Tra la vita e l’economia. Un tragico trade-off?

Marcello Basili e Maurizio Franzini riflettono sulla scelta apparentemente tragica che la pandemia pone tra vita ed economia. Dopo aver elencato le reazioni prevalenti, che spesso si alimentano dell’illusione che non vi siano scelte difficili da compiere, Basili e Franzini sostengono che occorre alleviare il grado di conflitto tra quegli obiettivi vitali, in modo da minimizzare i costi sociali complessivi della pandemia e indicano alcuni elementi di una simile strategia nella prospettiva della Fase 2.

All’inizio di Aprile, l’Economist ha pubblicato un articolo con questo titolo: Il triste calcolo. Covid-19 ci obbliga a scegliere tra la vita, la morte e l’economia. Di fronte ad un’affermazione come questa possono aversi diversi tipi di reazione.

Il primo consiste nello scegliere la vita oppure l’economia mostrando di attribuire un valore prossimo allo zero, rispettivamente, all’economia e alla (perdita della) vita. Le affermazioni emblematiche nei due casi forse sono queste: non possiamo preoccuparci dell’economia (talvolta sottintendendo: di quei materialisti che grazie ad essa si arricchiscono); non possiamo rinunciare alla libertà, a iniziare da quella di mercato (e, anzi, dobbiamo mostrare di essere pronti a pagare un prezzo anche alto per difenderla).

Molti troveranno queste posizioni poco convincenti pensando che l’economia serve anche ai più deboli e, d’altro canto, che praticare la libertà di mercato può voler dire mettere a rischio non solo la propria vita ma anche quella di altri che, di conseguenza, sarebbero un po’ meno liberi. Inoltre, forse cinicamente, si potrebbe ricordare a chi si preoccupa solo dell’economia che anche le vite umane hanno un valore economico che, sempre un po’ cinicamente, è oggetto di misurazione. Il valore statistico della vita umana secondo l’Istat è 342 mila euro, se lo moltiplichiamo meccanicamente per il numero dei morti in Italia arriviamo a circa 7 miliardi di euro. Secondo recente articolo pubblicato sulla Chicago Booth Review se in USA si avessero 1.4 milioni di decessi (60% popolazione contagiata con un tasso di fatalità inferiore a 1%) il loro valore economico raggiungerebbe i 6 trilioni di dollari (30% del PIL), mentre il lockdown delle attività economiche non essenziali costerebbe 20 miliardi al giorno (7 trilioni all’anno). E, si noti, il valore economico della vita risente anche di malattie e sofferenze.

Il secondo tipo di reazione consiste nel coltivare la speranza che quel conflitto tra valori non sia poi così marcato. Si tratta, nel linguaggio degli economisti, di negare l’esistenza dei trade-off assumendo che il perseguimento di uno dei due obiettivi generi costi minimi – o facilmente minimizzabili – in termini dell’altro.  Questo è quanto accade allorché si leggono, ad esempio, i dati sull’epidemia traendone una tranquillità che essi difficilmente consentono o quando si sottovaluta che un prolungato e mal gestito blocco delle attività economiche può generare, per altra via, costi rilevantissimi alla vita di molte persone.

Nel terzo tipo, probabilmente il meno frequente, rientrano le reazioni di coloro che si propongono di allentare i trade-off – e, quindi. di rendere maggiormente compatibili i due obiettivi – facendo in modo che il perseguimento in misura maggiore di uno dei due comporti una perdita minore in termini dell’altro. Lo scopo è minimizzare i costi complessivi derivanti, per chi nutre gli appropriati valori, dal mettere in pericolo, per così dire, sia la vita sia l’economia.

Oggi, di fronte alla prospettiva della Fase 2 e alle enormi incertezze che l’accompagnano tutte queste reazioni hanno avuto modo di manifestarsi anche se con ben frequenza e intensità ben maggiori nel caso delle prime due. Spiegare perché sia così non è difficile, vista la diversa difficoltà del compito che però, proprio di recente, qualcuno ha preso a svolgere. Un esempio è il citato articolo sul Chicago Booth Review.

La nostra convinzione è che abbiamo bisogno soprattutto di reazioni di questo tipo e la speranza è che esse ispirino sempre più gli organi di governo. Ma non possiamo certo nascondere le nostre preoccupazioni. In queste note vorremmo dare un piccolo contributo indicando alcuni elementi che dovrebbero essere tenuti in massimo conto nel definire una strategia di allentamento del trade-off, che a noi sembra anche coerente con un atteggiamento di ragionevole precauzione sul quale il Menabò ha già attirato l’attenzione.

Il primo elemento è una valutazione appropriata della situazione di partenza. Cosa sappiamo esattamente di questa epidemia in Italia? Poco, in realtà.

Non conosciamo con precisione il numero di contagiati. Nei primi due mesi di diffusione i dati ufficiali parlano di circa 200,000 contagiati. Ma quanti sono i casi cosiddetti asintomatici? Le previsioni sulla numerosità dei casi asintomatici sono l’indicatore principe di questa profonda incertezza. Alcuni modelli dicono che gli asintomatici sono milioni (6 secondo il modello dell’Imperial College) altri invece poche decine di migliaia. Chi ha ragione non è una questione di lana caprina, perchè significa avere un’idea di quello che ci aspetta. Il professor Crisanti, l’autore del “miracolo” veneto, ha sottoposto a tampone naso-faringeo la popolazione di Vo Euganeo, uno dei focolai inziali dell’epidemia italiana, e ha scoperto che solo il 43,2% dei soggetti contagiati è asintomatico, inoltre che il tasso di replicazione iniziale del virus, il famoso Ro, era 3 all’inizio del contagio per poi crollare a 0,14 alla fine del lockdown.

Non conosciamo il numero dei morti, ma con ragionevole certezza quelli ufficiali sono una sottostima. Un recente studio condotto dal professor Parisi, presidente dell’Accademia dei Lincei, e un gruppo di fisici, afferma che al numero dei decessi ufficiali della protezione civile, andrebbero aggiunti circa 10.000 morti, di cui 7.000 nella sola Lombardia e 1.100 in Emilia-Romagna.

Infine, gli scenari del post- lockdown sono molti e portano a stime molto diverse. Le previsioni si basano su modelli che impiegano sistemi di equazioni differenziali, deterministiche o stocastiche, il cui numero varia a seconda della tipologia di soggetti considerati. Si va da tre equazioni nel caso dei sistemi SIR (Susceptible, Infected, Recovered) della Protezione Civile, a 4 dei sistemi SEIR (Susceptible, Exposed, Infected, Recovered) delI’Imperial College di Londra, a 8 dei sistemi SIDARTHE (Susceptible, Infected, Diagnosed, Ailing, Recognized, Threatened, Healed, Extinted) di Giordano et al., pubblicato recentemente su Nature. Inoltre sono presenti numerosi parametri quasi sempre solo stimati, come il tasso di replicazione del virus, il ciclo del virus, la percentuale di asintomatici, ecc., che rendono le previsioni molto incerte e soprattutto instabili. Infatti il numero dei contagiati varia da 1 a decine di milioni e così pure il numero dei decessi. Per esempio la Protezione Civile prevede da 430 mila a 549 mila ricoverati nelle unità di terapia intensiva, a seconda del livello di differenziazione per classi di età della suscettibilità degli individui al virus. Sono dati drammatici da tenere comunque presenti quando si cerca di fornire indicazioni operative per trovare soluzioni in grado di contemperare esigenze contrapposte.

Da essi si trae la conclusione che la fine del lockdown deve essere progressiva e lenta soprattutto per le attività che non si prestano a un’agevole applicazione delle norme di distanziamento sociale. Le recenti decisioni del Governo vanno in questa direzione, ma occorre forse una migliore articolazione che faccia uso delle più attendibili informazioni. Al riguardo le indagini sulle condizioni di lavoro e la loro rilevanza per i rischi di contagio, di cui si è dato conto anche sul Menabò, potrebbero essere di aiuto.

In una logica di ragionevole precauzione appare, poi, necessario assicurare che siano soddisfatte numerose condizioni in grado di limitare il contagio e di alleviare i suoi eventuali effetti sulla salute delle persone.

La prima riguarda le mascherine. Non soltanto quelle chirurgiche ma anche le ffp2 e ffp3 devono essere disponibili in quantità sufficienti a prezzi accettabili, il che significa che dovremmo avere delle linee produttive italiane. Il commissario per l’emergenza, Arcuri, ha assicurato contratti con aziende italiane per la produzione di 25 milioni al giorno di mascherine chirurgiche, disponibili in tale quantità dall’inizio dell’estate, che saranno vendute a 0,50 centesimi. Tuttavia il prezzo di vendita sembra avere già creato tensioni con produttori e rivenditori e probabilmente verrà integrato con un sussidio governativo e dall’abolizione dell’IVA. Inoltre i dati comunicati dal Politecnico di Torino indicano che 8 mascherine su 10 non superano nemmeno i test preliminari di efficienza. Resta comunque aperto il tema delle mascherine ffp2 e ffp3 per le quali dipendiamo da contratti con paesi esteri, ma, come già accaduto, sappiamo che in caso di emergenza nazionale questi contratti non verrebbero rispettati. Occorrerebbe essere in grado di produrre anche questi dispositivi, magari superando i problemi dei brevetti, perché a oggi questa capacità non esiste.

La seconda condizione è disporre di un numero sufficiente di Unità di Terapia Intensiva e soprattutto, di avere la capacità di allestirne in corsa. Dovremmo, quindi, essere in grado di produrre ventilatori polmonari, che rappresentano la strozzatura più importante nell’offerta di posti letto. Se non siamo in grado di fare di meglio delle valvole per le maschere di Decathlon, possiamo copiare i CAPA prodotti da Mercedes e UCL, le specifiche sono on-line gratuitamente.

L’importanza di questa condizione ed in particolare della disponibilità di un adeguato numero di Unità di Terapia Intensiva si apprezza meglio anche alla luce della terza condizione, la quale consiste nella capacità di individuare rapidamente le persone a rischio di contagio (con tecnologie di tracciamento o in altro modo) di verificarne le condizioni (con i tamponi) e eventualmente intervenire, appunto, con terapie intensive.

A questo proposito ricordiamo quanto ha affermato il professor Hans-Georg Kräusslich, direttore del dipartimento di virologia dell’Ospedale universitario di Heidelberg: “esiste un punto critico alla fine della prima settimana del contagio quando, se sei una persona i cui polmoni stanno cedendo, inizia il deterioramento delle condizioni di salute”. Probabilmente questa capacità di rapido intervento è uno degli ingredienti dei risultati nettamente migliori ottenuti dalla Germania almeno fino ad ora (circa 162 mila casi con 6.467 decessi e un tasso di mortalità del 4% mentre i corrispondenti dati da noi sono, rispettivamente, 203 mila, 27.682 e 13,6%) ch, naturalmente, presuppone un’ampia disponibilità di posti-letto nelle Unità di Terapia Intensiva: circa 40.000 (previsti in aumento a 56.000) di cui 28.000 liberi all’inizio dell’epidemia (pari a 34 ogni 100.000 abitanti). In Italia, secondo una recente Nota della Banca d’Italia i posti in terapia intensiva erano all’inizio dell’epidemia 5.300, cioè 7-10 ogni 100.000 abitanti; ne sono stati aggiunti 3.360, e ne sono programmati altri 2.400. Dovremmo arrivare a 11.000 posti letto e la loro distribuzione regionale è molto diversa, si va dai 21 posti letto per 100.000 abitanti dell’Emilia-Romagna a meno di 10 per alcune regioni del Sud. Dunque abbiamo tra 1/3 e ¼ dei posti- letto dei tedeschi.

Ma è molto importante, si usi o meno una tecnologia per il tracciamento (che comunque dovrebbe essere il più possibile rispettosa della privacy) poter effettuare in modo rapido tamponi ai casi sospetti. Al 29 aprile sono state sottoposte a test 1.313.460 persone, per un totale di 1.910.761 tamponi; la Germania esegue 350 mila tamponi a settimana ma può arrivare a 700 mila. Peraltro, i dati che emergono da questi test segnalano una distribuzione territoriale molto diseguale del contagio e, in relazione a ciò, potranno essere utili i risultati del test di prevalenza che dovrebbe essere avviato il 4 maggio su di un campione di 150 mila persone, che serve, appunto, per avere un quadro epidemiologico della diffusione del virus, non per dare patenti di immunità.

In conclusione una strategia precauzionale che consente di allentare il trade-off tra l’estensione della cosiddetta riapertura e epidemia richiede: mascherine e guanti per tutti, tamponi di massa, monitoraggio, tracciamento, adeguati posti in terapia intensiva e quarantene severe. A quest’ultimo proposito, come si argomenta su questo stesso numero del Menabò è rilevante anche il disegno delle sanzioni previste per i trasgressori della quarantena.

E’, comunque, importante procedere in modo graduale nelle riaperture privilegiando le attività che, in base anche agli studi di cui disponiamo, possono svolgersi in modo da limitare al massimo forme di contatto pericolose. Per limitare, poi, i danni di chi non può, per ragioni oggettive, soddisfare quei requisiti di sicurezza e quindi non può riprendere in pieno la propria attività si potrebbe cercare di immaginare forme anomale, ma giustificate dagli eventi, di indennizzo.

Questo tentativo di contribuire a delineare una coerente terza reazione al trade-off che abbiamo di fronte è preliminare e parziale. Molto potrà aggiungersi in profondità ed estensione. Ma un punto emerge con chiarezza: allentare il trade-off hai suoi costi. Ma si tratta di costi che, con ragionevole certezza, sono minori di quelli che occorrerebbe sopportare, in un modo o nell’altro, se si scegliesse di collocarsi in un punto qualunque di quella ideale frontiera discendente che oggi collega la vita con l’economia.

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