Sull’orlo di una crisi istituzionale

Gaetano Azzariti si interroga sul significato istituzionale del recente scampato pericolo che la crisi di governo si trasformasse in crisi istituzionale e sostiene che, venuto meno il dialogo tra partiti e Quirinale, ciascuno ha preteso di far prevalere la propria volontà, in qualche modo tutti forzando gli equilibri costituzionali. L’esito è stato, da un lato, la “privatizzazione” dell’organo governo e, dall’altro, lo squilibrio dei rapporti tra forze politiche e presidenza della Repubblica. Tutto ciò invita a riflettere sul futuro assetto dei nuovi rapporti di potere.

Il pericolo sembra sventato, ma il precedente rimane. Per quarantotto ore una normale crisi di governo ha assunto i lineamenti di una rischiosa crisi istituzionale. Motivo scatenante il rifiuto del Presidente Mattarella di firmare il decreto di nomina di un ministro proposto dal Presidente del consiglio incaricato. Il nuovo Governo non si è pertanto potuto formare nonostante il sostegno di forze politiche che riflettevano una maggioranza parlamentare. La reazione immediata e scomposta dei partiti non si è fatta attendere: non solo convocando manifestazioni di protesta contro il garante della costituzione e preannunciando una campagna elettorale caratterizzata dalla parola d’ordine “il popolo contro il Palazzo” (in chiave, dunque, sostanzialmente eversiva), ma si è persino giunti a proporre la messa in stato d’accusa per alto tradimento o attentato alla costituzione del capo dello Stato. La “tragedia” s’è poi rapidamente trasformata in “farsa”: quando due giorni dopo il presunto “colpo di stato” tutto s’è ricomposto e il Governo è stato nominato con soddisfazione di tutti i protagonisti. Sorrisi e strette di mano, parole di elogio, riconoscimento di avere operato con saggezza ed equilibrio hanno sostituito le contumelie rivolte al mite Presidente della Repubblica italiana.

Per alcuni s’è trattato di un fuoco di paglia, classica espressione del folclore italico. Una burletta, in sostanza, che ha segnato però un passaggio d’epoca, verso il “Governo del cambiamento”.

Se, in effetti, non può sottovalutarsi la cesura che i nuovi equilibri politici stanno producendo, con la crisi (definitiva?) delle logiche orizzontali (destra – sinistra) e l’affermarsi di un diverso schema contrappositivo (alto – basso), non per questo può ridursi il significato del passaggio istituzionale richiamato. Anzi proprio questo repentino inabissarsi negli inferi della crisi e sua improvvisa celestiale risoluzione può farci comprendere quale sia l’assetto istituzionale verso cui tendono i nuovi rapporti di potere.

Ma per cogliere il mutamento dobbiamo alzare lo sguardo per prendere in considerazione ciò che è avvenuto prima e che spiega persino lo “scandaloso” atto di diniego di Mattarella e la successiva repentina ricomposizione. Noi giuristi siamo abituati a valutare essenzialmente gli atti formali, ma proprio questo ci porta spesso a sottovalutare i fatti reali. Com’è successo in questo caso, dove l’unica preoccupazione è parsa quella di definire i limiti del potere presidenziale di nomina dei ministri. Eppure dovremmo sapere che i poteri del Presidente della Repubblica sono flessibili, dovendo garantire gli equilibri costituzionali. Essi si espandono nei momenti di crisi per poi doversi ritrarre. Proprio se si vuole conservare un ruolo di potere neutro (che non vuol dire inerme) al Capo dello Stato, rappresentante dell’unità nazionale e organo di intermediazione politica, si devono giudicare i poteri (e gli atti conseguenti) alla luce della funzione di garanzia politica che gli è stata affidata dalla Costituzione e non viceversa. Ciò rende necessariamente articolato il giudizio sull’operato presidenziale che va valutata entro il contesto dato.

Se si ragiona allora sul contesto entro cui s’è svolto l’iter di formazione del nuovo esecutivo ci si avvede dei veri e profondi strappi che la “piccola” crisi (quella di governo) ha prodotto sulla “grande” crisi (quella costituzionale). Almeno due i fenomeni rilevanti: da un lato si è assistito ad una “privatizzazione” dell’organo governo, dall’altro si sono squilibrati i rapporti tra forze politiche e presidenza della Repubblica.

Pochi si sono lamentati della gestione del tutto privata della crisi, sottovalutandone la portata sostanziale. Il programma di governo trasformato in un contratto tra due signori stipulato dinanzi ad un notaio, le cui obbligazioni sono assolte da un loro fiduciario. Nessun ruolo è dato alle istituzioni ed ai soggetti in essi operanti. Nessuna consultazione con i gruppi parlamentari, che si dovranno limitare a registrare la volontà dei capi; nessun coinvolgimento (se non ex post) con chi – nella veste di Presidente del consiglio – dovrà essere responsabile del contratto una volta tradotto in programma politico. Persino le esternazioni di un ministro su questioni di competenza del proprio dicastero – e dunque secondo costituzione di cui è pienamente responsabile – sono poste nel nulla da uno dei due soggetti contraenti (è Salvini ad avere affermato che le opinioni del ministro della famiglia sulle coppie omosessuali non avevano rilievo alcuno, “non facendo parte del contratto”): come se fosse una questione privata. L’esautorazione del Governo, ma anche del Parlamento è alle porte. Tant’è che i conflitti politici che dovessero sorgere in futuro si prevede che non vadano più risolti nelle sedi politiche proprie (Consiglio dei ministri e Parlamento, appunto), ma da un comitato di conciliazione: ancora una volta un organo privato dove dominano i due soggetti contraenti. Nel silenzio dei più – anche della presidenza della Repubblica – con questa crisi di governo si è evidentemente voluto dare ragione a chi aveva sostenuto in passato che “il governo moderno non è altro che un comitato amministrativo degli affari”. Neppure della “classe borghese”, come ritenevano Marx ed Engels, ma solo dei due soggetti contraenti.

Una gestione privata della crisi che ha indotto a non considerare più valide le prassi e i precedenti che da sempre hanno sorretto i rapporti tra soggetti politici e il garante degli equilibri costituzionali. La riservatezza e la leale collaborazione sono le regole non scritte che hanno permesso al capo dello Stato di svolgere la sua opera di risolutore degli stati di crisi. Colloqui, esplorazioni e contatti preventivi sono stati alla base del potere di nomina del Governo nei sessantaquattro casi precedenti. È in tal modo che s’è permesso al Presidente di esercitare il suo ruolo istituzionale. Ora, per il sessantacinquesimo governo della Repubblica i contraenti privati hanno ritenuto di poter fare a meno della sua mediazione per risolvere “tra loro” tutte le questioni politicamente controverse. Finita la contrattazione privata (il programma di governo), individuato il rappresentante di fiducia delle parti da porre a capo del comitato d’affari (il presidente del consiglio), indicati gli altri amministratori delegati (i ministri), reso pubblico il tutto (presentato non alle Camere, bensì alla stampa), s’è passati dal notaio per la stipula. S’è solo sbagliato indirizzo: il Quirinale non è iscritto all’ordine.

A questo punto il Colle è insorto, commettendo un fallo di reazione. In effetti, il rifiuto del Presidente Mattarella si è basato su una interpretazione discutibile (certamente non però eversiva) dell’articolo 92, secondo comma, della Costituzione. Questa disposizione costituzionale – come in ogni altro caso riferibile al capo dello Stato – non specifica la natura dell’atto né ne circoscrive rigidamente i confini. Ed è per questo che i limiti del potere di nomina dei ministri da parte del Presidente devono essere definiti dal suo ruolo di garante e di rappresentante dell’unità nazionale (articolo 87 Costituzione), dovendo rimanere estraneo dunque alla determinazione dell’indirizzo politico cui è titolare la maggioranza politico-parlamentare. Ciò fa dubitare che nella valutazione sulla nomina di un ministro il Presidente si possa spingere sino a precludere la partecipazione di un componente al governo motivate dalle opinioni da questo espresse in passato, anche ove queste fossero state aspramente critiche nei confronti delle politiche monetarie o europee.

È peraltro anche vero che la formula definita in Costituzione (il presidente della Repubblica nomina i ministri “su proposta” del presidente del consiglio) lascia certamente uno spazio d’interlocuzione al capo dello Stato, che in questo caso non si è potuto coltivare di fronte alla indisponibilità del presidente incaricato e l’aggressività delle forze politiche che riflettevano la maggioranza parlamentare determinate ad “imporre” per intero le decisioni concordate esclusivamente tra loro in sede di negoziazione politica sia con riferimento al programma di governo (il cosiddetto “contratto”) sia per quanto riguarda la composizione del governo. Venuto meno il dialogo tra partiti e Quirinale si è commesso più di un errore e ciascuno ha preteso di far prevalere la propria volontà, in qualche modo tutti forzando gli equilibri costituzionali.

Si può dunque discutere la decisione di Mattarella così come i comportamenti difformi rispetto alle prassi tenuti dai partiti. In ogni caso quel che appare certo è che non si può configurare l’atto di diniego della nomina del ministro proposto dal presidente incaricato (non ancora nominato) come reato presidenziale (ex articolo 90 Costituzione) non avendo il capo dello Stato certamente operato per fini politici di parte e contro l’interesse del paese. Anzi, a ben vedere sono stati proprio questi interessi che hanno (discutibilmente) motivato il rifiuto, agevolato dall’atteggiamento di chiusura dei soggetti politici mal disposti ad ogni interlocuzione istituzionale. Si è, dunque, trattato di un complesso problema di interpretazione costituzionale, che coinvolge in primo luogo il piano scivoloso delle prassi e il rispetto dei precedenti, non certo quello della responsabilità penale.

A ben vedere si potrebbe persino supporre che se Mattarella – anziché porre il veto ad un ministro per ragioni legate all’indirizzo politico – fosse intervenuto più energicamente prima, ricordando alle forze politiche che il governo non è un affare privato, ma un organo dello Stato, si sarebbe potuto evitare il fallo di reazione.

Visto l’esito della crisi di governo si può trarre una considerazione conclusiva: alla fine sembra che Mattarella abbia compreso il suo errore, riprendendo il dialogo e sorvolando sulle accuse avventatamente mosse da chi a voluto soffiare sul fuoco dell’instabilità istituzionale minacciando la procedura di messa in stato d’accusa per alto tradimento o attentato alla costituzione. Può dirsi altrettanto per gli altri? Basterà aspettare poco per capire.

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