Tra scienza e politica: Taranto, area sacrificale, alla ricerca della giustizia ambientale

Lidia Greco si occupa della questione ambientale a Taranto. Dopo aver ricostruito lo storico rapporto tra industria e ambiente nell’area, Greco approfondisce i termini di un dibattito fortemente polarizzato nel quale si confrontano due posizioni portatrici di argomentazioni opposte ma entrambe costruite su contenuti tecnici e scientifici ai quali si affida il compito di generare consenso pubblico. Greco sottolinea, invece, la necessità di un discorso politico che affronti l’inestricabile legame tra modelli di produzione capitalistica, relazioni sociali di produzione e riproduzione e ambiente.

Il ‘caso ILVA di Taranto’ è al centro della cronaca giudiziaria e politico-industriale italiana degli ultimi sette anni. La formalizzazione della vendita dello stabilimento alla multinazionale franco-indiana ArcelorMittal (AM) nel settembre 2018 chiude solo parzialmente la vicenda apertasi nel 2012. L’accordo ha previsto infatti un periodo di transizione di cinque anni durante i quali la questione industriale e quella ambientale dovranno trovare un reciproco accomodamento e una piena accettazione sociale. Le vicende delle ultime settimane – es. la questione dell’immunità penale per gli amministratori, un’eventuale nuova Autorizzazione integrata ambientale, i dati epidemiologici, gli incidenti sul lavoro – indicano ancora una volta la difficoltà di questo percorso.

Gli eventi del 2012 hanno costituito l’occasione per interrogarsi sul dilemma che trova contrapposti il diritto al lavoro e il diritto altrettanto inalienabile a lavorare e vivere in contesti salubri, mettendo fine alla latenza di una questione rimasta per varie ragioni sullo sfondo. Non che fosse mancata fino ad allora la consapevolezza della serietà della situazione ambientale legata alla presenza dell’acciaieria più grande d’Europa: tuttavia l’occupazione e il benessere legati al lavoro nella fabbrica, la mancanza di efficaci sistemi di controllo dell’inquinamento e dei danni sanitari avevano per lungo tempo sopito la questione socio-ambientale. La presenza dello stabilimento siderurgico ILVA a Taranto ha causato inquinamento e morte sin dalla sua creazione -all’inizio degli anni Sessanta- con episodi di mobilitazione sociale e interventi della magistratura che già nel 1982 aveva condannato gli amministratori dello stabilimento per l’inquinamento causato dai parchi minerari.

Nel 1990 l’area jonica, insieme ad alcuni comuni dell’hinterland, viene dichiarata “area ad alto rischio ambientale” dal Ministero dell’Ambiente (da sola produceva il 92 per cento delle emissioni di diossina in Italia) e solo nel 1998 documenti ufficiali attestano l’esistenza di una grave crisi ambientale e sanitaria. Con la privatizzazione e la vendita dello stabilimento al gruppo Riva (nel 1995), la questione ambientale si amplifica e diventa questione socialmente condivisa (L.Greco e F. Chiarello, in Economic and Industrial Democracy, 2016). L’imprenditore privato domina e condizione la società locale ed è riluttante a prendere in considerazione i costi sociali legati alla produzione industriale. Si susseguono tuttavia interventi che richiamano la dirigenza della fabbrica alle sue responsabilità: nel 2002 il Comune di Taranto, la provincia e Legambiente citano Riva in tribunale a seguito di una sentenza della magistratura riguardante la situazione critica dei parchi minerali; nel 2008 il governo regionale pugliese approva la legge 44 che stabilisce una soglia per le emissioni industriali nell’atmosfera, in particolare per la diossina, e ne affida l’attuazione all’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale che, in caso di violazioni, è obbligata a fermare le produzioni inquinanti. Gli studi epidemiologici rilevano che nell’area di Taranto le incidenze di malattie respiratorie, cardiovascolari e tumorali sono molto più elevate dei livelli medi (P. Comba et al. in Epidemiologia e Prevenzione, 2012); nessuno, neppure i bambini, sono risparmiati.

Più recentemente, uno studio commissionato dalla Regione Puglia (per il periodo 2009-2014) suggerisce l’esistenza di una relazione diretta a Taranto tra emissioni industriali e danno sanitario. In questo clima di maggiore attenzione e consapevolezza si inserisce un intervento della magistratura che a luglio del 2012 nella persona del GIP del Tribunale di Taranto Patrizia Todisco, dispone il provvedimento di sequestro, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’ILVA e misure cautelari per alcuni indagati nell’inchiesta per disastro ambientale. Viene nuovamente certificato, e questa volta in maniera incontestabile, il disastro ambientale provocato dalla fabbrica e vengono portate allo scoperto responsabilità politiche e amministrative a diversi livelli. Scrive la magistrata che “la gestione del siderurgico di Taranto è sempre stata caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni che il suo ciclo di lavorazione e produzione provoca all’ambiente e alla salute delle persone …. ancora oggi gli impianti dell’ILVA producono emissioni nocive che, come hanno consentito di verificare gli accertamenti dell’Arpa, sono oltre i limiti e hanno impatti devastanti sull’ambiente e sulla popolazione”. Il processo denominato ‘Ambiente Svenduto’ è ancora in corso e in quella sede saranno accertate le specifiche responsabilità penali degli imputati; intanto la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per non aver protetto i cittadini di Taranto dalle emissioni tossiche dell’ILVA.

Il dibattito politico-ambientale a Taranto si è svolto, da allora, in un clima di incertezza caratterizzato sia dal susseguirsi degli interventi della magistratura e del Governo sia dal rilievo che la vicenda industriale ha assunto a livello nazionale e internazionale, anche perché ad essere coinvolto era un settore di base ritenuto chiave per l’economia europea. Si tratta di un dibattito difficile che si è presto polarizzato su due istanze che si confrontano aspramente senza davvero dialogare (L. Greco, in Environmental Values, 2018).

Riuniti sotto varie sigle (la storica Peacelink, Fondo Anti-diossina, Legamjonici, i più recenti Genitori tarantini, Verità per Taranto, Tamburi Combattenti), gli attivisti ambientalisti ma anche semplici cittadini chiedono a gran voce la chiusura dell’acciaieria e il superamento della ‘dipendenza dal percorso’ che storicamente lega Taranto alla siderurgia. Il sostegno a questa argomentazione si nutre di evidenze scientifiche che dimostrano la gravità della situazione e l’impatto devastante della produzione industriale per la salute e l’ambiente (I. Iavarone et al. in Epidemiologia e Prevenzione, 2012; R. Pirastu et al. in Epidemiologia e Prevenzione, 2014; ARPA, AReSS, ASL-Ta, Rapporto di Valutazione del danno sanitario Stabilimento ILVA di Taranto, 2017). In questo quadro una convinzione forte accomuna i gruppi ambientalisti e cioè l’impossibilità di porre rimedio a tutto questo se non con una soluzione radicale, certamente dolorosa in termini strettamente economici e occupazionali, ma necessaria a mettere fine ad un lento ma inesorabile stillicidio di morti e degrado. Spezzare la dipendenza di Taranto dall’acciaio implica l’avvio di un diverso percorso di sviluppo orientato verso attività economiche ritenute compatibili con l’ambiente e la salute dei cittadini. Le proposte in questo senso rimandano a progetti industriali da insediare nell’area dell’acciaieria, alla riconversione e bonifica della stessa, alla valorizzazione del settore turistico, a nuove forme di agricoltura. L’esperienza di altre città che hanno abbandonato l’industria pesante e intrapreso una riconversione radicale quali Bilbao, Pittsbourgh, Glasgow entra spesso nel dibattito, anche se si tende a trascurare la specificità storica e produttiva delle diverse situazioni prese a modello di riferimento.

Dall’altro lato si staglia la posizione di quanti sostengono la compatibilità ecologica dell’industria a Taranto e di quanti prendono atto che la chiusura dello stabilimento risulta impraticabile nelle attuali condizioni politiche ed economiche. Il problema, si sostiene, non è l’industria in quanto tale ma piuttosto un’industria che non tiene conto delle sue esternalità negative. Si tratta pertanto di assicurare a Taranto una presenza industriale che, a differenza del passato, sia in grado di coniugare lavoro, benessere e salute. Tutto ciò risulta possibile mettendo in campo i ritrovati tecnologici che, in riferimento alla siderurgia, permettono di ottenere delle lavorazioni non inquinanti: es. filtri di ultima generazione sui camini, adeguato trattamento degli scarti della lavorazione, a partire dalle acque, copertura dei parchi minerari. La proposta più radicale lanciata da alcuni, tra cui il Presidente della Regione Puglia Emiliano, subordina la continuazione della produzione siderurgica a Taranto alla completa ristrutturazione del processo produttivo attraverso la sostituzione del carbone, come materia prima di alimentazione dell’impianto, con il gas naturale e poi con l’idrogeno e la conseguente eliminazione delle cokerie dell’area a caldo.

Le due posizioni che hanno monopolizzato il discorso pubblico sono portatrici di argomentazioni opposte ma, paradossalmente, fanno entrambe ricorso a contenuti tecnici e scientifici per costruirle e generare consenso pubblico. È la scienza a poter/dover offrire soluzioni ed eventualmente a legittimare i modelli da perseguire; è ancora la competenza degli esperti a legittimare questa o quella posizione. È d’altro canto palese l’espunzione di qualsiasi dimensione politica all’interno di un discorso che dovrebbe portare a riflettere sull’inestricabile legame tra modelli di produzione capitalistica, relazioni sociali di produzione e riproduzione, e ambiente. Manca una riflessione più profonda sugli obiettivi, fini e valori del modello di sviluppo italiano di cui quello di Taranto è consustanziale e sulle disuguaglianze ed emarginazioni che esso produce. A questo proposito posizioni minoritarie non riescono a guadagnare visibilità e attenzione pubblica.

Secondo R. Bullard (Dumping in Dixie: Race, Class, and Environmental Quality, Westview Press, 1990), nell’ambito delle dinamiche capitalistiche e della divisione industriale del lavoro, alcune zone e gruppi sociali sono sacrificati in nome di processi più ampi che rendono possibile e proficua l’accumulazione stessa. In questo senso Taranto è un’area sacrificale (L. Greco in G. Ferrarese, Il bilanciamento difficile, 2019 in via di pubblicazione). Invece di connotarsi come un conflitto sociale legato all’ambiente e alla ricerca di una giustizia ambientale, fondata sia sull’equa distribuzione dei vantaggi e delle opportunità ambientali (aspetti distributivi) sia sul pieno coinvolgimento dei cittadini nelle scelte (aspetti sostanziali/procedurali), il conflitto a Taranto finisce per presentarsi come questione post-politica in cui l’assenza di riconoscimento di responsabilità e di prospettive strategiche si combina con la ricerca di una soluzione quasi esclusivamente tecnica e scientifica del problema: questo ruota intorno ai limiti fisici della crescita, al degrado del territorio, alla scarsità di risorse senza un approfondimento delle finalità e dei valori del modello di sviluppo che coinvolge l’area e del modo in cui si distribuiscono costi e benefici. A Taranto tuttavia non si tratta solo di creare un mondo compatibile con la vita e in grado di riprodurla; si tratta anche di rappresentare la realtà e interpretarla nel suo insieme, conferendole senso principalmente attraverso la creazione di legami tra gli individui che in essa trovano ragione della loro esistenza.

Il nodo della questione industriale nell’area jonica rimane aggrovigliato e la strada della ricerca di un equilibrio accettabile tra salute, lavoro e ambiente è piena di difficoltà e di ostacoli. I temi della salute e dell’inquinamento sono sull’agenda politico-istituzionale e, tuttavia, il perseguimento di una giustizia ambientale deve passare dal riconoscimento della natura politica di tale questione e dal coinvolgimento dei gruppi sociali -in primo luogo lavoratori e comunità locali – che più di altri sopportano i costi sociali della produzione industriale e legano la loro esistenza materiale, ma anche identitaria e culturale, all’ambiente attorno ad essi.

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