Sviluppo territoriale: ripartire dal basso attraverso l’alleanza tra imprese e società civile

Per tentare di raddrizzare le disastrate finanze del Paese la scure di Tremonti si è abbattuta sui dipendenti pubblici e sugli enti locali, i più colpiti dalla manovra. Dei ventiquattro miliardi complessivi, la metà grava su regioni, comuni e province. Subito Formigoni, presidente della più ricca regione italiana, ha dichiarato che con questi tagli non ci sono più risorse per il federalismo fiscale (Repubblica, 28 maggio 2010). Si è affrettato a rispondergli Calderoli, sullo stesso quotidiano, dicendo che chi pensa questo o è ignorante o è in malafede. Ma anche se il ministro per la Semplificazione conferma di voler anticipare a giugno i decreti sull’autonomia impositiva “che non costano niente”, indubbiamente i sostenitori del federalismo fiscale ricevono un brutto colpo dalla manovra. Ci sono molto meno risorse da spartire e meno spazio per la solidarietà sociale. Aumenta il rischio che le regioni più ricche facciano di tutto per tenere per sé le poche risorse disponibili. E soprattutto diventa molto più difficile pensare al federalismo come leva per lo sviluppo territoriale.

Questa però può essere anche l’occasione per ripensare allo sviluppo regionale e locale in modo diverso da come è stato fatto finora. Non più cioè in termini di uno sviluppo calato dall’alto attraverso la negoziazione delle risorse fra Stato e regioni, ma come uno sviluppo che parta dal basso, puntando sulle forze vive dell’economia e della società civile. E’ in altri termini ai modelli di crescita endogena che conviene guardare, in particolare ai distretti industriali, i principali esempi di successo dello sviluppo territoriale italiano. Ma naturalmente vi dobbiamo guardare con occhio critico. Anche i distretti stanno infatti subendo i contraccolpi della crisi, dopo aver pagato le conseguenze della globalizzazione, che li ha resi più vulnerabili esponendoli alla concorrenza dei Paesi emergenti. La crisi ha infatti messo in discussione la capacità dei distretti di porsi come modello non solo di successo economico, ma anche di coesione sociale. Il processo di deterioramento del modello distrettuale come fattore di vitalità e compattezza sociale sul territorio era, per la verità, cominciato già prima, con l’allargarsi del “paradigma del benessere” richiesto dalle comunità locali attraverso la maggiore domanda di beni e servizi di utilità sociale, come la tutela ambientale, l’assistenza, la sanità, la formazione, le attività culturali. Tutti servizi affidati in misura crescente al terzo settore, date le difficoltà sempre più evidenti attraversate dal welfare state. La crisi ha fortemente accelerato questo processo, acuendo la domanda di servizi di welfare e cercando di scaricarli sul terzo settore.

Adesso ci troviamo di fronte a quello che lo stesso Tremonti ha definito un “punto di svolta storico”, che impone la necessità di guardare alla realtà in modo disincantato e coraggioso. Lo sviluppo territoriale non può prescindere dal modello distrettuale, che costituisce un punto fermo delle più positive esperienze di crescita nel nostro Paese e che adesso sta rilanciando le esportazioni grazie all’euro debole e alla ripresa in atto al di fuori dell’Europa. Ma questo modello va innervato attraverso altre esperienze di coesione sociale, che hanno ormai una loro storia alle spalle e meritano di essere prese in considerazione. Occorre cioè guardare a quelle organizzazioni della società civile – enti non profit, fondazioni, associazioni di volontariato, cooperative e imprese sociali – che, anche dal punto di vista occupazionale, sono tra le poche realtà in espansione in questo momento. Il terzo settore è indubbiamente una grande forza vitale, che meglio interpreta – in una fase storica di arretramento del welfare state e di crescente richiesta di personalizzazione dei servizi sociali – i bisogni della gente.

Ma quale modello di integrazione fra queste due importanti realtà può in concreto vedere la luce, tenendo conto che le imprese manifatturiere dei distretti sono orientate per definizione al profitto, mentre il terzo settore è formato da organizzazioni non profit?

Il modello deve consistere in una completa valorizzazione dei territori, che, per continuare ad essere una fonte di crescita, benessere e aggregazione, devono puntare alla piena integrazione delle risorse che ne fanno parte. Questo significa non solo focalizzarsi sulle eccellenze e sui punti di forza del territorio, ma anche avere un obiettivo di inclusione per tutte le persone che lo vivono. In altre parole occorre guardare al territorio in un’ottica di bene comune. Sotto questo punto di vista imprese for profit e organizzazioni non profit non sono antitetiche, ma complementari, in quanto sono le due facce della stessa medaglia, lo sviluppo locale, di cui entrambe rappresentano le radici più profonde.

Per realizzare questo modello, in primo luogo è necessaria una governance ambientale e sociale del territorio condivisa tra le forze economiche e sociali più vive presenti in loco. Già adesso in molte realtà distrettuali sono presenti i comitati di distretto, che hanno compiti di programmazione strategica e di dialogo con gli enti pubblici. Perché non far entrare in questi comitati anche le organizzazioni del terzo settore – in particolare le più “strutturate” come i consorzi fra le cooperative sociali – in modo da avere una visione più ampia dei punti di forza e di debolezza del territorio?

Non solo. Ma una più ampia progettualità del territorio si può realizzare attraverso la convergenza delle imprese distrettuali e delle organizzazioni del terzo settore su progetti comuni. Che possono essere sia progetti ad ampio spettro, tali cioè da implicare una vera governance territoriale, sia progetti specifici, come, ad esempio, la costituzione di centri culturali, l’adozione di iniziative per la tutela ambientale e la valorizzazione del territorio, la gestione di determinati servizi sociali (ad es. asili nido) e di formazione presso le imprese, l’implementazione di accordi per l’inserimento nel mondo del lavoro di giovani, soggetti svantaggiati ed extra-comunitari, l’assistenza a persone in difficoltà. Non si tratta di novità assolute, perchè queste iniziative già esistono, ma meriterebbero una maggiore diffusione e una loro istituzionalizzazione, in modo da alimentare e rendere più profondi i legami tra le imprese e la società civile.

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