriali nei livelli dei prezzi, il cui effetto domina quello dei differenziali nei salari nominali (di segno opposto nonostante la contrattazione nazionale).

Visto che utilizzare gli indici territoriali dei prezzi al consumo per misurare il valore reale del salario nominale si presta a diverse obiezioni, si sfrutta l’informazione sui prezzi degli immobili, in quanto incorporerebbero le componenti non di mercato dei consumi come i servizi pubblici locali. Le critiche che vengono mosse a questa soluzione di misurazione appartengono al filone ampio e secolare della letteratura che affronta il tema generale del confronto tra individui diversi in condizioni diverse, letteratura che include il premio Nobel Amartya Sen. Non è su questo però che mi voglio soffermare, quanto sulle conclusioni di policy che dovrebbero derivarne. In realtà tutte le evidenze a difesa della metodologia empirica suggerirebbero una conclusione immediata e rilevante. Se infatti i valori immobiliari fossero un indicatore affidabile del potere d’acquisto, perlomeno più dei consumi, e della qualità dei servizi pubblici, allora la recente rotta tutta italiana della cancellazione delle imposte patrimoniali e dell’aumento delle imposte dei consumi andrebbe invertita, per ridurre le iniquità del sistema fiscale, che si adotti il principio della capacità contributiva o quello del beneficio. Ma la conclusione è un’altra: smantellare la contrattazione nazionale in modo che i salari del Sud si riducano “aggiustandosi al più basso costo della vita”. Diversamente dalle metodologie e dai dati, questa idea non è molto originale, trattandosi di una riedizione delle gabbie salariali e del mantra che il problema dell’occupazione in Italia è il costo del lavoro.

Come spesso accade ai seguaci di questo mantra, si confida senza dichiararlo in un’elasticità delle curve di domanda di lavoro sufficientemente elevata. Diversamente, la proposta non sarebbe molto rilevante (anche se potrebbe essere appealing per riviste outstanding in cerca di studi che utilizzino database e metodologie di frontiera per avanzare proposte dal sapore “market based”). Da questo punto di vista c’è un esperimento naturale che permetterebbe di stimare – avendo l’accesso all’universo dei dati INPS – tale elasticità: la decontribuzione sui nuovi assunti introdotta nel 2015. Si tratta, è vero, di un incentivo temporaneo e non permanente (questione che al tempo deve essere sfuggita agli alfieri delle politiche pubbliche efficienti, probabilmente coinvolti nella fase Zen di certa politica italiana), ma il valore è consistente, rappresentando circa il 30% del costo del lavoro per 3 anni, ovvero per una durata di poco inferiore a un terzo della durata media di un contratto a tempo determinato (la tipologia di contratti al tempo definiti “a vita”). L’intervento è equivalso quindi ad una riduzione permanente al margine del costo del lavoro superiore al 10% a cui è corrisposto un aumento dell’occupazione che anche nelle stime più rosee da campagna elettorale è inferiore all1%. In altre parole, per aumentare del 5% l’occupazione al Sud bisognerebbe “consentire” ai salari di dimezzarsi. Possiamo però accontentarci di qualche zero virgola di incrementi occupazionali e considerare comunque che il gioco valga la candela, ovvero che ciò possa giustificare i costi di transizione, derivanti dallo smantellamento del sistema di relazioni industriali italiano. Il che richiede anche di sorvolare sul fatto che la contrattazione nazionale non si occupa solo di salari ma anche di altro, che richiede un livello nazionale per evitare competizioni sugli standard (le fasce di turnazione, i limiti allo straordinario, i fondi pensione categoriali, e tanto altro).

Diamo per scontata anche un’altra ipotesi non sempre esplicitata dagli economisti del lavoro: escludiamo, cioè, che siano rilevanti eventuali effetti di equilibrio economico generale, ovvero che modificando le condizioni nei diversi mercati del lavoro si modifichino i prezzi dei beni nei vari mercati locali. Quest’ipotesi, necessaria per un’analisi di equilibrio parziale, si giustifica quando gli effetti di equilibrio generale si possono considerare di secondo ordine.

Ciò appare plausibile, qualora negli altri mercati non vi siano imperfezioni e quindi gli effetti indiretti non siano di segno diverso e dominino quelli diretti. Tuttavia, un tale contesto non spiegherebbe il punto di partenza dell’analisi, quello dei differenziali dei prezzi locali. Infatti, se i prezzi non dipendessero dalle imperfezioni del mercato del lavoro e al contempo non ci fossero altre imperfezioni rilevanti negli altri mercati, dovrebbe valere la legge del prezzo unico. Se invece le imperfezioni degli altri mercati fossero rilevanti, il passaggio alla contrattazione decentrata configurerebbe una politica di first best in un contesto di second best, ovvero non si potrebbero escludere effetti indiretti in grado di ribaltare i risultati finali.

Il modello teorico di base della letteratura in esame cerca di risolvere questo problema, ma in realtà rivela una visione del problema piuttosto curiosa, che richiederebbe ben altre politiche. Esso racconta la storia di due mercati uguali, con gli stessi prezzi, salari e tassi di occupazione, di cui uno (il Nord) viene colpito da uno shock positivo esogeno che ne aumenta la produttività. Ciò determina flussi migratori dal Sud che poi si arrestano in equilibrio comportando prezzi degli immobili più alti al Nord e minori Sud. Il salario unico nazionale impedirebbe gli aggiustamenti indiretti che parzialmente conterrebbero gli effetti di spiazzamento dell’occupazione al Sud. Se così fosse, però, le politiche di first best sarebbero ben diverse e, tra l’altro, riporterebbero in linea i salari reali: spostare tutti i lavoratori al Nord, ricollocare parte della migliore capacità produttiva del Nord al Sud e viceversa, o in alternativa, per chi crede, pregare perché anche al Sud si abbia uno shock esogeno positivo sulla produttività.

A noi economisti le ipotesi irrealistiche sono familiari. E dunque lasciamo da parte questo modello, evitando così di doverne trarre le conseguenze (e di accettare uno story-telling poco digeribile per chi conosca un po’ di storia dei differenziali territoriali italiani), e restiamo nell’analisi parziale con differenziali di prezzo “manna from heaven”. Compiamo un altro sforzo di immaginazione, ignorando che il flusso migratorio in Italia non è finito (come nel modello di cui sopra), e soprattutto non è da Nord a Sud, poiché ciò non è coerente con il punto di partenza – un equilibrio con maggiori salari reali al Sud. Si potrebbe ipotizzare che le migrazioni siano dovute alle diverse probabilità di occupazione, ma se il rischio di disoccupazione entrasse nel modello tra le scelte dei lavoratori, allora dovremmo includerlo anche nella misurazione dei diversi “poteri di acquisto” e se il salario nominale fosse pesato con le probabilità di disoccupazione, allora i differenziali cambierebbero di segno, e un premio salariale al Sud sarebbe efficiente in quanto premio per il rischio di disoccupazione. Mettendo da parte i flussi migratori evitiamo anche un’altra bella grana, cioè dover spiegare perché non tutti emigrano e quindi modellare il costo dello spostamento. In questo caso avremmo due imperfezioni nel mercato del lavoro che interagiscono. È una strada interessante da esplorare, che – come in tutti i casi in cui due imperfezioni interagiscono – può portare anch’essa a risultati controintuitivi. Ma per esplorarla occorre qualche sforzo di matematica.

Il punto ora non è la metodologia né tantomeno la coerenza logica delle ipotesi o il complesso e l’entità degli effetti attesi della politica di decentralizzazione contrattuale. Il punto è: cui prodest?

I promotori di tali politiche le considerano un modo per migliorare le condizioni al Sud. L’impressione è che gli effetti distributivi di benessere di tali politiche non siano stati approfonditi.

Prendiamo il caso di scuola di una simile politica. Nella figura si rappresentano due mercati del lavoro. Il quadrante di sinistra è il mercato “Nord”, in cui la curva di offerta è più verticale per effetto di un minor valore, in termini reali del salario percepito dall’offerta. Il quadrante di destra è il Sud.

In ciascun quadrante è rappresentato l’effetto del passaggio dalla contrattazione centralizzata (linee tratteggiate) alla decentrata (linee puntinate), con un salario pre-riforma che si colloca tra i due salari corrispondenti agli equilibri decentrati.

L’effetto di benessere complessivo è ovviamente positivo: due mercati del lavoro segmentati raggiungono un benessere complessivo maggiore se il prezzo è differenziato (aree CS+CN e DS+DN).

Tuttavia, a meno di casi estremi in cui l’occupazione vari in una misura paragonabile al suo livello di partenza, i triangoli nelle figure sono sempre più piccoli dei rettangoli contigui. Di conseguenza l’effetto di benessere sarà di sicuro positivo per il complesso delle imprese (CS+ CN+AS-BN): le imprese al Sud avranno il vantaggio che deriva dall’abbassamento del salario (AS) e dal profitto marginale sugli occupati aggiuntivi (CS); al Nord al beneficio derivante dai profitti sull’ampliamento dell’occupazione (CN) si contrapporrà una perdita per l’aumento dei salari (BN). Ci sarà anche un beneficio per i lavoratori del Nord dove aumentano sia il salario sia l’occupazione(DN+BN), ma l’esito sarà sicuramente negativo per i lavoratori del Sud (DS-AS), dove il monte salari complessivo diminuisce anche se l’effetto occupazionale è positivo, a causa della riduzione del salario. Inoltre, utilizzando semplici richiami di economia pubblica è facile verificare che se le curve di domanda di lavoro al Sud fossero poco elastiche, cioè se avessimo il sospetto che al Sud ci siano anche altri problemi rilevanti oltre (eventualmente) al costo del lavoro, allora l’occupazionale rimarrebbe sostanzialmente invariata, mentre anche il benessere aggregato dei lavoratori diminuirebbe.

Dunque, (avendo escluso effetti indiretti e costi di transizione) potrebbe esserci un effetto complessivo positivo, ma la distribuzione dei benefici invita a chiedersi: cosa significa “aiutare il Sud”? Diminuirne il monte salari complessivo? Ridistribuire a livello nazionale dai salari ai profitti o dai lavoratori del Sud a favore di quelli del Nord?

C’è poi un ultimo punto, che potrebbe neutralizzare ogni effetto residuo positivo di benessere (per i profitti o per i lavoratori del Nord). È la questione, nota in letteratura, come quella del rettangolo di Tullock. Una politica che impone la redistribuzione di un surplus (i rettangoli del nostro grafico), è un caso di rendite contendibili, e quindi dissipabili. In altre parole, i possibili vincitori di un tale gioco potrebbero impegnare risorse in attività di pressione per sostenere tale politica. La letteratura del rettangolo di Tullock ci dice solo che se i gruppi di interesse sono coesi, dissiperanno tutti gli incrementi di benessere attesi in tali spese, con l’effetto che rimangono solo le perdite, però non ci dice come misurare o individuare tali spese improduttive. A chi fosse interessato consiglio di partire dal classico esempio di rent seeking individuato da questa letteratura: l’accademia.

Se gli interessi delle imprese però dovessero prevalere su quelli dei lavoratori del Sud, e si procedesse allo smantellamento, i più danneggiati sarebbero coloro che lavorano o vogliono lavorare nelle aree svantaggiate, mantenendo il proprio centro degli affetti e quindi parte dei propri consumi altrove; infatti, i loro salari reali sarebbero i più bassi in assoluto. Una tipologia di lavoratori che spesso dissocia lavoro e famiglia è quella dei ricercatori e professori universitari. Dunque, chi appartiene a questa categoria e vive al Nord avrà di certo meno incentivi a spostarsi al Sud, anzi restando al Nord guadagnerà anche di più. Sarebbe un’ulteriore inefficienza, sicuramente di secondo ordine. Tuttavia, riguardando un’istituzione chiave nel processo di accumulazione del capitale umano, acuirebbe ulteriormente quei differenziali di produttività che sono il punto di partenza ma mai il punto di arrivo di questa letteratura.

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