Tramonto del partito politico?

A distanza di qualche mese dalle elezioni dell’aprile 2008, i cui risultati hanno modificato la geografia parlamentare suscitando una messe di commenti, vale forse la pena di provare a riflettere in un quadro storico meno ravvicinato su modi e ragioni con cui siamo arrivati a questa nuova situazione.

Sembra a noi che la novità rilevante non stia nella semplificazione del quadro politico con la nascita di un sistema bipolare, ma nel cambiamento delle forme di organizzazione della politica che vede mutata la natura stessa dei partiti o, per dirla più semplicemente, vede la scomparsa del partito politico di massa. Se questa lettura è valida, come cercheremo di argomentare, allora il “terremoto” elettorale non è un avvenimento che si è realizzato con le elezioni, dunque nel tempo breve, ma che è maturato con la trasformazione della società italiana e con essa delle forme della politica, dunque nel tempo lungo. Proviamo a farne la storia.

Nel dopoguerra i partiti che venivano dalla lotta antifascista hanno costruito sezioni territoriali che costituivano un radicamento nel tessuto sociale, esteso a sezioni di produzione nelle fabbriche e nei trasporti pubblici. Se le sedi erano state ottenute gratuitamente, recuperando le antiche prese dai fascisti ed occupandone altre del Partito Nazionale Fascista e associazioni collaterali, la vita organizzativa fu sostenuta in misura rilevante dall’autofinanziamento. I partiti promossero inoltre organizzazioni collaterali culturali, professionali, ricreative e sportive, non limitandosi ad assolvere funzioni istituzionali di rappresentanza della società civile nelle istituzioni politiche, ma operando come promotori di vincoli associativi di massa in entrambe le sfere.

La formazione di nuovi gruppi dirigenti politici e istituzionali, in una fase in cui a livello locale la stessa persona era talora dirigente di partito, sindacalista e amministratore, vide i grandi partiti nazionali, Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano e Partito Socialista Italiano, cui si univa con insediamento popolare limitato ad alcune zone il Partito Repubblicano, capaci di coinvolgere tutti gli strati della popolazione. Si arrivò così a costruire un nuovo ceto politico di massa, in misura non piccola di provenienza operaia, artigianale e contadina, che contribuiva a formare la nuova classe dirigente del paese. In questa fase possiamo parlare dei partiti come associazioni radicate nella società civile che rappresentano nelle istituzioni in coerenza col dettato e collo spirito della Costituzione repubblicana.

Il mutamento nelle forme di organizzazione della politica, che solo oggi sembra arrivare a compimento, iniziò negli anni ’70 e fu motivato da una triplice ragione: la nascita delle regioni, il sorgere di grandi movimenti sociali, la nascita del finanziamento pubblico.

La nascita delle regioni contribuì ad accelerare lo sviluppo di un ceto politico diffuso ed a mutare la distribuzione pubblica di risorse, processo che nei prossimi anni vedrà forse la sua conclusione coll’introduzione di forme di federalismo fiscale. Ma l’ampliamento quantitativo del ceto politico andò di pari passo col restringimento dei settori sociali coinvolti, questione su cui i commenti politici non si sono soffermati e che sembra invece a noi questione importante.

La trasformazione coinvolse il sindacato, che da una parte coll’istituzione della delega e poi con canali pubblici di finanziamento, tramite i patronati, divenne autoreferenziale, cessando d’essere un serbatoio di quadri politici per i partiti ed in particolare per il PCI, dall’altra iniziò un reclutamento privilegiato dei propri dirigenti nel settore del pubblico impiego, sia raccogliendo con questa selezione le lotte sociali che si erano sviluppate nella scuola, nell’università e nelle stesse professioni liberali, sia utilizzando leggi che offrivano distacchi e monte-ore per attività sindacali con particolare larghezza nel settore pubblico a differenza di quello privato. Va rilevato come una anomalìa del sindacalismo italiano sia quella di organizzare al proprio interno i pensionati: questo settore è divenuto centrale per l’elezione dei gruppi dirigenti a partire dagli anni ’80 e contribuisce a motivare la strategia del sindacato fondata su moderazione salariale e forte pressione per la spesa sociale, in particolare pensionistica.

Va analogamente rilevato come gran parte del ceto politico nazionale si sia formato, in particolare nel decennio 1956-66, negli organismi e nella lotta politica delle rappresentanze degli studenti universitari, a cui seguì una leva di nuovi dirigenti figli delle lotte del ’68 nella scuola e nell’università, da cui una tendenza alla omogeneità sociologica delle pur diverse componenti partitiche del ceto politico. Il processo è stato influente in particolare sul PCI per la formazione dei gruppi dirigenti e degli eletti nelle istituzioni, dove una composizione sociale a forte presenza operaia, selezionata nella lotta antifascista prima e nelle lotte sociali del dopoguerra poi, è stata sostituita da processi di riproduzione e cooptazione interna attraverso la federazione giovanile (FGCI) a prevalente composizione piccolo borghese.

Andavano intanto mutando le forme stesse della politica con la legislazione sul finanziamento pubblico, che verrà crescendo per cinque canali: 1. rimborsi per le elezioni nazionali sulla base dei voti raccolti; 2. rimborsi per le elezioni europee e regionali; 3. varo di leggi speciali finalizzate a produrre finanziamenti extralegali utilizzando avvenimenti eccezionali, leggi cresciute in particolare negli anni ’80, con e senza calamità naturali. Se il controllo pubblico sulla rendita urbana è sempre stato fonte di finanziamenti per tutti i partiti, la produzione di leggi speciali ha comportato un vero salto di qualità in quanto ha finito per spostare la fonte del finanziamento da cointeressenze per spese necessarie a spese finalizzate in primo luogo a produrre il finanziamento stesso; 4. moltiplicazione del finanziamento pubblico attraverso l’aumento di spesa per parlamentari e parallelo aumento per le rappresentanze locali. A ciò si è unita una nuova o accresciuta retribuzione dei consiglieri di circoscrizione e dei membri di consigli di amministrazione di imprese ed enti pubblici, il cui numero si è moltiplicato, insieme a progetti di fattibilità, agenzie, consorzi e consulenze; 5. finanziamenti dell’Unione Europea per progetti a cofinanziamento, in particolare regionali, relativi all’agricoltura, alla formazione professionale ed alla conservazione di beni culturali, progetti talora direttamente elaborati e comunque prevalentemente varati in sede politica.

Va rilevato che la storia della legislazione sul finanziamento pubblico non conosce episodi di opposizione parlamentare, nemmeno da parte di piccoli partiti d’opposizione, costituendo anzi un caso esemplare di cartel party per la letteratura politologica. Un parallelo unanimismo è registrabile per la ristrutturazione delle politiche di spesa nelle istituzioni locali.

La crisi di Tangentopoli ha finito per portare a regime il sistema di finanziamento ai partiti. Se negli anni ’80 le leggi speciali avevano prodotto finanziamenti illegali ma erano poi state oggetto di inchieste giudiziarie, la ristrutturazione negli anni ’90 del circuito economico parallelo ai partiti e da essi governato con la costituzione di consorzi, società di consulenza e società di servizi, a cui vanno crescenti attività pubbliche terziarizzate, ha creato una situazione in cui il finanziamento ai partiti è cresciuto ma la sua illegalità è diminuita. Questa crescita legale dei flussi finanziari e delle cariche pubbliche è stata una risposta, non priva di umorismo, al referendum del 1993 per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti che era stato approvato dal voto popolare ed alla battaglia sostenuta dal mondo imprenditoriale per la riduzione dei costi della politica.

Scrivendo ‘portare a regime il sistema di finanziamento ai partiti’ non intendiamo derivarne giudizî morali ma solo sviluppare una analisi sociologica dell’attuale sistema politico che, nella misura in cui si regge su attività legali delle istituzioni e delle imprese con esse intrecciate, tende a mutare anche le basi sociali dei partiti che ora intrecciano figure di provenienza dal pubblico impiego attraverso il sistema dei distacchi e figure professionali, tecniche e amministrative, che operano nel circuito economico parallelo a cui vanno le attività pubbliche terziarizzate.

Questo processo, che ha origine fin dai primi anni ’70, aiuta a comprendere come le due novità politiche successive, lo sviluppo della Lega a partire dagli anni ’80 e la nascita del partito-impresa di Berlusconi negli anni ’90, siano confluite senza traumi nel generale processo di trasformazione sociologica dei partiti tradizionali, al di là dei frequenti mutamenti di nome. Da una parte la Lega, nata dal mondo sociale e culturale della sinistra, ha prevalentemente reclutato nel mondo politico democristiano, dall’altra il partito di Berlusconi, nato con quadri di impresa, ha anch’esso attinto al mondo democristiano e del nuovo associazionismo cattolico, sorto negli anni ’70 con forti istanze identitarie e sviluppatosi con una presenza nella società civile ricca di associazionismo economico. Si è così realizzato in Italia nell’ultimo ventennio un avvicinamento al sistema politico statunitense caratterizzato da ceto politico professionale, comunicazione politica fondata sugli effetti mediatici, comitati elettorali al posto delle sezioni di partito, bipartitismo e spoils-system.

Questa evoluzione delle forme della politica trova riflesso in una evoluzione altrettanto rapida della distribuzione del reddito per gruppi sociali. L’introduzione dell’euro ha visto un forte aumento di reddito per le figure di intermediazione finanziaria e commerciale, all’interno di un generale spostamento di risorse dal lavoro dipendente al lavoro autonomo ed al profitto d’impresa, fenomeni che in altri paesi dell’Unione Europea come la Germania non sono avvenuti.

L’analisi sociale richiederebbe più ampi spazi di quanto non consenta il nostro Menabò e l’esigenza di sintesi finisce per dare un taglio troppo semplificato a questa nostra riflessione. La crisi del partito politico di massa è un fenomeno che investe tutto l’Occidente, ma è indubbio che il processo di avvicinamento al modello statunitense sia stato nel caso italiano più rapido e più radicale di quanto non stia avvenendo in paesi a tradizione socialdemocratica. Né è dubbio che in un quarto di secolo un paese che aveva il ventaglio dei redditi più basso ed il più forte partito comunista dell’Occidente sia divenuto un paese dove le differenze di reddito sono fra le più alte e dove la sinistra non ha più un solo rappresentante in Parlamento. Poichè non crediamo al “destino cinico e baro” di saragattiana memoria, un supplemento di riflessione storica e sociale per coloro che vorrebbero capire le ragioni del mutamento, ed in particolare per coloro che si ostinano ancora a credere alla classe operaia come possibile soggetto politico, non guasterebbe.

Gian Mario Cazzaniga

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