Tramonto del ‘secolo americano’?

Nel dibattito politico-culturale bilanci e previsioni storiche sono spesso rischiosi. Ma è difficile ritrarsi dall’impressione che mutamenti profondi siano in corso, e che la recente sconfitta politica, prima che militare, di Israele in Libano ne sia conferma. L’insediamento ai suoi confini di truppe d’interposizione dell’ONU e dell’esercito libanese forse non ridurrà l’instabilità politica dell’area, ma certo testimonia un insuccesso dell’operazione e anche della politica mediorientale statunitense.

Proviamo a riassumere alcuni dei più rilevanti mutamenti in corso: 1.Espansione economica e politica della Cina in Africa e America Latina. Che il bisogno di assicurarsi rifornimenti di materie prime per il futuro sviluppo industriale sia alla base di questa accresciuta presenza, è evidente, ma che gli accordi stipulati o in fieri vedano la Cina accingersi a sostituire in Africa, nel conflitto di egemonia con gli Stati Uniti, una Francia declinante sembra altrettanto evidente. Non meno importanti sono le iniziative cinesi destinate a promuovere sviluppo in America Latina, si vedano gli accordi recenti con Brasile ed Argentina e gli investimenti in queste ultime settimane nell’industria petrolifera venezuelana, iniziative e accordi che agevolano nell’area esperienze di mercato comune e di autonomia dagli Stati Uniti. Si tratta di un processo ancora agli inizi, ma che presenta implicazioni non dissimili dai processi che hanno portato in alcuni decenni all’Unione Europea. 2. Successo dell’euro come seconda moneta mondiale di riserva, la cui quota mondiale tende a crescere non solo nelle riserve delle banche nazionali ma anche nel risparmio e negli scambi dei privati. 3. Costituzione intorno all’Iran di un’area politica anti-statunitense a prevalenza sciita, dal Libano all’Iraq, con forte radicamento popolare, grandi cedole petrolifere e crescente popolarità nel mondo islamico, dalla Libia all’Indonesia, mentre la Turchia sembra piuttosto destinata ad integrarsi nella, o a fianco della, Unione Europea, allentando i suoi legami attuali con Stati Uniti e Israele.

Tacciamo dell’andamento disastroso della bilancia commerciale statunitense, aggravato da un forte deficit federale interno, compensato soltanto dalla emissione di titoli di stato, che peraltro vedono gli acquirenti recenti concentrarsi fra Cina e Giappone, con tutti i rischi di un monopsonio anomalo. Tutto ciò avviene mentre lo sviluppo dei paesi asiatici e la crescita del loro interscambio sta sostituendo l’area atlantica con l’area del Pacifico come centro mondiale di scambi. Non si tratta di osservazioni originali, né abbiamo particolari competenze per segnalarne nuove implicazioni. Ciò su cui vorremmo piuttosto cercare di riflettere, sottolineando la profondità dei processi storici, è il ruolo delle identità culturali in questi processi.

Nei pastoni giornalistici estivi, crisi dell’università e ‘fuga dei cervelli’ da molti anni tengono banco, il che la dice lunga sia sul posto che formazione e ricerca occupano nella gerarchia di interessi dell’opinione pubblica, un posto estivo appunto, sia sulla fantasia dei giornalisti. In questi pastoni svettano dichiarazioni di italiani che fanno ricerca negli Stati Uniti, per lo più sconosciuti, e ciò serve per rassicurare giornalisti e lettori nel confermarli su ciò che già pensano di sapere.

E’ possibile andare oltre questi pastoni? Come stanno veramente le cose? E’ difficile negare che in ambito scientifico la ricerca statunitense abbia per lungo tempo avuto il primato in molti settori, almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, e che la spesa per l’apparato militare sia stata decisiva per il mantenimento di questo primato. Ma se sul terreno dell’innovazione e sviluppo il primato statunitense è stato reale, non altrettanto si può dire della ricerca di base, dove ricerca europea coordinata, basti citare il CERN, e ricerca sovietica, basti citare quella che ha prodotto i propulsori spaziali, sono state autonome e competitive. Se poi passiamo alla formazione superiore, è indubbio che la qualità media europea sia superiore a quella statunitense, e che ancora superiore in quantità e qualità sia oggi la formazione superiore nei maggiori paesi asiatici. Se in passato la ‘campagna acquisti’ sul mercato dei cervelli, ancor più che la produzione endogena, ha visto vincenti gli Stati Uniti, oggi i più alti investimenti in capitale umano nell’area asiatica, la diffusività delle nuove tecnologie e la delocalizzazione delle attività produttive stanno cambiando, anche nel mondo della ricerca, il panorama mondiale.

Ma il bilancio andrebbe esteso a tutto quanto chiamiamo cultura. Qui sarebbe necessario riflettere sulla storia dei modelli di istruzione superiore negli Stati Uniti, dove le grandi università, che sono la sede primaria per ricerca e innovazione, prima sono state espressione di confessioni riformate, poi hanno mutuato il modello ottocentesco tedesco, infine durante il New Deal sono state influenzate dall’emigrazione intellettuale europea dal continente, ciò che in varia forma tuttora perdura. Non troppo diverso è il bilancio artistico, se lo distinguiamo dal mercato, dove con le sole eccezioni del jazz, del cinema e forse del musical le forme espressive hanno continuato a vedere la produzione europea al centro del mondo, affiancata oggi da nuove espressioni letterarie e musicali prevalentemente anglofone ma di origine culturale asiatica e caraibica, prime avvisaglie di una letteratura e di una musica mondiali, figlie anch’esse della globalizzazione e dei flussi migratori. Se pensiamo ai gruppi teo-con e neo-con intorno a Bush, ancora di filoni culturali europei in prevalenza si tratta, ed in particolare di intellettuali provenienti dall’ebraismo dell’Europa orientale e da settori eterodossi del movimento comunista europeo.

Ciò su cui sembra a noi valga la pena di riflettere è che se la locomotiva dello sviluppo è stata finora statunitense, la produzione di idee, anche di quelle con cui gli Stati Uniti si sono di volta in volta autoidentificati, è stata prevalentemente europea. Oggi sono forse i paesi asiatici a porsi come locomotiva, e certo sono i loro più alti tassi di sviluppo la causa prima dei rincari per energia e materie prime, ma la questione di fondo è in che misura le tradizioni culturali di questi paesi sapranno misurarsi col nuovo, dalle tecnologie all’organizzazione sociale, in che misura sapranno mantenere identità proprie e forse esportarle insieme alle merci che già producono in misura crescente e competitiva. Se pensiamo al dibattito sui ‘valori asiatici’ che ha accompagnato, anche recentemente, la lettura critica dei diritti dell’uomo, così come i vincitori euroamericani della seconda guerra mondiale li hanno imposti al mondo a partire dal 1948 con la commissione presieduta dalla Signora Roosevelt, dibattito di cui poco l’Occidente si è curato, forse potremmo avere stimoli per una visione meno provinciale e meno univoca dello stato filosofico del mondo.

Insomma è sul terreno delle idee che risulta utile tornare. Non vogliamo certo negare che gli Stati Uniti abbiano finora dominato il mondo, né che l’anglo-americano sia, oggi ancor più di ieri, la lingua delle comunicazioni internazionali, in attesa di essere forse sostituita dallo spanglish. Ciò che vorremmo solo ricordare, anzitutto a noi stessi, è che per dominare il mondo potenza economica e forza militare sono necessarie ma non bastano: occorrono anche idee, simboli, miti di fondazione capaci di produrre una identità vincente.

Proprio su questo terreno sembra a noi che il ‘secolo americano’ volga al tramonto. Finora l’identità statunitense è stata quella della frontiera, di un mondo aperto dove l’iniziativa del singolo ha illimitate possibilità di sviluppo e di autocostruzione, un mondo unificato da una simbologia patriottica elementare, costruita su alcuni passi della Costituzione federale e, forse ancor più, su rituali e memorie bellico-funerarie. Ma nel mondo politico-culturale contemporaneo la frontiera è svanita, sia per il peggioramento delle condizioni di vita di ampie fasce della popolazione statunitense, sia per la sua sostituzione simbolica con muraglie elettrificate che cercano senza successo di frenare l’immigrazione dei chicanos, un’immagine di fortezza assediata che cinema e televisione moltiplicano oggi con insistenza nella campagna mediatica contro il terrorismo.

L’identità fondante è ora quella di un fondamentalismo cristiano che si intreccia con i valori del libero mercato. Che questi ultimi possano da soli risultare culturalmente vincenti appare dubbio, anche a partire dalle masse statunitensi, al cui interno sembrano assai più popolari le proposte di misure protezionistiche contro la Cina o l’Europa ed il desiderio di vedere crescere, proprio mentre stanno diminuendo, gli ammortizzatori sociali, mentre la battaglia liberista più condivisa sembra piuttosto quella del rifiuto dei protocolli ambientali di Kyoto.

E’ dunque sul terreno del fondamentalismo religioso, fra movimenti pentecostali e telepredicatori carismatici, che si viene costruendo la nuova identità degli Stati Uniti, l’unica capace di tenere uniti, almeno per un po’, wasp, latinos, afroamericani e asiatici. Si tratta di un cristianesimo sui generis, dove il popolo americano appare come Nuovo Israele scelto da Dio, assai lontano dalle pur fra loro diverse espressioni delle confessioni cristiane europee e latino-americane, e che unifica emotivamente una popolazione di immigrati rimasta profondamente eterogenea e priva di identità culturali comuni, anche per lo stato disastrato in cui versano le strutture scolastiche. Non sembra tuttavia che questa nuova “religione americana” sia materia vincente di esportazione, anche se il proselitismo delle sette cristiane di origine statunitense in Africa e America Latina è notevole e ricco di finanziamenti, troppi forse per essere soltanto prodotto di fede. Sembra a noi insomma che la singolare mescolanza fra religiosità di cristiani rinati (born-again) e supermercati Wal-Mart possa forse agevolare le vittorie elettorali repubblicane ma sia difficilmente destinata a divenire la nuova forma spirituale del mondo.

E’ certamente ancor presto per fare la storia dell’11 settembre 2001 e dei suoi effetti. Ma la guerra mondiale al terrorismo dichiarata dall’amministrazione repubblicana, dove ‘terrorismo’ coincide talora con fondamentalismo islamico, talora con Islam tout court, da cui una nuova crociata mondiale cristiana, è certamente anche segno di debolezza culturale della società statunitense, segno di una identità fragile che riesce a manifestarsi solo identificando un nemico come male assoluto, da cui la concentrazione di valori e risorse nella guerra contro il male. Si tratta di una scelta non nuova nella storia politica statunitense, figlia della teologia federalista dei Pilgrim Fathers e del primato del patto con dio su quello fra gli uomini, ma che solo oggi si presenta col rifiuto esplicito del diritto internazionale e colla disdetta degli accordi internazionali in passato siglati. L’assenza per la prima volta nella storia degli Stati Uniti di cerimonie pubbliche per i morti in combattimento, morti che sono in prevalenza immigrati aspiranti alla cittadinanza o disoccupati mercenari, testimonia infine di un passaggio dal patriottismo spettacolare alla guerra contro un nemico invisibile, guerra che passa anche attraverso il disciplinamento sociale interno e la restrizione dei diritti individuali.

Mentre l’Europa appare troppo divisa dai costi dell’unificazione e dalla diversità dei progetti politico-culturali in gioco per ergersi in tempi brevi a soggetto politico mondiale, mentre la Russia salda il debito estero grazie ai dividendi energetici ma esita a scegliere fra Unione Europea e Cina il proprio partner strategico, mentre il mercato unico della globalizzazione inizia a frammentarsi in aree regionali, anche in seguito a nuove guerre per le fonti energetiche e a nuovi protezionismi, con divisioni cui si accompagna un indurimento nelle relazioni internazionali, mentre deindustrializzazione e cessione di settori-chiave a gruppi stranieri iniziano a suonare la ritirata per il capitalismo statunitense, la fiducia nel futuro e la sicurezza di sé delle giovani classi dirigenti asiatiche, espressione di culture nazionaliste non meno inquietanti di quelle che hanno segnato la storia del XXº secolo, testimoniano di mutamenti già avvenuti sulla carta politica e spirituale del mondo dove, all’inizio del XXIº secolo, sembra piuttosto spuntare l’alba di un ‘secolo asiatico’.

Gian Mario Cazzaniga

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